Guardarci dentro può essere frustrante

 

    Se la presa di coscienza di ciò che sta dentro di me, mi porta ad ammettere che dipendo totalmente da risorse che non sono sotto il mio controllo per ottenere il cambio che desidero e se l'impotenza è radicata nel centro della mia esistenza, allora preferisco vivere in maniera superficiale. E' decisamente più comodo. Nessuno è autolesionista e non c'è peggior dolore per persone in crisi di quello di affrontare un vuoto che non si è in grado di riempire. Sembra, poi, alquanto stupido affrontare il dolore quando è possibile sfuggirlo, negando lo. Non ci entra in testa che, a causa della nostra natura peccaminosa, la via che porta alla felicità passa sempre per, la sofferenza interiore. Noi ci ribelliamo davanti a questa prospettiva. Infatti, non siamo stati creati per soffrire e quando la testa ci batte per la tensione e il nostro cuore si spezza per il rigetto subito, abbiamo bisogno di aiuto. Con profonda passione vogliamo sperimentare la gioia per la quale siamo stati creati.

 

    Nella sofferenza, l'idea che non ci possa essere sollievo per noi diventa insopportabile, è orribile. Come possiamo continuare a vivere con il dolore nella nostra anima provocato dall'aborto di nostra figlia o dalla freddezza di nostra moglie? Come può continuare la vita accanto ad uno sposo che cerca tutte le occasioni per agire in maniera sconsiderata, convinto, però, di essere nel giusto? Come possiamo affrontare una malattia che ci sta sfigurando, il nostro senso di colpa per l'amarezza che sentiamo nel doverci prendere cura di un genitore anziano e solo, le nostre finanze che non ci consentono di arrivare alla fine del mese?

 

    Chiedere, però che i nostri gemiti cessino prima di arrivare in cielo ci allontana da tutto ciò che Dio ha predisposto per questa nostra vita terrena e ci ha messo a disposizione in Cristo Gesù. Dio vuole cambiarci in persone che siano veramente nobili, persone che riflettano una fiducia incrollabile in Colui che ci rende capaci di affrontare ogni situazione della vita e di rimanere, malgrado tutto, fedeli. Dio vuole che siamo delle persone coraggiose, che siamo sinceramente preoccupati di vivere all'interno di una società decaduta, che affrontiamo con onestà ogni battaglia, che ci sentiamo disgustati per ciò che vediamo, ma che in ogni caso siamo preparati per vivere. Con cicatrici, tribolati, ma capaci di amare profondamente. Quando si affronta la realtà che la vita è profondamente deludente, l'unica strada valida è imparare ad amare. E solamente coloro che non sono più divorati dal desiderio di trovare soddisfazione, sono capaci di amare. Solo quanto rimettiamo il nostro anelito di gioia perfetta nelle mani di un Padre in cui confidiamo pienamente, entriamo nella libertà di vivere per gli altri, malgrado la realtà del dolore che ci circonda. Dio, più che pensare al modo di renderci liberi da ogni sofferenza, lavora per trasformare il nostro carattere e renderlo simile a quello di Gesù Cristo. Perché ciò avvenga è necessario che la realtà della nostra anima decaduta venga alla luce, provocando a volte maggior dolore. Acquista così un senso maggiore la dichiarazione di Paolo. " lo penso che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria che dev'essere manifestata a nostro riguardo" (Romani 8:18). Il cambio interiore che ci permette di assaporare Dio con maggior ricchezza è possibile, ma richiede un intervento chirurgico. La malattia, che impedisce il nostro diletto in Dio, si è estesa oltre il punto del nostro maggior sforzo per fare ciò che ci sembra corretto. E non c'è anestesia quando il bisturi penetra nella nostra anima. Questo tipo di cambio, però, dall'interno verso l'esterno, vale il dolore che ci produce. Ci consente di vivere la vita cristiana, ci libera per accettare la sofferenza senza lamentarci, ci rende capaci di amare gli altri malgrado il nostro vuoto e aspettare con una speranza viva la soddisfazione completa che così ardentemente desideriamo.

 

 

 

Fare il bene o essere buoni?

 

    Alcune persone riflettono una o più caratteristiche che vorremmo vedere in noi, ma nessuna presenta il quadro completo di ciò che vorremmo essere. Questa osservazione ci dice che in qualsiasi tappa del nostro sviluppo spirituale saremo una rappresentazione imperfetta di ciò che dovrebbe essere un cristiano. Non possiamo essere perfetti, però, migliori sì.

 

    Il tipo di miglioramento a cui dobbiamo tendere deve essere più profondo di una semplice apparenza esteriore. Possiamo, certo, nominare molte persone che evidenziano norme di comportamento che faremmo bene ad imitare, ma la lista diventa più breve se ci riferiamo a quelle persone di cui ammiriamo le qualità del carattere. Molti sono laboriosi, disciplinati, intelligenti, ospitali, ma pochi sono generosi, compassionevoli, nobili. Queste prime caratteristiche sono molto rispettabili, ma le seconde evidenziano un cambio significativo di condotta.

 

    Vediamo di chiarire ciò che stiamo dicendo. Un tale è molto disciplinato nella cura della sua salute. Resiste alla tentazione di mangiare molti dolci, va a cavallo regolarmente ed evita gli stress da lavoro. Questo comportamento riflette un livello notevole di forza di volontà, di potere decisionale. Un altro reagisce alla sua tremenda frustrazione e alla sua dolorosa lotta nella vita, amando gli altri profondamente. Percepisce la propria pena, ma la utilizza per comprendere meglio il dolore degli altri e la capacità in Dio di essere fortificati. Nobile, misericordioso e ricco sono gli attributi che possiamo dare ad una tale persona.

 

    Osservando atteggiamenti come autodisciplina, metodo e cordialità, possiamo descrivere la persona che ha questo stile di vita come effettiva, rispettabile e sollecita e possiamo anche renderci conto di quanto poco disciplinati noi siamo, con il senso di colpa che ne deriva. Il comportamento della seconda persona, invece, ci porta a dire: Io Voglio amare di più".

 

    La differenza è enorme. Alcuni ci sospingono a fare di più, incrementando i nostri sforzi. Altri, invece, ad essere migliori, tramite una qualità di vita che sembra scaturire da una comunione speciale con Gesù, che va al di là della sana dottrina e della dedicazione adeguata ad una realtà che si sente personalmente. Coloro che riflettono il cuore di Gesù stimolano altri al cambio interiore. Dobbiamo voler essere delle persone diverse e non soltanto persone con una forma di condotta e una conoscenza biblica lodevoli. Cambiare il nostro essere interiore richiede un processo molto diverso da quello necessario per cambiare ciò che faccio o ciò che so. La chirurgia estetica non è adeguata a questo tipo di trasformazione.

 

    Oltre ad essere amabili nei confronti dei nostri coniugi, dobbiamo dedicare loro, senza riserve, le ricchezze profonde che stanno dentro di noi. Oltre ad insegnare ai nostri figli ciò che ci aspettiamo da loro, dobbiamo attirarli, con l'esempio delle nostre vite, nella ricerca di Dio. Oltre a predicare sermoni con una solida base biblica, dobbiamo diventare. dei canali potenti della verità. Oltre a controllare la nostra tendenza alla depressione, dobbiamo gustare l'amore di Dio fino al punto di vivere fiduciosi nella gioia perfetta che ha da venire.

 

    Questo tipo di cambio esige più dello sforzo che noi possiamo fare, perché ha come meta la trasformazione delle parti più profonde del nostro essere. Gesù ci ha fatto intendere molto chiaramente che fare il bene davanti alla sua presenza, richiedeva molto di più che il compimento di certe attività. Disse che tutta la legge dipendeva da due comandamenti: amare Dio e il prossimo. Non possiamo soddisfare questa esortazione neanche in minima parte senza un cambio profondo nel nostro intimo. Lo sforzo morale soltanto, non potrà mai produrre amore genuino.

 

    Ogni problema personale o di condotta (cattivo carattere, desideri sessuali pervertiti, depressione, ansia, gola…) è il risultato, in sostanza, della violazione del comandamento di amare. Imparare ad amare, quindi, non è solo necessario per raggiungere la maturità spirituale, ma è fondamentale per superare i problemi psicologici. Quando ci convinciamo che ogni problema, sia tra persone che dentro le persone, riflette uno stile di relazione che viola i canoni di Dio rispetto all'amore e quando vediamo che imparare ad amare è un lavoro interiore che richiede molto di più di uno sforzo morale, allora avvieremo con ansia un lavoro di introspezione.

 

 

 

Come affrontare le realtà interiori

 

    Paragoniamoci ad un iceberg: la sua parte visibile rappresenta le cose che facciamo, le idee che pensiamo coscientemente e i sentimenti che sperimentiamo dentro di noi. La massa di ghiaccio sotto la superficie dell'acqua rappresenta la parte di noi stessi che non possiamo vedere con chiarezza: le ragioni e le attitudini del cuore, quegli strani impulsi che a volte schiacciano la nostra determinazione a resistere loro, i ricordi penosi ed i sentimenti di rabbia che preferiamo mantenere nascosti sotto la superficie della nostra vita.

 

    Gestire la nostra parte visibile, però, richiede sforzo: dobbiamo optare per fare il bene, studiare per pensare in maniera corretta, controllare l'espressione delle nostre emozioni senza perdere la nostra spontaneità. Ma lo sforzo per fare il bene e controllare le nostre emozioni ci conduce rapidamente alla frustrazione. Se il nostro modello di comportamento è elevato, dobbiamo ammettere che nel nostro interiore succedono molte più cose di quelle che anche con uno sforzo extra possiamo controllare. Che cosa faremo con quella nostra parte che si trova sotto il livello dell'acqua, quegli elementi che non cambiano con il semplice tentativo di fare il bene? La comunità cristiana offre, di solito, tre opzioni per affrontare queste realtà oscure, nascoste sotto la superficie dell'acqua.

 

Opzione n. 1: Compiere il proprio dovere cristiano

    Il concetto più comune, forse, per puntare ad un cambiamento è questo: se ci decidiamo a fare ciò che Dio dice e usiamo questa determinazione e partecipazione nelle attività cristiane, allora in qualche modo il potere di Dio affluisce, permettendoci di vivere come dobbiamo.

 

    Ci viene detto che dobbiamo ubbidire a Dio, però tramite la sua forza. Ogni sforzo per vivere nel potere della carne fallirà inesorabilmente. Esternamente, quindi, facciamo ciò che dobbiamo, comprendendo lo stare immersi nella parola di Dio, pregare e servire gli altri. Realizzando queste cose il potere di Dio riuscirà alla fine a superare tutti quei problemi che si trovano sotto la superficie e così saremo capaci di vivere nella vittoria.

 

    Se falliamo nell'agire esteriore, ci vorrà uno sforzo ancora maggiore, e cioè, più tempo nella lettura della Parola, o nella preghiera, o nel lavoro di testimonianza.

    L'ubbidienza al dovere cristiano e il mantenere la nostra mente e la nostra anima impregnate della verità di Dio, ci impedirà di rattristare o spegnere lo Spirito Santo. Nella misura in cui gli permettiamo di operare potentemente nella nostra vita, la sua grazia ci renderà capaci di fare ciò che è buono. Non c'è, quindi, nessuna necessità di uno sguardo introspettivo. I problemi che ci stanno turbando sotto la superficie si risolveranno da soli, nella misura in cui Dio prenderà il controllo della nostra vita mediante il compimento dei doveri cristiani.

 

    Questo modo d'agire, però, produrrà solo stanchezza, scoraggiamento e delusione. Un giovane cristiano stava lottando da anni contro gli scatti di rabbia, che a volte lo dominavano letteralmente. Le sue parole taglienti avevano spesso ferito profondamente la giovane moglie. Quando riuscì a vedere il dolore che produceva la sua ira, sentì un profondo rimorso e cercò disperatamente di cambiare. Si diede alla lettura delle Scritture e alla preghiera con maggior intensità. Il suo lavoro di co-pastore continuava ad essere meritorio e i fratelli lo amavano, ma lui si sentiva come un ipocrita, valido esteriormente, ma corrotto nel suo interiore. L'osservanza di tutti i suoi doveri cristiani non aveva portato quel cambiamento che lui si augurava.

 

Opzione n. 2: Dipendere dall'opera speciale dello Spirito Santo

    Gli effetti della caduta e la nostra incorreggibile inclinazione al peccato devono essere sottoposti ad un trattamento più energico, e cioè tramite l'opera dello Spirito. Certo, dobbiamo scegliere e praticare il bene, avanzando nella conoscenza di Dio e della sua Parola, ma per elevarci su un piano superiore nella nostra ricerca della santità, è necessario un potere speciale che ci viene messo a disposizione.

 

    I meccanismi per appropriarsi di questo potere vengono compresi in maniera diversa da coloro che considerano che lo Spirito Santo, in qualche modo, deve fluire nella vita di un credente. Alcuni cercano una seconda benedizione o il battesimo nello Spirito Santo, esperienze successive alla salvezza e che sono accompagnate da segni tangibili, come il parlare in lingue.

 

    Altri cercano di sottomettere, senza condizioni, il loro cuore a Dio, convinti dell'impossibilità di vivere come la Parola richiede, con le loro forze. La decisione di affidarsi completamente a Dio, nata da una necessità disperata, riflette un livello di dipendenza da Dio che attira l'azione dello Spirito Santo e gli permette di agire con potenza nel nostro essere interiore, rendendoci capaci così di esibire il frutto spirituale.

 

    C'è poi chi mette l'accento sull'invito lanciato da John Wesley di essere "straordinariamente affettuosi". Dicono che in questo modo si sviluppa naturalmente una disposizione ad amare, perché ci addentriamo, così facendo, più profondamente nella verità dell'amore di Dio per noi.

 

    Altri si considerano crocefissi e risorti con Cristo, fino al punto di cambiare la loro vita con la sua. Aderendo alla verità della nostra identità in Cristo e scegliendo di dipendere dalla realtà della Sua vita presente in noi, dicono che riceviamo la capacità di vivere in un nuovo livello di vittoria.

 

    Il punto chiave di questa seconda opzione è credere che lo Spirito di Dio può essere attratto, affinché faccia ciò che è necessario fare, tramite un atto di fede da parte nostra.

 

Opzione n. 3: Affrontare gli ostacoli che impediscono la crescita

    Nessuna delle due opzioni precedenti richiedono, da parte nostra, il confronto diretto con i problemi situati al di sotto della superficie. Problemi come il timore ad iniziare una relazione sentimentale per essere stata violentata durante l'infanzia, o il poco valor proprio inculcatosi nella mente a causa di genitori occupati in altre cose, o i forti desideri di fare cose insensate, non devono essere presi in considerazione, compresi o risolti. Il potere di Dio verrà nelle nostre vite nella misura in cui compiamo i nostri doveri cristiani. Se stiamo battagliando con sentimenti depressivi, non dobbiamo dare uno sguardo nel nostro interiore, ma semplicemente dedicare più tempo allo studio della Bibbia, consacrandoci di più alla preghiera e al servizio cristiano. Lo Spirito Santo comprende tutto ciò che si trova nel nostro interiore e sa come prendersi carico dell'immondizia, se gli lasciamo spazio per compiere la sua opera. L'osservazione prolungata e severa delle nostre attitudini, sentimenti, mete e stima propria, può diventare una introspezione egocentrica. Tutto ciò che dobbiamo fare per ottenere il cambio è confidare di più nello Spirito.

 

    Non sempre, però, fare il bene o arrendersi allo Spirito Santo produce i cambiamenti desiderati. Quando non è possibile vincere gli ostacoli alla nostra crescita tramite uno studio più approfondito della Bibbia o una consacrazione maggiore, bisogna affidarsi ad un lavoro di cura d'anima.

 

    Sia che l'aiuto venga dalla guarigione dei ricordi o dalla psicoterapia cristiana, la opzione n.3 assicura che il confrontarsi direttamente con i problemi più profondi, che si trovano al di sotto della superficie, è essenziale per rimuovere gli ostacoli che impediscono la crescita. Spesso gli sforzi della psicologia non risolvono le questioni più profonde, quelle che sono spirituali. " cambio che ha luogo tramite la cura d'anime, implica, sovente, il confronto con i problemi più profondi, più che con il pentimento del peccato interiore. " potere fluisce in noi tramite la conoscenza di noi stessi e la maturità psicologica, eiò che consente allo Spirito Santo di prendere possesso del nostro cuore e quindi di sviluppare il potere dell'amore in noi.

 

 

 

 Come affrontare i nostri desideri

 

    Basta un semplice momento di riflessione per renderei conto della realtà che noi desideriamo determinate cose. Cerchiamo un lavoro e opportunità economiche che ci diano piacere e sicurezza, vogliamo che la gente ci faccia sentire a nostro agio e che il tempo sia bello durante la nostra gita domenicale.

 

    Spesso i cristiani, nel momento in cui ammettono di avere dei desideri, si sentono egoisti e si dicono: "Sto pensando solo a me stesso, so che non dovrei preoccuparmi se le cose non vanno come io vorrei e che dovrei occuparmi di più delle necessità degli altri". E così chiedono aiuto a Dio per vincere il loro egoismo.

 

    Però, dopo aver pregato con fervore e aver fatto sforzi per comportarsi più disinteressatamente, non possono negare il fatto che i desideri personali profondi persistono. Pregare per vincere i nostri desideri significa trattarli come se non esistessero e scegliere di mettere gli altri prima di noi stessi. Quando cerchiamo di dimenticarci di noi stessi nella ricerca della maturità, che consiste nel mettere il prossimo nel centro della nostra vita, ciò che otteniamo è un atteggiamento meccanico: " Farò ciò che è meglio per te senza considerare quello che sento". Coloro che sono sufficientemente onesti per ammettere la presenza continua, quasi urgente, dei desideri, a volte aumentano i loro sforzi per allontanar/i, utilizzando metodi spirituali: più tempo dedicato alla Parola, liste di preghiera più lunghe, maggior impegno nella chiesa. I desideri, però, persistono e questa è una buona cosa. Non possiamo negare i nostri desideri interiori senza perdere il contatto con una parte molto reale della nostra esistenza. Le mogli desiderano che i loro mariti le trattino bene, i mariti desiderano che le loro mogli li rispettino, i genitori desiderano che i loro figli rientrino a casa presto la sera, le persone non sposate desiderano avere delle relazioni affettive che abbiano un senso e che vadano al di là dei momenti di semplice svago. Che cosa faremo con questi desideri, dato che non li possiamo eliminare? Dobbiamo considerarli come parte della nostra natura peccaminosa e quindi lavorare per vivere separati dalla loro influenza? O dobbiamo andare all'altro estremo, chiamarli legittimi e abbracciare una teologia che alimenti la nostra fiducia che Dio soddisferà ogni desiderio del nostro cuore?

 

    Dopo trenta anni di matrimonio, un uomo abbandona la moglie per unirsi con una donna più giovane. La moglie desidera che ritorni. Che cosa deve fare? La prima linea di pensiero le direbbe di lasciar perdere il desiderio di riconciliazione e di cercare quelle opportunità di servizio che Dio procura. La seconda, invece, la stimola a dire ciò che desidera e a confidare nell'intervento divino. Possiamo, quindi, trasformarci in una macchina o far sì che sia Dio a diventarla, dandoci tutto ciò di cui abbiamo bisogno.

 

    Ci deve essere, però, un'alternativa migliore. La realtà dei desideri interiori deve essere affrontata in modo tale da non compromettere la nostra vitalità personale, né il comandamento del Signore di amarci gli uni gli altri. Il cambio dall'interno verso l'esterno, deve portarci alla conoscenza appassionata dei nostri desideri che ci mantenga entusiasti e genuini ed a uno stile di vita senza esigenze di affetto, che ci liberi per occuparci genuinamente degli altri.

 

    La chiave per affrontare con onestà i nostri desideri senza perdere autenticità e la preoccupazione genuina per gli altri, si trova nella comprensione di due fattori riguardanti i nostri desideri. Primo, i nostri desideri, anche se danno vigore ad una varietà complessa di tendenze peccaminose, sono legati non soltanto alla nostra caduta, ma anche, e più profondamente, alla nostra realtà umana. In altre parole, avere dei desideri è una buona cosa. Secondo, quando osserviamo con attenzione ciò che desideriamo, ci rendiamo conto che non possiamo ottenerlo, almeno finché non arriveremo in Cielo. Più diventiamo coscienti dei nostri desideri, quelli più appassionati, più soli e tristi ci sentiamo.

 

    Entrambi gli errori commessi in relazione ai nostri desideri, e cioè quello di nasconderli sotto una frenetica attività cristiana e quello di concentrarci su di essi per trovare la soddisfazione desiderata, negano la semplice verità che desideriamo legittimamente ciò che non possiamo avere in questo mondo. Non siamo stati designati per vivere in un mondo perfetto, non contaminato dalla zizzania della mancanza di armonia e dalla freddezza. Finché rimarremo in questo mondo, dovremo soffrire. Quindi, non è soltanto il desiderare una buona cosa, ma anche il soffrire. Immerse nella lotta della vita quotidiana le anime assetate sospirano per ottenere soddisfazione. Dobbiamo riconoscere la presenza nella nostra vita, di una sete non appagata.

 

 

 

 Desiderare è una buona cosa

 

    Carlo e Maria, marito e moglie, hanno deciso di andare in pizzeria. Carlo, che era già stato altre volte in quel locale, conosce molto bene la strada, sa che a questo punto deve svoltare a sinistra e si sposta, così, verso il centro della strada. "Gira a sinistra, caro", dice Maria rivolgendosi al marito. Carlo gira violentemente la testa verso la moglie, le dice: "lo so", e schiaccia con forza l'acceleratore. In verità avrebbe voluto svoltare a destra, ma il suo desiderio di mangiarsi una pizza lo porta a non concentrarsi sul suo desiderio di vendetta, così gira a sinistra. Molte parole stanno inondando la sua mente, ma non sono di riconoscenza per il suo aiuto. Si sente infuriato e ben oltre quanto avrebbe giustificato l'apparente mancanza di fiducia di sua moglie nei suoi confronti. Giunti in prossimità del gigantesco pannello che annuncia la pizzeria, il marito si appresta a girare quando la moglie gli dice:" E' qui". la sua rabbia raddoppia di intensità. Perché? Facciamo adesso alcune considerazioni su questo episodio:

 

- Che cosa ci dice l'intensità della rabbia di Carlo riguardo la sua maturità?

- Maria non era realmente sicura che il marito sapesse dove andare, oppure agiva sotto l'impulso di uno    schema mentale e desiderava veramente aiutarlo?

- Qual è il modo migliore di un marito per affrontare i propri sentimenti di rabbia contro la moglie?       Discuterne più tardi?

- E' catalogarsi come troppo suscettibile e dimenticarsi dell'accaduto? O enumerare le buone qualità della moglie? O vomitare i propri sentimenti per amore della sincerità?

 

    Le esortazioni per ignorare l'accaduto ed essere meno suscettibili, o per portare a comunicare apertamente ciò che uno sente in uno sforzo per promuovere la comprensione reciproca, ignorano una domanda penetrante che è necessario porsi: "Quale mio intimo desiderio non è stato soddisfatto in questa circostanza?".

 

    Uno sguardo diretto sui nostri desideri lascia chiaramente intendere che ciò che desideriamo è di essere rispettati. Vogliamo, cioè, sapere che in noi c'è qualcosa di valido, che la nostra esistenza è importante perché siamo capaci di esserlo. E' un desiderio di significato, di valor proprio. Ci piace che la gente ci prenda sul serio, ci faccia delle domande su un commento che abbiamo fatto per sondare ciò che volevamo dire e ciò che sentiamo. Vogliamo essere trattati con rispetto non soltanto quando facciamo le cose bene, ma anche quando siamo tentennanti.

 

    Il nostro desiderio è legittimo e non deve essere messo da parte centrandoci sulla nostra responsabilità di trattare amorevolmente le nostre mogli. Negare il desiderio significa dimenticare una parte di noi che Dio ha creato. Il fatto che desideriamo essere importanti riflette due cose. Primo, la sapienza e la bontà del nostro Creatore nel concepirci come esseri liberi, secondo, la separazione tra noi e Dio introdotta dal peccato. Se non avessimo mai peccato, vivremmo con un senso di realizzazione nel mondo di Dio, piuttosto che con il desiderio veemente di trovare significato. Il nostro desiderio di rispetto è relazionato sia alla nostra caduta, che alla nostra umanità. Anche se i nostri desideri interiori profondi sono macchiati dal peccato, è doveroso precisare che vogliamo sentirci rispettati, perché siamo stati creati per essere importanti. Quando percepiamo di non essere rispettati, reagiamo nel nostro cuore così come reagisce il dito del nostro piede quando viene pestato: sente dolore. Quando nostra moglie dà l'impressione di non rispettare la nostra capacità nel portare a compimento un lavoretto semplice, quella parte profonda di noi che desidera essere considerata idonea, soffre. Eliminare questo dolore è così difficile come simulare di non aver sentito qualcuno pestarci il piede. Se il dito del piede non è stato creato per essere pestato, anche noi siamo stati creati per essere valorizzati.

 

    Questo fatto non lo possiamo cambiare. Ma più che per essere rispettati, siamo stati designati per avere una relazione affettiva. Desideriamo che qualcuno impegni la sua vita per noi, qualcuno che sia sufficientemente forte per affrontare tutto ciò che riguarda la nostra persona, senza retrocedere e senza sentirsi minacciato. La maggior parte di noi ha paura di essere sincera con gli altri, non per timore di arrecar loro del danno o di scoraggiarli, ma per timore di essere messi da parte, rifiutati. Non ammettiamo che le persone in cui confidiamo siano troppo deboli per rimanere profondamente legate a noi, una volta che debbano confrontarsi con ciò che noi siamo. Non vogliamo accettare il fatto che, dopo la caduta di Adamo, nessun essere umano ha la capacità di amarci perfettamente.

 

    Una ragazza raccontò che ogni volta che faceva partecipe suo padre delle sue lotte tra fede e tentazione sessuale, lui deviava subito il tema su altri argomenti. In lei nacque il terribile timore che nessuno avrebbe potuto occuparsi di tutto ciò che si manifestava nel suo intimo. Si convinse che i suoi pensieri o sentimenti, se espressi, avrebbero potuto essere una minaccia per gli altri. Nel suo sforzo per sfuggire da ciò che avrebbe potuto essere di ostacolo per gli altri, i suoi dubbi e i suoi impulsi normali si fortificavano, facendo sì che lei si sentisse schiacciata a causa della questione riguardante Dio e i desideri del piacere sessuale. Il dubbio e la lussuria diventarono un'ossessione opprimente da cui non riusciva ad evadere. C'era in lei, quindi, un desiderio tremendamente frustrato di avere qualcuno che potesse vedere nel suo intimo, ma che nello stesso tempo rimanesse legato a lei.

 

    Se vogliamo godere della vita fisica o personale, abbiamo bisogno di ricordi che stanno al di fuori di noi. Siamo dipendenti per natura. Abbiamo, quindi, assoluto bisogno di qualcuno che sia più forte di noi per prendersi cura di noi e per offrirci ciò di cui avremmo dovuto godere, secondo il progetto del nostro Creatore. Adamo ed Eva avrebbero dovuto vedere Dio come il forte da cui dipendere ed il bisogno della sottomissione reciproca, per godere delle caratteristiche peculiari del partner, da una parte, e per darsi, onde accrescere il piacere del compagno, dall'altra.

 

    Aneliamo sia rispetto ed interessamento, che senso di valore e relazioni affettive. Abbiamo un grande desiderio che la nostra anima prosperi, perché si sente arida nella realtà di questo mondo decaduto. Per questo Gesù esclamò: "Se qualcuno ha sete, venga a me e beva" (Giovanni 7:37-38). Ogni persona creata per gioire in Dio è assetata. Molti, però, non si rendono conto della propria sete. Forse hanno già perso ogni speranza di trovare soddisfazione e hanno allontanato la loro attenzione da quel dolore interiore. Concentrandosi in altre faccende gli assetati, a volte, possono dimenticarsi delle loro anime inaridite. Quando il Signore stimolò gli Ebrei ad ammettere la loro sete, alcuni di loro si saranno sicuramente spaventati. Che crudeltà è, infatti, offrire acqua ad un moribondo e presentargli, poi, delle mani vuote. Gesù sapeva che le sue mani non erano vuote e che poteva dare veramente quell'acqua di cui la gente aveva bisogno. Ma potevano confidare in Lui? Tutti hanno avuto esperienze con persone che promettono più di quello che possono offrire ed è un rischio credere a qualcuno che offre ciò di cui abbiamo un disperato bisogno, temendo che non sia in grado di mantenere la promessa. I nostri cuori anelano molte cose che non hanno. Vogliamo sapere se le nostre vite hanno un significato, se saremo un fallimento come genitori oppure no, vogliamo che qualcuno indaghi su di noi, senza il timore che possa vedere chi siamo realmente, e che sia sufficientemente forte per continuare ad amarci anche dopo averci conosciuti a fondo. Non neghiamo la nostra sete, n'è centriamoci su di essa. L'invito di Gesù ad andare a Lui per soddisfare la nostra sete, conferisce legittimità ai desideri della nostra anima.

 

 

 

 E' Normale soffrire

 

   Noi desideriamo ciò che non possiamo avere, realtà che crea dolore, finché non entriamo nel piano perfetto di Dio. La felicità libera dal dolore, troverà la sua realizzazione in relazioni affettive perfette, che possono aver luogo in un mondo perfetto, tra gente perfetta. Finché siamo in questo mondo, quindi, il dolore farà parte della nostra vita, ma racchiude in sé un valore positivo, che è quello di portarci a desiderare la perfezione. Facciamo un esempio al riguardo. All'età di 27 anni un uomo venne a sapere che la morte prematura del padre, avvenuta 22 anni prima, non era stata causata da un attacco di cuore, come gli avevano fatto credere allora, ma da suicidio. Venne a sapere che la madre, scoperta la sua relazione extramatrimoniale, annunciò la sua intenzione di separarsi dal marito. Il padre del ragazzo, piuttosto che affrontare il dolore di un matrimonio distrutto, dopo che la notizia era diventata di dominio pubblico, decise di togliersi la vita. Dopo aver conosciuto la verità, l'anima di quest'uomo rimase turbata da un violento torrente di confusione, orrore e amarezza. Per anni sua madre era stata sposata con "l'altro uomo" che lui, ignorando tutto, aveva chiamato papà. Come poteva pensare adesso di andare a visitare sua madre? Che cosa poteva fare con quei sentimenti che lo stavano schiacciando? Da quel momento il suo unico obiettivo era quello di cercare di alleviare l'angoscia che si era formata nel suo cuore. Non si diede all'alcol perché era un cristiano consacrato, né riuscì a sviluppare una relazione intima con una donna. Non condivise, quindi, questo suo fardello con nessuno. L'unico metodo che aveva trovato per alleviare il dolore del suo cuore era la memorizzazione della Bibbia. Lui pensava, così, di andare a Dio in cerca di aiuto e di rinnovare la sua mente tramite la sua dedizione nella lettura della Parola. Ogni volta che gli tornava alla mente il gesto disperato del padre e la peccaminosità e l'inganno della madre, gli si inondava il cuore di amarezza, andava di corsa a cercarsi la Bibbia per memorizzare nuovi versetti. Era, però, sempre nervoso e teso ad evitare quel dolore che la vita gli offriva.

 

   Se è vero che ognuno di noi desidera disperatamente ciò che nessuno possiede, ci troviamo allora esattamente nello stesso dilemma di questo sfortunato giovane.

I dettagli della nostra vita possono essere diversi, ma c'è un vuoto nel centro del nostro essere, che non vogliamo affrontare. La sua origine potrebbe essere un padre che non si è mai preso il tempo per rivolgerei delle domande, una madre che ci ha fatto sentire inutili a causa della sua eccessiva protezione, una moglie per cui non facciamo mai abbastanza, amici che si interessano a noi fino a un certo punto, o figli che spezzano i nostri cuori per la loro indifferenza nei confronti di Dio. Le storie sono diverse, ma il tema è sempre lo stesso: noi tutti ci siamo sentiti profondamente frustrati in ogni nostra relazione affettiva. Perciò soffriamo.

 

   E' chiaro che il proponimento di questo giovane, cioè la sua ossessione nel voler memorizzare dei passaggi biblici, non era conoscere Dio ad ogni costo, ma alleviare il suo dolore. Non c'è niente di male nel togliere il sassolino dalla scarpa prima di rimettersi in cammino. Se lo scopo finale della nostra vita non è centrato sul modo di come alleviare il dolore, allora è ragionevole cercare di stare il meglio possibile, nei limiti imposti dalla nostra morale e dal nostro senso di responsabilità. Ma se la nostra priorità è la ricerca affannosa dei mezzi atti a liberarci dall'angoscia causataci da questo mondo decaduto, abbandoniamo allora il cammino che ei porta a seguire Dio. Le ricette di Dio sul modo come condurci in questa vita, non ci esentano dal dolore, destinato a continuare da questo Iato del cielo, ma ci aiutano a rimanere fedeli in mezzo alla sofferenza. A volte, anzi, il cammino dell'ubbidienza intensifica il dolore in un modo che sembra ingiusto e persino duro da parte di Dio.

 

 

 

 Rendersi conto della propria sete

 

    La maggior parte di noi affronta la vita simulando. Simuliamo che ciò che possediamo è più soddisfacente di quello che è in realtà e simuliamo di non essere stati così feriti come in effetti lo siamo. L'istruzione biblica di non lamentarci è più facile da ubbidire quando ci neghiamo ad affrontare ciò che ci frustra e ei crea dolore nella nostra vita.

 

    Cerchiamo adesso, invece, di dare uno sguardo a tutte quelle cose che provocano le nostre lamentele.

    Alcuni dicono." Ma non dobbiamo render grazie in ogni cosa, essere sempre gioiosi e andare avanti come buoni soldati di Gesù Cristo?" Lo sguardo introspettivo sui nostri problemi non sembra essere coerente con tutto ciò che dobbiamo fare. Perché prenderci il fastidio di analizzare quei desideri della nostra vita che rimangono insoddisfatti? Sembra così negativo? Non dovremmo più semplicemente andare avanti con la nostra esistenza? In molti ambienti cristiani si orienta il popolo di Dio a mantenersi a distanza dai problemi interiori. Quando gli adolescenti lottano con il risentimento nei confronti dei loro genitori o con la confusione rispetto alla loro identità, le loro guide a volte consigliano loro di passare più tempo nella lettura della Bibbia o di rinnovare il loro impegno nell'ubbidienza. Entrambi i suggerimenti sono buoni, ma spesso le questioni difficili rimangono sotterrate sotto un mucchio di versetti imparati a memoria e di una accettazione più rigida dei canoni locali di condotta cristiana. I problemi penosi sembrano risolti, ma in realtà sono stati soltanto allontanati dalla nostra vista e continuano ad agire in noi non più apertamente, ma sottilmente. L'incentivo ad essere migliori cristiani non basta.

 

    Esiste una situazione simile tra le donne che lottano con i ricordi legati ad una violenza carnale. Gli intensi sentimenti di vergogna e di colpa che continuano ad opprimere la vittima per anni, dopo l'accaduto, sono più facili da sopprimere che da affrontare. Il desiderio di essere appoggiata da qualcuno che la ami con tenerezza e che non la sfrutti egoisticamente è profondo, ma spesso rinnegato. Produce moltissimo dolore ammettere ciò che si desidera con tanta veemenza, quando non c'è nessuna garanzia della disponibilità dell'altro.

 

    C'è una incredibile resistenza, specialmente nei circoli cristiani, nel confessare un trauma interiore. Anche un semplice sguardo nella direzione dello scoraggiamento e del timore, viola la nostra idea di ciò che un cristiano vittorioso deve fare. Molta gente è cresciuta in chiese conservatrici e in famiglie cristiane che negano di soffrire. Poche volte ci viene chiesto con vero interesse come ci sentiamo, e dare una risposta diversa da "bene grazie", sembra inappropriato. Dobbiamo anche ammettere che le nostre domande, rare volte, invitano gli altri a condividere in modo completo e sincero ciò che si trova nei loro cuori. Tutti abbiamo la tendenza a mantenerci a distanza prudenziale dai sentimenti degli altri. E' corretto sentirsi assorbiti dalla bellezza di Gesù e dalle opportunità per la adorazione e il servizio. Mettere l'accento sulle angosce della vita può essere una questione orrenda, che ci lascia pieni di pessimismo, depressione e scoraggiamento. Questo è il pericolo a cui si può andare incontro guardandoci interiormente. Certo, affrontare la realtà dei nostri desideri non soddisfatti è un processo penoso e la pena distrugge la vita. Può toglierci il sonno, spingerci a dare aspre risposte ai nostri cari, a respingerli e a prendere distanza dalle nostre responsabilità. Quando si sta male si è più tentati a guardare la televisione che ad aiutare la moglie in casa. Perché allora guardarci dentro? Se tutto ciò che si ottiene è aumentare la conoscenza di una disgrazia incredibile, perché darsi tanto da fare? Non è crudele ricordare ad un viaggiatore nel deserto quanto è secca la sua gola? Si. Se l'unico risultato del riconoscimento della nostra sete è di aumentare la nostra miseria, allora è stupido e sbagliato fare un'analisi introspettiva di se stessi. Se il riconoscimento della nostra sete, invece, segna l'inizio di una comunione più intima con Dio, allora ha un senso.

 

 

 

Perché dobbiamo affrontare la nostra sete?

 

    Fa male sondare le profondità di un'anima insoddisfatta, allora perché farlo? Analizziamo tre ragioni:

1. La libertà dal peccato che schiavizza richiede una presa di coscienza della sete profonda.

2. Il peccato verrà compreso in maniera superficiale, e, quindi, verrà affrontato in un modo inefficace, senza la presa di coscienza della sete profonda.

3. Senza la presa di coscienza della sete profonda, la nostra ricerca di Dio, nel migliore dei casi, sarà disciplinata. Con la presa di coscienza della stessa, la

    ricerca sarà veemente.

 

1. Libertà dal peccato che schiavizza

   Molti lottano con abitudini che sembrano impossibili da rompere: comportamenti e schemi mentali. Alcuni battagliano con fantasie sessuali che inondano la loro mente, con il negativismo nei confronti di ogni predicatore che ascoltano, con una gioia prefabbricata; altri sono confrontati con problemi più quotidiani come la masturbazione, la gola, un carattere irascibile e incontrollabile, rabbia, pigrizia. Cristiani oppressi dal senso di colpa supplicano Dio di aiutarli, ma questo aiuto non viene, malgrado notti passate in preghiera e in pianto nella ricerca del potere per essere vittoriosi. Quella certa attitudine continua ad essere dominante. Perché a volte lo sforzo sincero, il pentimento con lacrime e le promesse di ubbidire ottengono risultati così scarsi? Cosa si deve fare?

 

   Ci sono due passaggi interessanti sulla Bibbia che fanno luce su questa difficile questione. In Romani 16:18 e in Filippesi 3:19 Paolo parla di persone il cui dio è il proprio ventre. La parola usata per ventre,in entrambi i passaggi, è la stessa impiegata in Giovanni 7:38 e che fa riferimento a quella parte profonda dentro di noi che solo Gesù può riempire, quella parte che è piena di quelli che io ho chiamato "desideri cruciali".

    I desideri non trascendenti, cioè quelli della sfera materiale come salute, cibo, casa, lavoro ecc., se frustrati, generano un malessere dominabile. I desideri critici, cioè quelli della sfera affettiva come l'unione matrimoniale, la relazione coi figli, l'amicizia ecc., se non soddisfatti possono causarci un grande dispiacere e un opprimente senso di perdita. Ma quando i desideri cruciali rimangono intatti, crolla il fondamento stesso della vita. Senza un significato in ciò che faccio, o senza amore nelle mie relazioni interpersonali, la vita non vale la pena di essere vissuta. " dolore della solitudine e la mancanza di senso è molto acuto: richiede un immediato sollievo!

 

    Il semplice fatto che il dolore di vivere separati da Dio è insopportabile, rivela quanto la nostra iniquità sia grottesca e stupida. Insistiamo nel cercare sollievo fuori dalle linee direttive di Dio. Molti di coloro che sono assetati vanno a Cristo in cerca di acqua, con preghiere ferventi e un impegno rinnovato, ma ciò che motiva la loro richiesta è il desiderio di sperimentare sollievo, piuttosto che la determinazione inamovibile di crescere nella fede, nella speranza e nella carità. Quando Dio non risponde a questa nostra richiesta, cerchiamo da soli di liberarci dal dolore che ci attanaglia. In qualche modo dobbiamo mettere dei limiti a quell'angoscia terribile che tormenta la nostra anima: il timore di essere indesiderati e inutili. L'unica opzione è usare i rimedi che abbiamo a disposizione per addormentare la nostra pena. Ci limitiamo a negare quanto stiamo male, o a procurarci qualche forma di gratificazione temporanea. Ciò che ci è chiaro è che avanzare verso il dolore è un suicidio. Ma proprio il contrario è la verità!

 

    La verità che il cammino verso la vita spesso si percepisce come il cammino verso la morte e che il cammino verso la morte può essere percepito come il cammino verso la vita, ci dimostra quanto ci siamo deviati dalla retta via. " processo che ci porta a renderei conto della nostra sete è terribile e si percepisce come il cammino verso la morte. E una volta che il processo ci conduce lungo le acque chete, ricomincia tutto da capo quando veniamo allontanati di colpo dai pascoli verdeggianti e ricacciati di nuovo nella valle dell'ombra di morte. Però, esplorando e ammettendo le nostre afflizioni profonde, ci mettiamo in contatto con una piccola compagnia di assetati che, conoscendo la propria sete, sa cosa significhi venire a Cristo con profondità e una serena fiducia.

 

    E' importante essere coscienti che l'azione di sollievo nei confronti del dolore prodotto dai desideri non soddisfatti, non fa sì che questi scompaiano. Passano semplicemente alla clandestinità, dove non possono venire affrontati con efficacia, ma dove però continuano a premere alla ricerca di sollievo con un'urgenza crescente e più sottile. La persona che nega il proprio dolore dietro una facciata di armonia è propensa a sviluppare atteggiamenti peccaminosi schiavizzanti, perché non sta dando il colpo mortale alle strategie erronee che bloccano il suo godimento del Signore. Il dolore presente nel suo cuore, anche se non riconosciuto e assente per lungo tempo, richiede sollievo. Questa persona è pronta a lasciarsi sedurre da ogni cosa che le produca stimoli e una sensazione di gratificazione. Il sollievo momentaneo da questa angoscia centrale riporta ai momenti più alti di gioia vissuti in precedenza o fa credere di essere entrati nella dimensione della vita gioiosa, vita mai vissuta prima. L'attrazione che ne deriva può essere più forte di tutti gli sforzi fatti per essere ubbidienti.

 

    Consideriamo come si potrebbe sviluppare la dipendenza dalla pornografia. Un giovane cristiano, con una vita sessuale irreprensibile, una domenica sera accende il televisore per informarsi sull'andamento delle partite del campionato di calcio e si trova sintonizzato su uno spettacolo a luci rosse. Qualcosa si agita nel suo intimo mentre i suoi occhi rimangono incollati allo schermo. Sente qualcosa di più di una semplice eccitazione, qualcosa di più profondo di uno stimolo sessuale: sente una spinta vitale. Alcuni nella stessa situazione cambierebbero immediatamente canale, considerando negativo l'esporsi a questo tipo di stimoli. Altri guarderebbero il programma senza percepire quella sensazione di acquisire vita e poi, una volta spento il televisore, non penserebbero più a quanto visto. Tra coloro che cambiano rapidamente canale ci sono quelli che lo fanno in osservanza ai canoni morali della società, rispondendo, così, più alla cultura che a Dio. Ci sono poi anche quelli che rifiuterebbero questa influenza ingannevole dello stimolo (erotico), riconoscendo che la promessa di piacere è reale, ma che l'emozione si muove solo in superficie e può comportare un alto prezzo da pagare. Costoro vivono coscienti dei loro desideri più profondi, sanno che i piaceri sessuali possono solo addormentarli, ma mai soddisfarli, e, perciò, rifiutano volutamente la gratificazione incompleta della carne in favore di ciò che solo Dio può dare. Anche se lo stimolo sessuale può offrire una soddisfazione eccitante che sembra andare più in profondità di quanto vada  in realtà, chi si conosce bene sa che il proprio cuore anela cose ben diverse.

 

    Supponiamo che quel giovane cristiano che guardava la televisione sia sinceramente impegnato nel vivere una vita gradita a Dio, ma che mai ha preso in considerazione la sete del suo cuore. La profonda frustrazione causata da un padre che non si interessa a lui è un qualcosa che non sembra perturbarlo. "Papà se ne è andato molto tempo fa, ma credo che mi abituerò a questa situazione, che in fondo non mi tocca più di tanto. Lui mi voleva bene alla sua maniera". Non ha permesso neanche che il comportamento di sua madre, superprotettiva, lo perturbasse. "La mamma? Si, è brava. A volte mi irrita un po', perché mi considera ancora un bambino, ma lo fa in buona fede. Stiamo bene insieme". Posso sentire la negazione del dolore nelle sue parole. Lui desidera un padre presente e impegnato nella sua funzione paterna e una madre affettuosa e ricettiva, ma scarta la realtà di un padre distante e di una madre possessiva, considerandoli fatti di poca importanza. Perché è così difficile essere sinceri riguardo alla frustrazione che sentiamo quando gli altri ci tradiscono? Perché nascondiamo la nostra delusione mostrandoci leali, rispettosi e forti? Perché continuiamo ad onorare i genitori che ci frustrano? Affrontare la realtà che riguarda queste persone chiave da cui dipendiamo, porta in superficie quel dolore che minaccia di annullarci. In questo modo è come se ai desideri più profondi del cuore negassimo una risposta, e questo è simile alla morte. La maggior parte di noi pensa, però, che è molto meglio star lontano dall'angoscia.

 

    Forse l'apparente negazione della frustrazione di questo giovane è una forma di maturità, il riconoscimento che nulla potrà perturbarlo perché Dio l'ama. Se questo fosse vero, parlerebbe del Signore con un sereno sentimento di realtà che riflette una comunione personale e profonda, e sarebbe in grado di riconoscere apertamente la sofferenza causatagli dall'insensibilità dei genitori, ma anche di confermare il suo amore genuino nei loro confronti. Quando si ammettono le reali imperfezioni degli altri, il vero amore ha una grande opportunità di esprimersi. Passar sopra gli errori di qualcuno, è una cosa ben diversa dal simulare che non ne abbia. Quando amiamo delle persone senza voler affrontare le loro imperfezioni, il nostro amore viene contaminato dall'autoprotezione. Abbiamo bisogno di vederli superiori di quello che realmente sono. Però, quando ammettiamo apertamente i loro difetti, allora il nostro amore viene diretto veramente verso la loro felicità. Morire per un amico è una cosa lodevole, ma morire per un nemico è il supremo esempio dell'amore.

 

    L'amore di questo giovane per i suoi genitori e per Dio non riflette la calda forza del credente maturo. A volte si chiede se la vita cristiana non dovrebbe produrre un fuoco maggiore di quello che sta ardendo nel suo cuore. Ammette un senso di fastidio, ma continua a lavorare duramente con la forza della convinzione, degli schemi e delle aspettative sociali. La sua vita, comunque, è abbastanza gradevole e i suoi desideri non trascendenti sono soddisfatti abbondantemente da un buon impiego e da una perfetta salute. Una considerevole cerchia di amici, anche se non intimi, impedisce ai suoi desideri critici di provocare un malessere acuto. Con l'ottimismo che caratterizza i giovani, pensa che un giorno conoscerà la "donna giusta" e diventerà un buon padre di famiglia, felice e prospero. I desideri cruciali nella sua relazione con Dio non presentano alcun problema di coscienza e viene rispettato come un evangelico consacrato. Solo sporadicamente sente la necessità di una comunione più intima con Gesù. L'idea di avere una relazione con Gesù più ardita e appassionata viene messa da parte, considerandola retaggio dei vecchi credenti e dei missionari battaglieri. Solo pochi problemi interrompono la serenità della sua vita, ma nulla di serio. Le occasionali manifestazioni di cattivo carattere lo disturbano un po' e l'abitudine a dire si alle responsabilità della chiesa, quelle che preferirebbe non accettare, gli crea un momento di tensione. La masturbazione è stata un problema, specialmente durante l'adolescenza, ma ora meno. I momenti devozionali regolari, più l'esercizio e la determinazione a pregare, l'hanno aiutato a tenere questa abitudine sotto un controllo quasi perfetto.

 

    Perché una scena di cinque secondi di sesso esplicito produce una sensazione di soddisfazione così intensa da sembrare necessaria per la vita? Perché la sua mente viene inondata per ore, giorni e addirittura settimane dalle immagini che ha visto in televisione? Perché incomincia a girare intorno ai chioschi delle riviste? Perché torna ad accendere il televisore a quell'ora tarda in cui ha visto per la prima volta quelle immagini? Quattro anni dopo quella esperienza si recò dallo psicologo, perché ossessionato dal bisogno di pornografia. Entrava di nascosto nelle librerie per adulti, rimaneva alzato fino a tardi per vedere film erotici e non riusciva a guardare una donna attraente senza spogliarla col pensiero. Perché? Che cosa era successo? La spiegazione del problema è più facile della sua soluzione. Il principio che ci permette di comprenderlo è questo: "La maggioranza delle abitudini che non riusciamo a controllare si sviluppa a partire dai nostri tentativi per liberarci dalla tensione insopportabile che ha origine nel fallimento, per risolvere la frustrazione dei nostri desideri più profondi, presenti nelle relazioni interpersonali".

 

   Questo giovane è stato attratto dalla pornografia, perché l'emozione del piacere sessuale assomiglia molto alle gioie di una relazione profonda, più di qualsiasi altra esperienza mai vissuta prima. Vivere con relazioni affettive superficiali è rischioso. A meno che non ci stiamo avvicinando agli altri con l'amore con cui Dio si è avvicinato a noi, l'attrazione prodotta da una ampia gamma di piaceri intensi può diventare una realtà affascinante e soggiogante. Il potere delle cattive abitudini non è radicato semplicemente nel piacere che queste offrono. Le abitudini peccaminose diventano fortemente attrattive nel momento in cui il piacere che danno libera la frustrazione profonda del cuore meglio di qualsiasi altra cosa che uno possa immaginare. Le sensazioni gradevoli che danno, per esempio, una relazione sessuale piacevole, mangiare cibi succulenti o controllare masse di gente con una magistrale oratoria, possono addormentare il dolore di desideri non soddisfatti, tramite una soddisfazione che al momento riempie come nulla era stato in grado di farlo prima.

 

   La gente si sente viva in mezzo al piacere del consumismo e così, ogni cosa che produce piacere sembra buona. I piaceri del corpo (come il sesso e il cibo) e della mente (come il potere o l'applauso) possono essere meravigliose imitazioni della vita reale, se Dio non è stato ancora assaporato. L'attrattiva che esercitano nasce dal loro potere di offrire un sollievo immediato e questo ci sembra più che buono, ci sembra vita. Quando si impiegano piaceri di qualsiasi tipo per soddisfare ( o per lo meno placare) i nostri desideri cruciali, allora il desiderio veemente di ciò che solo Dio può dare, diventa un tiranno esigente che ci guida verso qualsiasi forma di sollievo disponibile. Il nostro appetito diventa il nostro dio. I desideri cruciali, destinati a creare sete di Dio, somministrano energia alla nostra dipendenza da qualsiasi cosa che ci faccia sentir bene per un momento. Che tragedia!

 

    "Se qualcuno ha sete, venga a me e beva" (Giovanni 7:37-38). Ognuno di noi è assetato, ma pochi comprendono e sperimentano profondamente il dolore che ne deriva. Coloro che lo fanno sono meglio equipaggiati per riconoscere il fascino ingannevole dei piaceri minori e per poter resistere, poi, davanti a quelle opportunità che promettono falsamente soddisfazioni profonde. Quelli invece che rifiutano di affrontare con sincerità le loro frustrazioni e angosce (persone come quel giovane dedito alla pornografia), sono più vulnerabili al potere perverso del piacere superficiale che si traveste da angelo di vita.

 

2. Più di una comprensione superficiale del peccato

   Prestiamo attenzione ad una seconda ragione per cui i cristiani fanno bene nell'ammettere il loro sentimento di dolore per la sete non soddisfatta. Senza una presa di coscienza e un'accettazione di ciò che desideriamo, la nostra capacità d'amare verrà limitata dalla mancanza di comprensione del modo come violiamo l'amore: l'autoprotezione per evitare di soffrire. C'è una relazione tra l'ammettere i nostri desideri non soddisfatti e il riconoscere il peccato sottile dell'autoprotezione.

Alcuni riescono molto bene a resistere alla tentazione, senza nemmeno rendersi conto della propria sete. Questo, naturalmente, è lodevole. Resistere al peccato è una cosa giusta ed è così che bisogna fare sempre. Per coloro che non sono al corrente della propria sete, però, la fonte di potere richiesto per evitare il peccato è generalmente una combinazione di dominio proprio, tempo di lettura della Bibbia e preghiera, appoggio e aspettative da parte di una comunità di amici cristiani, sana preoccupazione per le conseguenze del deterioramento morale e l'impegno sincero di comportarsi come Dio comanda.

 

   Il risultato di vivere in dipendenza dai punti di questa lista, è una vita irreprensibile caratterizzata da alte norme di condotta, un impegno sacrificale, un servizio instancabile e rigidità. Quando i cristiani onorano la loro eminente chiamata senza sperimentare e abbracciare con passione la profonda afflizione presente nelle loro anime, si perde qualcosa di importante e vitale. Il loro modo di avvicinarsi alla gente è meno umano, meno reale. Spesso insegnano, incoraggiano e presentano sfide ad altri, ma le loro vite non portano la gente al Signore. Spingono, più che attirare. L'amore sincero, una cosa difficile da definire, ma inconfondibile nei suoi effetti, può sorgere solo dalle parti più profonde del nostro cuore. Questa parte di noi, che vuole essere amata e che sente in modo vivo ogni frustrazione, è l'unica parte del nostro essere con cui possiamo amare gli altri con intensità, Dio compreso. Per togliere lo sguardo dalla nostra frustrazione profonda, bisogna perdere il contatto con le parti più vive del nostro essere. La protezione contro il dolore smussa la nostra capacità d'amare.

 

    Quando il nostro modo di concepire la vita gira intorno alla disciplina, all'impegno e alla conoscenza, ma fugge dal dolore dei desideri non soddisfatti, allora i nostri sforzi per amare sono caratterizzati più dall'azione che dalla passione.

Saremo conosciuti come affidabili, ma non come partecipi. Gli amici sinceri diranno che godono della nostra compagnia, ma non di un rapporto intimo. I nostri migliori amici (includendo i coniugi) si sentiranno insieme a noi come stretti, un po' tesi e vagamente distanti. Non è raro che i leader cristiani non abbiano veri amici. Certo, questa è una triste situazione che lascia molte persone innecessariamente sole e di conseguenza disposte a spegnere o falsificare l'intimità. Chi nega le proprie frustrazioni profonde ha un modo di relazionarsi con gli altri che è viziato dal peccato, non riconosciuto, ma comunque grave.

 

    Quando non comprendiamo né ammettiamo la sete della nostra anima, l'amore viene influenzato in molte maniere che passano inavvertite e quindi rimangono irrisolte. Paolo ci insegna a considerare gli interessi degli altri come superiori ai nostri. Certamente la linea divisoria tra la vita nella carne e nello Spirito si centra nel rapporto ego-prossimo. L'interesse prioritario è il mio o quello del mio prossimo? I cristiani nominali e i non credenti sono capaci di compiere atti straordinari di bontà, ma solo i cristiani fedeli sono in grado di preoccuparsi dei desideri dell'altro più che dei propri. Sfortunatamente ce ne sono pochi e la chiesa ha perso il suo potere perché ama poveramente. Quando siamo motivati più dalla preoccupazione propria che per quella degli altri, stiamo lavorando per mitigare l'effetto dei nostri desideri frustrati. I nostri desideri più profondi saranno soddisfatti soltanto quando arriveremo in Cielo, la felicità, infatti, è più radicata nella speranza che nell'esperienza presente.

 

    La vita, come noi la conosciamo in questo mondo decaduto, ci porta a sperimentare un dolore nel nostro cuore che non conosce sollievo, un dolore che può scoppiare per mostrare la sua siccità quando gli altri lo esasperano. Le parole offensive di un amico, la scortesia di un collega di lavoro, il cattivo umore di un bambino possono provocare in noi, a volte, una reazione molto più intensa di quanto la ferita giustifichi. Perché? Forse il fatto che ci perturba ci sospinge verso l'angoscia cronica che si trova dentro di noi, verso il dolore della frustrazione profonda che neghiamo disperatamente. Rimaniamo davanti all'alternativa di fuggire dal dolore e nasconderci nella nostra autoprotezione o di ammetterlo e riposare sicuri nella promessa del nostro Signore:

 

"Il vostro cuore non sia turbato…e quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono lo, siate anche voi" (Giovanni 14:1-3).

 

   Autoprotezione o fiducia? Ogni nostro comportamento alla fine riflette una delle due scelte possibili. O accettiamo il gemere come una forma di vita e aspettiamo ansiosamente il ritorno del Signore con una devozione centrata solo in Lui, o cerchiamo di sfuggire alla scomoda realtà di un cuore che geme, negando l'effetto di ogni sintomo che ci ricorda che la vita non è come dovrebbe essere. Quest'ultimo atteggiamento si chiama autoprotezione e macchia i nostri migliori sforzi per amare, impregnando le nostre relazioni affettive con proponimenti difensivi.

 

   Molti coniugi passano la loro vita mantenendo le distanze l'uno dall'altra e, in occasione delle nozze d'oro, celebrano un'associazione durevole ma priva di passione. Lo stesso vale per la cortesia che esprimiamo nelle nostre conversazioni o rapporti amichevoli. Siamo stati tutti delusi nelle nostre relazioni affettive e abbiamo sofferto. Si è, così, sviluppato in noi il proponimento di non tornare a sperimentare quel dolore e abbiamo elevato delle barriere autoprotettive. Cerchiamo, adesso, di amare, ma da lontano, annullando in questo modo l'essenza stessa dell'amore. Continuiamo, però, a tenere ben alte le nostre barriere difensive, perché lo star lontano dalla nostra angoscia è più importante per noi del bisogno di ottenere un vero avvicinamento a Dio e agli altri.

   Gli uomini che da bambini si sono sentiti rifiutati dai loro padri, spesso si mantengono lontani dai loro figli. I peccati dei genitori, molte volte, si trasferiscono sui figli mediante la dinamica dell'autoprotezione. Fa male sentirsi rifiutati e il rigetto genera perplessità sul concetto del nostro valore per gli altri. Così che, per evitare lo smacco di un nuovo rifiuto, ci neghiamo a presentare quella parte di noi che temiamo possa essere ricevuta con indifferenza. La ritirata auto protettiva può assumere svariate forme. Alcuni padri lavorano duramente perché si sentono più idonei sul loro lavoro che in casa. Altri prendono parte ad ogni attività familiare che si presenti: non mancano mai alle partite di pallone dei loro figli, escono i fine settimana con la famiglia, leggono favole ai foro bambini prima che si addormentino. la motivazione, però, che spinge a questo impegno solenne nella famiglia, può essere ancora l'autoprotezione.

 

   Alcuni uomini si dedicano con fervore verso le loro famiglie nel tentativo disperato di guadagnare quell'interessamento che non hanno mai percepito da parte dei loro genitori. Anche in questo caso c'è l'autodifesa, non l'amore. l'autoprotezione è l'assassino silenzioso della vera comunione. Raramente viene riconosciuta, ma è come la pressione arteriosa alta non trattata, che mina la salute e la vita delle relazioni interpersonali. l'autodifesa è sottile, ma seria, perché condiziona sensibilmente il nostro comportamento con gli altri. l'amicizia può proteggerci dal rigetto, l'umorismo può aiutarci ad evitare l'isolamento, la timidezza può essere un mezzo per non doverci vedere mai come stupidi.

 

   Non riconosceremo il peccato sottile dell'autoprotezione, finché non riconosceremo l'angoscia dalla quale desideriamo salvarci. E questo è il punto chiave che desideriamo mettere in risalto. Se non conosciamo o sperimentiamo la sete della nostra anima, non avremo la tendenza a chiederci se il nostro stile di relazione con la gente è calcolato in modo tale da mantenerci sicuri e lontani dal dolore di una sete implacabile. Confrontarsi con la frustrazione è elemento indispensabile per la crescita cristiana.

 

3. La ricerca ardente di Dio

   Quanti cristiani sinceri mancano di passione per Gesù. Uno pensa che quando l'assetato viandante del deserto awista un'oasi, si sente emozionato mentre si trascina stancamente verso le fonti di acqua fresca. Se non ho sete, un bel bicchierino pieno di acqua non esercita su di me nessuna attrazione. Se non percepiamo i desideri del nostro cuore, l'avidità che sentiamo per Gesù non va oltre la nostra speranza di benessere fisico e di relazioni interpersonali soddisfacenti (ciò che speriamo è che Lui soddisfi i nostri desideri non trascendenti e anche quelli critici). Con questi pensieri non c'è spazio per un desiderio ardente di intimità con il Signore Gesù Cristo. Alcuni partano della loro relazione con Dio, così come altri potrebbero commentare la loro lealtà ad un'impresa che li tratti bene. C'è poi chi parla del cristianesimo come di un sistema di pensiero che dà luce sulla realtà delle cose.

 

   L'idea di uno sposo che si unisce alla sua sposa per produrre il suo frutto in lei, si è perso in un cristianesimo che è diventato specialista nel rilasciare dichiarazioni e che non si cura dei desideri del cuore. Le dichiarazioni che contano sono quelle che mettono in evidenza la capacità di Gesù di colmare i nostri vuoti e bisogni, come risultato pratico e non come fredda enunciazione teologica. Tutti siamo concordi nel riconoscere che dobbiamo dipendere da Dio, ma perché? Per la salvezza, certamente, e per l'insegnamento e la forza per seguirlo. Ma non c'è nient'altro? Come la mettiamo con quei passaggi biblici che parlano di sete? Raramente si esplora la passione del salmista, ripieno di anelito per Dio, che mette in evidenza l'essenza della dipendenza dell'uomo. Non possiamo vivere senza Dio, perché siamo stati creati per godere di ciò che solo Lui può dare. I nostri desideri, quindi, sono al centro stesso della nostra dipendenza.

   La dottrina della depravazione dell'umanità, deve essere completata con una dottrina della dipendenza da Dio più chiara. Non stiamo diventando "psicologi" quando parliamo dei desideri dell'uomo, perché questo è un concetto totalmente biblico. Quando aggiungiamo alle nostre posizioni dottrinali la comprensione del nostro anelante, dipendente e assetato cuore e sviluppiamo il coraggio per sentire la realtà di questo insegnamento della nostra anima, allora possiamo rimanere radicati nella dichiarazione rivelatrice senza sacrificare la nostra passione.

 

   Dio desidera sviluppare una relazione personale con i suoi figli e per questo anela che noi gli offriamo il nostro cuore. Lui ci ama. Nella misura in cui noi accettiamo la nostra sete e riconosciamo chi è Lui, lo aneliamo. Non c'è niente di oscuro nel romanzo tra il nostro sposo celeste e la sua addolorata e incostante sposa. Quanto più sinceramente affrontiamo l'angoscia che può essere racchiusa nel nostro essere, più appassionatamente arriveremo davanti alla bellezza di un amante che risponde concretamente con tutto il tenero potere che il nostro cuore desidera. La gente che rimane lontana dalla sua "pena", tende a sviluppare una relazione positiva con Gesù. Spendono più energie in idee, cause o progetti che nella comunione con Lui. Possono essere affabili e pieni di attenzioni, ma raramente si percepisce la forza della loro presenza. Non sono quelli che andremmo a cercare in occasione di una tragedia e nel momento del bisogno di un amico.

 

   Le nostre chiese di riempiono di gente solitaria. Partecipano alla scuola domenicale, conversano durante i pasti comunitari, frequentano con interesse i piccoli gruppi di studio biblico. Molte volte si sentono contenti e godono di tutto ciò che la comunità offre di piacevole, ma ci sono dei momenti in cui una sensazione di vuoto li trafigge come una spada. Giungono al punto anche di piangere, ma poi si riprendono e vanno avanti con la vita di sempre. Quando un cristiano pieno d'amore rivolge loro la parola, sentono uno strano rivolgimento interno: una parte della loro anima, che forse è rimasta inattiva per decenni, si sente toccata. Un filo di acqua fresca scorre nelle loro gole e così si rendono conto di quanto fossero secchi ed assetati. Rivive la speranza che la vita potrebbe essere non solo piacevole, ma anche ricca di significato. Abbiamo bisogno di sentirci profondamente vivi e la lotta, anche se dura, è il mezzo per raggiungere tale fine. Coloro che ammettono la loro angoscia possono seguire Dio con più ardore e questo ardore è contagioso. I meno focosi possono istruire gli altri sul modo di vivere in accordo con la Bibbia, ma solo coloro che sono ripieni d'amore possono portare altri a sperimentare la comunione con Dio.

 

 

 

Come affrontare la sete?

 

   La percezione dei nostri desideri più profondi è un processo penoso e per questo non risulta facile. Il riconoscimento di quella vaga sensazione di vuoto che si può sopprimere per qualche tempo, ma mai risolvere, può sia alterare una vita comoda, che aggiungere difficoltà ad una vita già percossa dall'angoscia. Preferiamo ammettere solo quei problemi che possiamo affrontare: "Stai lottando con la rabbia?" Ecco, questo è quello che devi fare. "Ci sono tensioni nel tuo matrimonio? Hai problemi economici?" Segui questi passi e i tuoi problemi si trasformeranno in benedizioni.

   Controllare la nostra vita in accordo ai principi biblici spesso è un mezzo per frapporre una certa distanza tra noi e la sensazione di sete. E' giusto, naturalmente, assumersi le proprie responsabilità riguardo al denaro, la famiglia e le abitudini personali, ma la quantità delle responsabilità assunte non ci libererà dalla sete della comunione con Dio. Solo il Cielo offre la soddisfazione completa. Ma fino ad allora, questa molesta sensazione di imperfezione continuerà a macchiare la vita più responsabile e benedetta. Possiamo negarla o coprirla con attività e piaceri, ma non potremo liberarcene.

 

   Come possiamo riconoscere questa sete, questa delusione della vita, che spesso è negata da tanti elementi combinati tra loro? Ecco tre suggerimenti al riguardo:

1)  Formulare le domande difficili che producono confusione.

2) Esplorare le imperfezioni delle relazioni chiave fino a sperimentare una profonda frustrazione.

3) Studiare la propria attitudine verso le relazioni interpersonali, con la disponibilità a riconoscere i propri atteggiamenti sbagliati.

 

1. Formulare le domande difficili che producono confusione

   Dio ci dice ciò che è sufficiente per stabilire, dirigere e alimentare la nostra fede, ma non abbastanza per mettere fine alla confusione. Quello che Lui fa o permette, molte volte è sconcertante e persino tale da farci impazzire. Dei genitori convertiti di recente, per esempio, decisero di mandare la figlia di 13 anni in una scuola cristiana per promuovere in lei quei valori e norme in cui adesso credevano. Una delle professoresse spinse la ragazza nella droga e per quasi tutta la sua adolescenza non riuscì a liberarsi da questo problema. Il caos entrò nella famiglia. Furono necessari vari anni di trattamento in comunità prima di poter scorgere nuovamente la luce alla fine del tunnel. Quei genitori non avevano preso la decisione di inviare la figlia in quella scuola con leggerezza. Avevano pregato con intensità, ascoltato i consigli di vari pastori e si erano informati personalmente sulla realtà di quella scuola. La loro domanda, che ricalca esattamente quella fatta da moltissime altre persone prima di loro, fu: "Perché Dio ha permesso questo?"

 

   La tendenza nella maggioranza dei credenti è di cercare un modo per avvolgere questa domanda così penosa con una bella carta. Vogliamo dare una risposta che risolva le cose con una nota positiva, o, quando ciò non è possibile, che consenta di chiudere una discussione scomoda. Ci sono, naturalmente, verità bibliche che si occupano delle questioni difficili. La dimostrazione di amore di Dio sulla croce dovrebbe porre fine ad ogni dubbio sul suo atteggiamento positivo nei nostri confronti. La realtà della sua sovranità, poi, ci sospinge alla fine a stare calmi.

 

   Ma quando si offre la verità legittima con il proponimento di dare una soluzione alle domande difficili, questa verità diventa un cliché. Alle domande sincere formulate da un cuore dolente, bisogna permettere di aprire la porta della confusione. Chiudere, sbattendo la porta, e, così facendo, dichiarare che la confusione sincera non trova posto nella nostra ricerca di Dio, ci porta verso una fiducia forzata e meccanica, più che verso una sicurezza reale e vitale.

 

   Un'altra strategia per sfuggire alla confusione, è rispondere ad una situazione traumatica con uno schema stabilito su "ciò che si deve fare al riguardo". In ogni situazione c'è un modo di reagire che è gradito a Dio. E questo deve essere il nostro obiettivo: gradire a Dio più che cercare un rimedio per ogni disgrazia. A volte, però, la determinazione di risolvere un problema, può avere la sua origine in un desiderio forte di evitare la tensione dovuta alla confusione presente nella nostra anima. E' terribile constatare che la nostra vita non è più sotto controllo. E' Molto meglio, però, passare alcune notti in bianco piangendo e sentendosi confusi, che diventare spassionatamente efficienti nel nostro modo di vivere le relazioni affettive. Affrontare in maniera sincera la confusione, dà alla fede l'opportunità di svilupparsi. Quando la vita non ha più senso e la confusione ci spacca il cuore, possiamo fare solo tre cose.

 

1. Mettere da parte il nostro credo cristiano e cercare sollievo e felicità immediata (non trovandoli si può arrivare al suicidio).

    2. Fuggire dalla confusione, così come un boscaiolo fuggirebbe davanti ad un orso affamato. E' una strategia cristiana negare la realtà di situazioni che perturbano, per mettere fine, così, alla confusione, nascondendosi dietro una rinnovata consacrazione alla verità di Dio. Una simile strategia produce un dogmatismo rigido che uccide la nostra vitalità. Il legalismo non ci permette di essere preoccupati nell'esplorare domande difficili. L'investigazione viene rimpiazzata completamente dall'indottrinamento.

3. Davanti alla confusione, optare di afferrarci con tenacia disciplinata a Gesù Cristo, a quello che Lui è, e a ciò che Lui ha insegnato, anche se la nostra battaglia con la confusione continua con la stessa intensità.

 

   La storia della vita di Habacuc incomincia con un profeta turbato, che nel volgere di breve tempo diventa sconvolto a causa della confusione che regna nella sua vita. Non rimase in silenzio (capitolo 2), ma espresse la sua confusione. Dio, allora, si rivelò al suo servo in un modo tale da portarlo a proclamare una fiducia in Dio che nessuna confusione avrebbe potuto più demolire.

Siamo disposti a guardare tutto ciò che succede nella nostra vita. Non affrettiamoci davanti ad avvenimenti e pensieri perturbatori ad una affermazione della nostra fede che sia più invenzione che realtà. Lasciamo che la nostra mente esplori i problemi difficili che provocano una vera alterazione del nostro equilibrio, con il fine di sviluppare una maggior fede in Gesù e un maggior senso della realtà della sua presenza.

 

    - Quel tale che ha abusato di lei quando era bambina. Era un anziano rispettato nella sua chiesa. Come ha reagito di fronte a questo fatto? Sospetta dell'integrità di tutti?

 

    - Il trasferimento che ha dovuto intraprendere a causa del suo lavoro, decisione chiaramente ispirata da Dio e che ha allontanato i suoi figli da un ottimo gruppo giovanile inserito in una chiesa viva. Ha dovuto vivere diversi anni senza una buona chiesa, il gruppo giovanile è così ridotto e le regole così severe, da spingerla a non obbligare i suoi figli a parteciparvi. A causa di ciò, però, si stanno allontanando dal Signore. Come fare, adesso, perché tutto questo venga accettato dalla sua mente?

 

    - Il dottore che ha consultato e che ha fatto una diagnosi sbagliata relativamente al suo problema. Adesso si trova inabile a causa di un male che avrebbe potuto essere scoperto prima. Il suo è un buon medico, ma quella volta ha commesso un errore. Si appoggia su Romani 8:28 e va avanti? Che cosa fa con la sua rabbia e confusione?

 

   Uno sguardo sincero alla vita causa confusione, ma questa non è negativa in quanto genera in noi il desiderio appassionato che qualcuno, forte e amoroso, operi dietro tutto ciò che vediamo con l'intento di procurarci una conclusione giusta e felice. Dobbiamo comunque accettare che una certa dose di confusione non scomparirà dalla nostra vita. Finché non crediamo che possiamo liberarci dalla nostra confusione impegnandoci di più nello studio e nell'approfondimento delle cose, non verremo sospinti ad abbracciare una fede ardente. La fede vigorosa non può crescere in una

mente comoda e rilassata, ma solo quando è turbata da un tal grado di confusione, per cui o crediamo in Dio o diamo per persa la vita. L'esperienza della confusione origina una sete che solo la fede può spegnere.

 

2. Esplorare le imperfezioni delle relazioni chiave fino a sperimentare la frustrazione profonda

    La frustrazione è un altro mezzo che ci consente di prendere atto della sete profonda presente nel nostro cuore e che rivela la nostra dipendenza da Dio.

Per molti la cosa più difficile da ammettere è di sentirsi defraudati dai loro genitori. Anche coloro che furono vittima di oltraggi nella loro infanzia, si afferrano alla speranza che i loro genitori in fondo li amavano, "ma non sapevano come dimostrarlo". E' difficile affrontare onorevolmente il fatto di non essere stati amati con quell'amore che desideravamo con tanta urgenza. E' più facile ammettere la propria mancanza d'amore che la profonda delusione che ha rappresentato l'amore dei genitori. Molti hanno dei genitori meravigliosi di cui sono riconoscenti, ma tutti aneliamo ciò che anche il miglior genitore non può darci: perfetto amore. L'amore che è sempre presente con comprensione, profondamente preoccupato e disposto, in qualsiasi momento, al sacrificio per il nostro benessere, mai troppo intento a soddisfare i suoi bisogni per essere sensibile ai nostri, forte per affrontare ogni nostro errore senza retrocedere e sufficientemente saggio per guidarci in maniera adeguata di fronte ai bivi della vita.

 

   Nessun genitore è in grado di elevarsi all'altezza di questo modello, ma ciononostante il nostro cuore non si rassegna con un livello inferiore. E poiché ogni figlio si rivolge in maniera istintiva e naturale a chi gli ha offerto le prime cure per cercare di ottenere ciò che desiderava disperatamente, rimane frustrato.

Quando cerchiamo di amare i nostri genitori, nascondendo la delusione che abbiamo nei loro confronti, il nostro amore si edifica sulla negazione. Ma quando riconosciamo l'angoscia profonda presente nella nostra anima, che non avrebbe ragione di esistere se i nostri genitori ci avessero amato perfettamente, incominciamo a renderci conto di quanto assetati siamo di quello che nessuno ci ha potuto dare. Possiamo riconoscere la nostra esigente dipendenza dalla gente, la nostra insistenza peccaminosa che altri facciano per noi ciò che non possono fare (una forma di idolatria).

 

   Quando impariamo ad accettare coloro che ci deludono, senza richiedere da loro che ci soddisfino, allora siamo liberi per amarli e per protenderci verso di loro pieni di considerazione, senza doverci proteggere dal sentimento di delusione che potrebbe causare la loro reazione nei nostri confronti. " cristiano maturo è uno che sta crescendo nella sua capacità di amare le persone così come sono e non come lui vuole che siano. Il proponimento nell'ammettere quanto siamo delusi degli altri, non risiede nell'alimentare la nostra critica, o la nostra rabbia, o nell'attribuire la colpa per i nostri difetti all'educazione ricevuta dai nostri genitori. L'obiettivo è esattamente l'opposto: mostrare a noi stessi quanto erroneamente esigiamo che gli altri si facciano sempre in quattro per noi, imparare ad approssima rei ad essi senza tali esigenze e amarli in maniera gratuita e genuina.

 

   Se il risultato dell'affrontare la delusione deve essere il rafforzamento dell'amore e

non la promozione del risentimento e dell'autocommiserazione, dobbiamo imparare ad avere speranza. Nel momento in cui sentiamo la nostra frustrazione ci mettiamo in contatto con una parte della nostra anima che desidera molto di più di quanto possa ricevere in questa vita dagli altri. Soffrendo per la realtà di desiderare ciò che non abbiamo, incominciamo a comprendere l'ansiosa aspettativa di Paolo per il ritorno di Gesù Cristo. Il sentimento penetrante di delusione nel momento presente, fornisce l'energia per avere una speranza ardente per il futuro. Sapendo che ogni desiderio profondo del nostro cuore un giorno verrà soddisfatto completamente e in eterno, impariamo a vivere senza chiedere niente adesso. La speranza è l'antidoto per la frustrazione e per le esigenze che ne derivano. Con la fiducia nel Signore siamo liberi per amare, per rischiare ulteriori delusioni, per affrontare la realtà inevitabile della frustrazione e per accettarla come stimolante per una speranza più appassionata. Sentire delusione ci mette in contatto con una sete che solo la speranza può soddisfare.

 

3. Studiare la propria attitudine verso le relazioni interpersonali con la disponibilità a riconoscere i propri atteggiamenti sbagliati

   Affrontare le delusioni che altri ei causano, può condurci non solo a sviluppare una speranza più appassionata del cielo, ma anche a comprendere che il nostro modo di relazionarci con gli altri, molte volte, è dettato più dall'autoprotezione che dall'amore. Un uomo confessò di imitare Clint Eastwood nel suo modo di relazionarsi con gli altri: rude, silenzioso, impassibile. Aveva incominciato a vedere che quella che lui definiva attitudine da galantuomo, in realtà non era altro che una forma di protezione. Temeva, infatti, di parlare francamente con sua moglie per paura che venisse scoperta la sua incapacità di sviluppare una relazione a livello intimo.

Noi siamo stati creati non solo per essere amati, ma anche per amare. Quando ci rendiamo conto della nostra incapacità' di amare e incominciamo a vedere che molte

delle cose che facciamo sono impregnate dal nostro sforzo egocentrico di evitare il dolore, lo Spirito di Dio ci convince della nostra peccaminosità.

 

   Possiamo, così, entrare in una fase di pentimento che ci liberi per poter godere in un modo più completo dell'amore di Dio e che ci renda capaci, come conseguenza, di amare Lui e gli altri più intensamente. "Esaminami, o Dio, e conosci il mio cuore. Vedi se c'è in me qualche via iniqua e guidami per la via eterna" (Salmo 139: 23-24). La supplica tesa alla convinzione di peccato produce una sete di relazioni con gli altri, sulla base di un amore più puro.

Confuso? La risposta è la fede. Deluso? Solo la speranza offrirà un valido aiuto. Rimproverato? Il superamento di questa fase è nell'amore.

 

 

Un esempio

 

   Maria era una nubile di 30 anni, attraente, molto attiva nella sua chiesa locale e rispettata da tutti. Era un modello per le altre donne non sposate della chiesa: non si lamentava mai, era affabile, lavoratrice e ansiosa di utilizzare la sua posizione di single come una opportunità per il servizio. Quando le chiedevano la sua opinione sul matrimonio, rispondeva semplicemente: "Sono aperta alla volontà del Signore. Non ho l'intenzione, però, di rimanere seduta aspettando che appaia l'uomo designatomi da Dio. Ci sono tante cose buone da fare". Dovendo descrivere Maria, i suoi amici le avrebbero dato questi attributi: diligente, seria, attiva e capace, ma non dolce, femminile e amorosa.

 

   Un giorno incominciò a sentire una cera indifferenza riguardo l'attività che svolgeva in chiesa e questa indifferenza andava aumentando sempre più. Chiese consiglio. Maria aveva isolato le parti della sua anima che esprimevano dolcezza, amabilità e ricettività dietro un grosso muro di competenza e dedicazione. Che cosa l'aveva fatta sentire minacciata come donna per assumere questo atteggiamento? Stava usando le sue capacità naturali e la sua preoccupazione spirituale per proteggersi dall'angoscia che avrebbe potuto scaturire da una relazione intima. Così facendo, stava vivendo alla periferia della vita cristiana con la sua dedicazione al dovere, al servizio, allo studio, all'impegno sociale, ma con la sua chiusura verso lo sviluppo di relazioni interpersonali.

 

   Non stava godendo dell'amore degli altri, imperfetto si, ma reale, né si dava agli altri con amore. Per lei era prioritario proteggersi contro il dolore che poteva sorgere da relazioni affettive deludenti. Quando un uomo manifestava un minimo di interesse nei suoi confronti portava subito la conversazione sulle cose da fare all'interno della chiesa e poi si consacrava con maggior dedicazione al servizio cristiano. Maria non era libera. Anche se diligente e apparentemente 1nstancabile non stava facendo la vera opera a cui era stata chiamata. La sua opera nella chiesa non era la manifestazione di un cuore profondamente toccato da Dio, né uno sforzo diretto sopra ogni altra cosa alla benedizione degli altri. Incominciò ad ammettere di sentirsi un po' sola e accettò il consiglio di esplorare la frustrazione che percepiva nelle relazioni interpersonali chiave. Non le era successo nulla di traumatico, non era stata molestata da nessuno e non aveva avuto un padre alcolizzato che la picchiava, ma ciononostante non si era mai sentita apprezzata da nessuno.

 

   Suo padre era morto pochi anni prima. Era stato una brava persona, un cristiano vigoroso che ammirava in un modo particolare la consacrazione a Dio. Maria non riusciva a ricordare nessuna conversazione in cui lui la stimolasse a parlare delle cose che le interessavano, né ricordava di avere mai avuto la libertà di parlare del compagno di scuola di cui si era innamorata. Il messaggio di suo padre era chiaro: "Non puoi riposare nel mio amore, ma devi consacrarti sempre di più a Dio". Il suo cuore era assetato di ciò che non aveva mai potuto avere: un padre che con affetto e rispetto ascoltasse quello che lei voleva condividere con lui. Imparò a nascondere questa sua sete, e si dedicò, con sempre più forza, all'opera cristiana. Correva meno rischi di sentirsi frustrata, se negava a se stessa l'intensità dei suoi desideri. Il suo notevole impegno all'interno della chiesa le permetteva di ricevere espressioni di riconoscenza e questo la faceva star bene. Attirava la gente fino al punto di essere rispettata e apprezzata, senza però permettere che nessuno penetrasse nei luoghi segreti del suo essere, dove desiderava essere amata. Quando riconobbe che in lei c'era il profondo desiderio che qualcuno d avvicinasse a lei come mai suo padre lo aveva fatto, incominciò a vedere il proponimento autoprotettivo nel suo stile di relazionarsi con gli altri.

 

 

 

Il problema di continuare ad esigere

 

   Siamo un popolo esigente. Siccome siamo ostinati nel rifiutare le provviste di acqua di Dio e insistiamo nel voler scavare le nostre proprie cisterne, per poter sopravvivere diventiamo dipendenti dall'acqua che troviamo nei nostri scavi. I nostri sforzi di difesa propria devono funzionare. Quando ci assumiamo la responsabilità di affrontare il problema della nostra sete, dipendiamo, così, dal successo delle nostre spedizioni di scavo.

 

   Esigiamo che i nostri coniugi rispondano alle nostre necessità; che i nostri figli esibiscano il frutto del nostro insegnamento religioso; che le nostre chiese siano sensibili alle nostre preoccupazioni, offrendoci certi ministeri; che le macchine lente si mettano da parte per lasciarci passare; che nessuno torni a ferirei come lo siamo stati nel passato; che i piaceri legittimi, a lungo negati, siano nostri per goderne.

Che assurdo! E' possibile immaginarsi un esercito dove le reclute danno gli ordini, o compagnie dove i procacciatori stabiliscano la politica che deve essere seguita? Similmente, semplici persone gridano ordini all'universo. Tale stupidità è la conseguenza inevitabile per essersi assunti la responsabilità di assicurarsi la propria felicità, un peso troppo grande per le nostre spalle. Quando ci assumiamo la responsabilità per ciò di cui abbiamo disperato bisogno ma che non possiamo controllare, chiediamo in forma assurda che i nostri sforzi trionfino.

Per cambiare dall'interno verso l'esterno diventa necessario affrontare il nostro problema della pretesa. Questo spirito di pretesa deve essere identificato, riconosciuto in tutta la sua fierezza e abbandonato tramite il pentimento.

 

 

 

L'attitudine di Dio riguardo questo problema

 

   Il modo come Dio dispone le cose molte volte sembra fatto apposta per frustrarci: buchiamo una gomma mentre ci dirigiamo all'ospedale, un amico ci abbandona nel momento in cui abbiamo maggior bisogno di sostegno, veniamo colpiti da febbre il giorno di un importante colloquio. Quando ci sentiamo frustrati il nostro Sommo Sacerdote sembra a volte più insensibile alle nostre necessità che pieno di compassione. La frustrazione è un ottimo terreno per la crescita spirituale da parte di uno spirito esigente. E' importante, quindi, che affrontiamo le difficoltà nel verso giusto per puntare al raggiungimento della maturità e non per diventare ancora più esigenti. L'attitudine appropriata davanti alle circostanze frustranti è il riconoscimento chiaro di chi comanda.

 

   Affrontare la frustrazione ricordando quanto Dio ci ami è un buon secondo passo, ma mai il primo. Dobbiamo prima occupare il nostro posto come creature davanti al Creatore e poi esplorare le meraviglie del suo carattere amoroso. La presa di coscienza dell'amore di Dio caccia fuori i nostri timori, ma la sottomissione alla sua autorità si incarica della nostra attitudine esigente. Possiamo immaginare Dio che ci rivolge queste parole: "lo so che la mia condotta a volte non sembra considerare le vostre preoccupazioni. Voglio che confidiate in me quando vi sentite esausti e lo vi chiamo a rimettervi in piedi. Voglio che confidiate in me quando siete ansiosi per servirmi e lo vi faccio aspettare. Non imparerete, però, a confidare in me, finché non vi sottometterete alla mia autorità. La fiducia non sorgerà mai da uno spirito esigente. Se incominciate ad ubbidirmi, nel tempo gusterete della mia bontà e delle ricchezze della comunione con me e imparerete, così, a confidare in me profondamente".

 

   Nessun tipo di sofferenza, siano crampi alle gambe in seguito ad una lunga camminata, o una famiglia che si disintegra dopo anni di sforzi responsabili, può mai giustificare uno spirito esigente. I problemi possono dar adito ad uno spirito esigente, ma mai giustificano. Dio si oppone invariabilmente ad un atteggiamento esigente da parte delle sue creature, non importa quanto acute siano le loro sofferenze. Le sue orecchie sono ben aperte per udire pianti, lamenti e suppliche di aiuto, ma non si presenterà al tavolo delle trattative per considerare le richieste di gente adirata. Dio si oppone all'orgoglio di chi esige, ma fa grazia all'umile che esprime il suo dolore.

 

 

 

Come si sviluppa il problema

 

   Siccome siamo persone decadute e cerchiamo soddisfazione mediante i nostri sforzi, ognuno di noi è portatore dell'infezione della pretesa. Se l'infezione si espande e distrugge la vita spirituale, o se si debilita fino a manifestarsi come una leggera febbre che si alza occasionalmente, ciò dipende da diversi fattori. La storia della sofferenza di Giobbe è un chiaro esempio di come questo potenziale alla pretesa, a lungo latente nella sua vita, possa manifestarsi come una malattia paralizzante, che richiede l'intervento di Dio.

 

   Il racconto biblico si apre con una serie di contrattempi devastanti per Giobbe. Improvvisamente quest'uomo si vede rovinato finanziariamente e affettivamente. Di fronte a questo disastro Giobbe si prostra a terra in adorazione: "Nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo tornerò in seno alla terra; L'Eterno ha dato, l'Eterno ha tolto; sia benedetto il nome dell'Eterno" (Giobbe 1 :21). Successivamente Dio permette a Satana di colpirlo anche nel fisico. Giobbe era stato un padre di famiglia retto, prospero e ricco. Adesso è un uomo povero e malato. A tutto questo si aggiunge anche tensione coniugale. La moglie di Giobbe ne ha già avuto abbastanza e invita il marito a maledire Dio. Questi, però, risponde con una maturità insolita: "Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremo d'accettare il male? In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra"  (Giobbe 2:10). Non c'è nessuna indicazione di spirito esigente, lamentela o amara autocompassione nella risposta iniziale di Giobbe per fa sua tragedia.

 

   Spesso anche noi nei momenti difficili cerchiamo di mobilitare le nostre risorse e ci afferriamo a Dio, mentre continuiamo ad andare avanti. E' probabile, però, che la forza per affrontare questi momenti duri è, a volte, sostenuta da una speranza serena e vigorosa, e cioè che una buona risposta da parte nostra farà terminare presto la nostra prova e ci riporterà ai tempi migliori. E' certo che più tarda il sollievo che aspettiamo, maggiore è la lotta per confidare nella bontà di Dio. Ciò che viene vista come fiducia spesso non è altro che la speranza di una pronta restaurazione della benedizione.

 

   Dopo sette giorni di inerzia Giobbe rompe il silenzio per esprimere l'angoscia della sua anima. E' inutile scaricare davanti agli altri la tristezza e il dolore che sentiamo nel profondo del nostro essere. Il nostro Signore sperimentò nel Getzemani un'angoscia così profonda da sudare sangue. Giobbe era stato creato per vivere la benedizione, ma adesso è sottoposto ad una prova molto grande e dà sfogo alla sua pena, manifestando il desiderio ardente di avere ciò che ormai non ha più. Quando le cose non vanno bene, specialmente per un lasso di tempo prolungato, e il nostro cuore è pieno più di sofferenza che di gioia, la tentazione di permettere che il nostro desiderio di sollievo diventi pretesa è fortissima. Più acuto è il dolore, più forte è la tentazione.

Giobbe desidera sollievo, ma non ha alcun mezzo per ottenerlo. Il suo primo amico, Elifaz, gli fa notare che ci deve essere una ragione per questa sua improvvisa tragedia e che trovandola potrebbe restaurare il suo benessere.

 

   Coloro che cercano disperatamente sollievo, si affidano a strategie che, in un momento di riflessione più seria, potrebbero riconoscere come molto sciocche. "Oh, m'avvenisse pure quello che chiedo, e mi desse Iddio quello che spero!" (Giobbe 6:8). Il secondo amico, Sìldad, continua il tema e gli assicura che se si rivolge a Dio con un cuore puro, Lui interverrà in suo favore e restaurerà le cose nel modo giusto (Giobbe 8:5-6).  Zofar, il terzo amico accusa Giobbe di conservare del male nel suo cuore e gli assicura che se si libera del suo peccato e torna a riporre tutta la sua fiducia in Dio, il Signore certamente gli toglierà questa vergogna (Giobbe 11:11-15). Molte delle cose dette da questi tre amici erano buone, ma nessuno di loro si era dimostrato sensibile al problema della pretesa. Ognuno di loro cercava il modo di migliorare lo stato di Giobbe, senza però prendere precauzioni nel senso di non alimentare lo spirito di pretesa. "Se fai questo", dicevano, "allora Dio ti farà quello".

 

   Giobbe valuta i consigli ricevuti, ma disperato, li rifiuta. "Se all'uomo piacesse di piatir con Dio, non potrebbe risponder gli sovra un punto fra mille" (Giobbe 9:3). "Scusatemi amici", dice Giobbe, "non può funzionare". Mi state suggerendo di sfidare Dio, ma anche se avessi con Lui un confronto verbale non riporterei la vittoria neanche una volta su mille. La mia situazione, certo, non la si può negare, ciononostante non posso immaginarmi di discutere con Dio". La sua afflizione, però continua. Nulla altera tanto come un dolore cronico, quando non c'è prospettiva di sollievo. Nel momento in cui la speranza svanisce, la fede si corrode e dà spazio alla pretesa, dimostrando in questo modo che la passata fede non era altro che la falsa fiducia che Dio alla fine (dopo un mese, un anno o due) ci avrebbe dato ciò di cui avevamo tanto bisogno. Quando le nostre preghiere non ricevono risposta più a lungo di quanto speravamo, la nostra fiducia molte volte si debilita. La fede si spoglia della sua cappa esteriore e lascia allo scoperto uno spirito di pretesa che cresce tranquillamente sotto la superficie.

 

   Alcuni anni fa ho ricevuto (parla Larry Crabb, l'autore di questo libro) una lettera da una giovane donna che mi ringraziava per l'aiuto ricevuto dalla lettura di uno dei miei libri. Mi diceva di essere stata abbandonata dal marito improvvisamente e di essere rimasta sola con tre bambini da curare e da mantenere. Il mio libro le aveva prodotto un profondo senso di sollievo, inculcandole l'idea che Cristo era sufficiente a soddisfare tutti i suoi bisogni. Alcuni mesi dopo quella donna venne ad assistere ad un mio seminario e, durante una pausa, mi contattò per esprimermi la gioia che provava nel credere in Gesù. Sentendomi un po' perplesso, volli conoscerla meglio e così le posi alcune domande:

"Che cosa intende quando dice che Gesù è sufficiente?"

" Grazie al suo libro, ho capito che Gesù è sufficiente a soddisfare tutti i miei bisogni". " E che cosa si aspetta che Gesù le faccia?"

" Che mi ridia mio marito, naturalmente. I miei figli hanno bisogno di un padre e io so che Dio opererà nel suo cuore per farlo ritornare a casa. Non so quando, ma so che questo avverrà".

 

   Quando le manifestai che non conoscevo una base biblica a sostegno della sua fiducia, il suo atteggiamento cambiò bruscamente. "Come può dubitarne? Crede che sia stato facile per me vivere sola? Se Dio è così fedele come dice di essere, allora farà sì che mio marito ritorni a casa. Deve farlo!". Quando finì di parlare la sua voce era piena di rabbia, una rabbia disperata, la rabbia dello spirito di pretesa. Era una donna profondamente addolorata (dolore nel cuore) e adesso era visibilmente amareggiata. (peccato nel suo atteggiamento), ma il problema centrale che necessitava attenzione era lo spirito di pretesa (peccato nel suo cuore). La sua "fede" in Dio si basava non su una fiducia incondizionata nel suo carattere e nel suo piano sovrano, ma piuttosto sulla speranza che Dio le avrebbe alleviata la sua sofferenza nel modo che lei desiderava. Più il compimento del suo desiderio ritardava e più aumentavano le sue pretese nei confronti di Dio, del cui intervento era "in attesa".

 

   Il dolore tenace costituisce un ambiente molto adeguato per coltivare uno spirito di pretesa. Notiamo ciò che succede a Giobbe mentre la sua afflizione continua intatta. "L'anima mia prova disgusto della vita; vo' dar libero corso al mio lamento, vo' parlar nell'amarezza dell'anima mia! lo dirò a Dio: Non mi condannare! Fammi sapere perché contendi meco!" (Giobbe 10:1-2). Più a lungo permane nella sua disgrazia e più ingiusta gli sembra la sua situazione. Quando la sua anima si vede oppressa da quella tremenda sofferenza e non riesce a scorgere una possibile consolazione in tempi brevi, il suo spirito di pretesa emerge in tutta la sua forza: "Ma io vorrei parlare con l'Onnipotente, avrei caro di ragionar con Dio" (Giobbe13:3). Prima aveva considerato del tutto inutile discutere con Dio, ma adesso sembra l convinto di avere una causa da perorare davanti a Lui.

 

   Questa convinzione è tipica di uno spirito di pretesa. Per insistere in qualcosa dobbiamo prima persuaderci che ciò che cerchiamo è meritato e legittimo, e che fondiamo le nostre richieste su una base solida. E nulla ci convince con più forza dell'idea che la nostra anima stanca merita riposo e non una sofferenza continua. Dopo aver sopportato per anni un marito privo di considerazione e non comunicativo, una moglie può giungere a credere che la richiesta di avere al fianco un compagno migliore si giustifichi ampiamente. La linea di separazione tra il desiderio legittimo e la richiesta illecita è molto fine e la si può superare facilmente. Giobbe si è convinto di avere una causa da perorare. Adesso non prega chiedendo sollievo, ma lo pretende. L'intensità della sua convinzione si riflette nella sua nota dichiarazione: "Ecco, egli m'ucciderà,' non spero più nulla; ma io difenderò in faccia a Lui la mia condotta. Ecco, io ho disposto ogni cosa, so che sarò riconosciuto giusto. V'è qualcuno che voglia farmi opposizione? Se v'è io mi taccio e vo' morire (Giobbe 13:15,18-19).

 

   Lungi dal sottomettersi umilmente alle decisioni di un Dio sovrano, Giobbe asserisce di essere meritevole di un trattamento migliore di quello che ha ricevuto. Se Dio Prende la sua vita, andrà alla tomba convinto che tutti, avendo potuto conoscere i fatti, riconosceranno senza ombra di dubbio il trattamento iniquo da lui subito.

Ognuno di noi è stato vittima del peccato di altri. Siamo stati maltrattati. E' ingiusto! Quando il dolore che ne deriva, però, non ci porta a confidare in Dio e a dare amore al posto del male ricevuto, ma piuttosto a pretendere consolazione, il mancato intervento di Dio ci porta allora a vederlo non come un amico preoccupato, ma come un nemico crudele. Ascoltiamo la percezione che Giobbe ha di Dio: "Ora, purtroppo, Dio m'ha ridotto senza forze, ha desolato tutta la mia casa; m'ha coperto di grinze e questo testimonia contro a me, la mia magrezza si leva ad accusarmi in faccia. La sua ira mi lacera, mi perseguita, digrigna i denti contro di me. Il mio nemico aguzza gli occhi su di me" (Giobbe 16:7-9).

 

   Moltissimi cristiani dichiarano di avere difficoltà nel credere che Dio realmente li ami. Altri parlano meravigliati dell'amore di Gesù, ma senza enfasi nelle loro voci o fuoco nei loro cuori. Perché Dio sembra così lontano e così poco preoccupato delle lotte che sopportiamo? Una parte del problema, forse, sta nel fatto che abbiamo dei piani definiti per raggiungere la felicità, o almeno la consolazione. Questi piani sono radicati nella forma di pensare riguardo la vita e ne abbiamo talmente piena la testa, da non pensare mai di metterli in discussione. Tendiamo a misurare l'amore di qualcuno sulla base della sua cooperazione nell'aiutarci a portare a compimento i nostri piani. La riluttanza di Dio nell'aiutarci a realizzare i nostri obiettivi (e la sua insistenza nel cedergli i nostri progetti) fa sì che non sembri preoccupato per la nostra felicità. Il cielo diventa una cappa di piombo oltre il quale le nostre preghiere non riescono a passare. La nostra mente crea un concetto di Dio che si sente indifferente alla nostra angoscia e che si adira a causa delle nostre lamentele. Le nostre ferventi suppliche, affinché Lui faccia ciò che il nostro concetto di giustizia e di compassione richiede, rimangono senza risposta.

 

   La convinzione di Giobbe che il peso della morale è dalla sua parte, diventa sempre più forte. Crede che gli argomenti a suo favore persuaderebbero chiunque, Dio compreso, a prendere delle misure urgenti per modificare la situazione. Dio, però, rimane imperturbabile e non si lascia impressionare dalle richieste di Giobbe. Alla fine esclama: "Ecco, io grido: Violenza! E nessuno risponde; imploro aiuto, ma non c'è giustizia! (Giobbe 19:7). Quando dei problemi gravi peggiorano, viene la tentazione di abbandonare Dio. Quando la fonte principale di potere rifiuta farsi carico della nostra giusta causa, allora si accetta e si giustifica qualsiasi cosa che possa darci sollievo. Come possiamo colpevolizzare un uomo affamato, specialmente se non lo è per colpa sua, per aver rubato una mela? La lotta incessante tende ad offuscare le nostre linee di discernimento morale. Cose chiaramente non buone, diventano meno sgradevoli alla nostra coscienza quando ci offrono la nostra unica speranza di aiuto. Notiamo ancora una volta il problema centrale: Non è il dolore presente nel nostro cuore (è positivo che soffra), né il nostro desiderio di sollievo e soddisfazione (è positivo aver sete), ma è la pretesa. Quando chiediamo sollievo per la nostra sete e lo vogliamo subito, ignoriamo il rischio di allontanarci dalla morale biblica: qualsiasi cosa che calmi la nostra angoscia viene giustificata.

 

   Il risultato, spesso, è un compromesso con la morale e una vita rovinata. Altri che soffrono e rivolgono al cielo richieste pretenziose, forse non volgono le spalle a Dio vivendo in evidente peccato, ma continuano a rivolgersi a Lui con la convinzione che le loro richieste debbano essere esaudite.

 

   La gente che soffre lotta per non perdere la speranza. I mezzi, però, per sostenere questa speranza possono essere la supposizione che un giorno (prima di arrivare in Cielo) Dio renderà loro la vita più facile. Lui sistemerà le cose in modo tale da poter ottenere ciò che noi "sappiamo" essere essenziale per la nostra felicità. Per esempio che nostro marito ci lasci per un'altra donna, permettendoci, così, di sposarci "biblicamente" con l'uomo che abbiamo amato in silenzio per tanti anni. O che Dio tocchi. la nostra figlia adolescente al campo estivo; il Signore sa che le nostre preghiere sorgono da un cuore distrutto dalla sua arroganza e che non possiamo fare più di tanto. Mentre stiamo aspettando da Dio il sollievo richiesto, cerchiamo di scoprire il modo di persuadere Dio che la nostra petizione è ragionevole. Dobbiamo soltanto convincerLo che un buon Padre deve dare ai suoi figli che soffrono un riposo.

 

   Dio ascoltò e liberò il suo popolo afflitto che lo invocava in Egitto. Perché non dovrebbe aiutarci nella nostra angoscia? Ci deve essere un modo per far sì che Lui  veda le cose dal nostro punto di vista. Ascoltiamo come Giobbe espone il suo desiderio di incontrarsi con Dio per presentargli la sua causa: "Allora Giobbe rispose e disse: Anche oggi il mio lamento è una rivolta, per quanto io cerchi di comprimere il mio gemito. Oh sapessi dove trovarlo! Potessi arrivare fino al suo trono! Esporrei la mia causa dinanzi a Lui, riempirei di argomenti la mia bocca. Saprei quel che mi risponderebbe, e capirei quello che avrebbe da dirmi. Contenderebbe Egli meco con la sua gran potenza? No! Invece, mi presterebbe attenzione. Là sarebbe un uomo retto a discutere con Lui, e sarei dal mio giudice assolto per sempre" (Giobbe 23:1-7).

 

   La maggior parte di noi è passata per lo stesso tipo di esercizio di immaginazione: "Se potessi avere un incontro con Dio!". Giobbe, però, ammette che Dio è troppo indipendente per poter essere condizionato dalla sua richiesta: "Ma la sua decisione è una; chi lo farà mutare. Quello ch'Ei desidera, lo fa; Egli seguirà quel che di me ha decretato; e di cose come queste ne ha molte in mente. Perciò nel suo cospetto io sono atterrito; quando ci penso, ho paura di Lui (Giobbe 23:13-15). Questo riconoscimento di Giobbe è ancora una volta rivolto a suo favore. Colui che ammette che Dio potrebbe anche non accordargli ciò che gli sembra tanto appropriato nella sua conoscenza dell'Onnipotente, può trovarsi più lontano di colui che aspetta allegramente che Dio migliori ogni cosa. L'ottimista ingenuo preferisce la finzione romantica alla biografia della vita reale. Dio deve farlo! I fatti, invece, distruggeranno la sua allegria. La fede di un ottimista felice è come lo strato dolce superiore di una torta: è dolce e decorativo, ma del tutto privo di quei componenti nutrienti necessari per la salute. Giobbe non è un ottimista frivolo, ma il suo riconoscimento realistico che Dio avrebbe potuto non rispondere alle sue richieste, non lo sospinge verso quella fede umile in un Dio che fa tutte le cose in accordo alla sua volontà perfetta, bensì verso quella pretesa che produce una disperazione adirata: "E' possibile che Dio non lo faccia, e probabilmente non lo farà, ma dovrebbe farlo".

 

   Siamo così preoccupati per il nostro benessere che chiunque ci blocchi nel cammino verso la gioia, diventa l'oggetto della nostra collera. E, mentre soffriamo con nobili sentimenti, diciamo: "Come può Dio trattarmi in questo modo? E' così ingiusto. Malgrado soffra, andrò comunque avanti". Questa attitudine è totalmente abominevole per Dio. Il nostro Signore ci ha insegnato ad amare gli altri come noi stessi, ad essere così preoccupati per il benessere degli altri come lo siamo per il nostro. Questo comandamento ci spaventa, ci sbigottisce. Più capiamo ciò che l'amore esige da noi, più ci rendiamo conto della nostra incapacità d'amare e più ammiriamo l'amore di Gesù. Dio si aspetta che ci dedichiamo ad amare gli altri, anche quando colui che sto cercando di amare ci delude. Questo modo di procedere, però, è completamente estraneo al nostro modo naturale di procedere. Una reazione come questa viola ogni sensibilità normale della nostra mente ottenebrata. Non ci sembra giusto, semplicemente, di venire delusi in questo modo. Tendiamo a impantanarci nella dolorosa realtà della nostra frustrazione. Vivere senza dover far caso alle continue delusioni, sembra così illogico come usare le nostre orecchie per mangiare e la nostra bocca per udire.

 

   La pretesa è un problema serio, anche perché rare volte lo si considera come un problema. Possiamo sentirci più forti e più vivi quando ci lasciamo guidare dalle nostre richieste e cerchiamo di convincerci della loro credibilità. E' possibile vedere la falsificazione spirituale in una richiesta come quella che segue, quando ci avviciniamo a Dio sulla spinta di uno spirito esigente: "Amato Signore, Tu sai quanto stia soffrendo a causa delle tensioni familiari. Vengo a Te adesso con fede, credendo che risponderai alle mie preghiere e restaurerai così la gioia nella nostra famiglia. Aiutami, amato Signore, a sforzarmi per portare avanti le mie responsabilità di marito e padre". Questa preghiera può essere di valore  e può produrre calma e fortezza nell'uomo che desidera amare la sua famiglia. Oppure può nascondere l'esigenza che Dio restauri l'unità familiare, esigenza che dà fiducia a quell'uomo per continuare ad andare avanti con la sua famiglia. Se sorgono ulteriori tensioni familiari, i buoni sentimenti di quell'uomo possono trasformarsi in un risentimento farisaico nei confronti di chi ha I permesso quel problema aggiuntivo.

                                                                                                                                            

 

 

Attitudine di Dio verso uno spirito esigente

 

   In mezzo a terribili calamità, permesse in maniera specifica da Dio, Giobbe sviluppa uno spirito esigente. E' così convinto della legittimità delle sue richieste che desidera ardentemente avere un'opportunità per presentare la sua causa direttamente a Dio. E Dio gliela concede, ma l'incontro non ha quegli sviluppi che Giobbe si era immaginato. Ascoltiamo ancora una volta ciò che Giobbe pensava sarebbe accaduto, se Dio avesse acconsentito ad incontrarsi con lui: "Esporrei la mia causa dinanzi a Lui, riempirei d'argomenti la mia bocca. Saprei quel che mi risponderebbe, e capirei quel che avrebbe da dirmi. Contenderebbe Egli meco con la sua gran potenza? No! Invece, mi presterebbe attenzione, Là sarebbe un uomo retto a discutere con Lui, e sarei dal mio giudice assolto per sempre" (Giobbe 23: 4-7).     

 

   Apparentemente Giobbe si aspettava che Dio, dopo aver ascoltato le sue parole, avrebbe risposto più o meno così: "Giobbe ti ringrazio per avermi manifestato il tuo punto di vista su questa situazione. Francamente non avevo visto le cose così come tu me le stai mostrando adesso. Mi rendo conto di aver commesso un piccolo errore, ma sarà mia cura provvedere a risistemare tutto". E' una evidente sciocchezza, ma lo spirito esigente traveste il suo pensiero ridicolo a richiesta fervente. Nel capitolo 38 possiamo vedere come Dio risponde alle pretese di Giobbe e impariamo anche come probabilmente risponde alle nostre. "Allora l'Eterno rispose a Giobbe dal seno della tempesta" (Giobbe 38:1). Dio non risponde con una voce tranquillizzante per alleviare l'angoscia di Giobbe, né con un caldo invito per calmare il suo cuore tormentato e portarlo a pensare alla dimora celeste che si stava costruendo in cielo per lui.

 

   Quando un santo addolorato esprime la pena che c'è nella sua anima, il nostro Signore si rivela come il Sommo Sacerdote, come l'Avvocato diligente che ha compassione delle sue lotte. Ma quando questa stessa pena viene alterata dall'amaro spirito di pretesa, il suo lamento, allora, incontra lo sguardo duro di un chirurgo, pronto ad estirpare la malattia. La voce di Dio tuona sfidando Giobbe: "Orsù, cingiti i lombi come un prode; lo ti farò delle domande e tu insegnami! (Giobbe 38:3). Come si sarà sentito Giobbe quando l'Onnipotente e Signore Sovrano della creazione lo chiamò per sostenere le sue tesi che l'universo stava funzionando male? Il primo passo per imparare l'umiltà, forse, è sapere chi deve cambiare. Chiedere che le cose cambino, rappresenta un'accusa contro Dio.

 

   Prima domanda a Giobbe: "Dov'eri tu quand'Io fondavo la terra? Dillo se hai tanta intelligenza. Chi ne fissò le dimensioni? Giacché tu lo sai! (Giobbe 38:4-5).

"Oh, non ne sono sicuro. Posso pensarci un po' e tornare dopo?"

Dio continua: "Hai tu mai, in vita tua, comandato al mattino? O insegnato il suo luogo all’aurora? (Giobbe 38:12). Detto in altre parole: "Giobbe, dici tu al sole quando è ora di uscire, o ti limiti soltanto a regolare la sveglia per alzarti quando è mattino? Sei tu il Creatore, Colui che sostiene l'Universo e che ne è il Sovrano, o sei un semplice mortale?".

Altra domanda: "Dov'è la via che guida al soggiorno della luce? E la tenebra dov'è la sua dimora? Lo sai di sicuro! Ché tu eri, allora, già nato, e il numero de' tuoi giorni è grande!" (Giobbe 38:19-21). Parole sarcastiche, penetranti come il bisturi affilato che taglia in profondità, guidato dalla mano serena e ferma del chirurgo.

 

   Il primo esame finisce quando Dio lancia questa sfida:" Il censore dell'Onnipotente vuole ancora contendere con Lui? Colui che censura Iddio ha egli una risposta a tutto questo? (Giobbe40:2).

Le domande sono state formulate e con esse l'argomento su cui dibattere. Giobbe, che aveva pensato di riempirsi la bocca di ragionamenti, è umiliato. Le parole di Giobbe in risposta indicano una svolta verso l'umiltà, un progresso verso la salute, anche se non una cura definitiva. Ascoltiamo, adesso, un uomo che sta vivendo un processo di cambiamento:" Ecco, io son troppo meschino; che ti risponderei? lo mi metto la mano sulla bocca. Ho parlato una volta, ma non riprenderò la parola, due volte... ma non lo farò più"(Giobbe 40:4-5). Giobbe sta cambiando nel suo interiore, il suo spirito pretenzioso si è indebolito. E' il momento di assestargli il colpo mortale.

 

   Quando Dio opera in un'anima, non si accontenta di un mezzo intervento, ma invade le profondità più recondite del nostro cuore ingannevole per rivelare inesorabilmente ciò che deve essere cambiato. Lui ci accetta sulla base del Calvario e comprende la nostra afflizione, due cose che gli offrono il contesto per operare nel nostro cuore, ma la nostra cura incomincia quando viene portata alla luce in maniera drastica la nostra pretesa arrogante. Quando impariamo a riconoscere, a odiare e ad abbandonare la nostra attitudine esigente e cediamo al Signore i nostri desideri profondi, ripuliamo la parte interiore del piatto.

                                                                                                                                           

   Dio sottopone Giobbe ad un secondo esame. Se il primo si occupava più del confronto tra il potere di Dio e la debolezza di Giobbe, il secondo si concentra sull'aspetto della morale.

"Orsù, cingiti i lombi come un prode" (Giobbe 40:7). In altri termini : "Non ho ancora finito con te. Non ti ho dato ancora il permesso di ritirarti. Hai fallito completamente con il mio primo esame, non hai risposto, infatti, a nessuna delle mie domande. Vediamo adesso come te la cavi con questa seconda prova".

"Vuoi tu proprio annullare il mio giudizio? Condannare me per giustificare te stesso?" (Giobbe 40:8). La domanda vuole aprire una discussione sul tema seguente: Chi si trova nella posizione per determinare ciò che è buono e ciò che è cattivo? La sofferenza può essere intensa, ma la sua intensità non giustifica mai l'accettazione di strategie peccaminose volte a darci sollievo.

 

   Dio conclude il secondo esame con una strana sentenza: "Dio è re su tutte le belve più superbe" (Giobbe 41:26). I superbi pretendono, pensano di averne diritto. Ma Dio dice, senza mezzi termini, che nessuno, per quanta stima si possa avere di lui, è qualificato per dire a Dio ciò che deve fare. Questo ultimo punto mette a fuoco un principio vitale: il fondamento indispensabile per qualsiasi relazione con Dio è il riconoscimento che Dio è Dio e noi non lo siamo. Perciò, non abbiamo nessun diritto di pretendere alcunché da chicchessia, non importa con quanto fervore la nostra anima aneli il sollievo dal dolore. E' sbagliato pretendere interiormente che il fidanzato diventi cristiano, che il marito smetta di bere, che gli esami clinici siano negativi o che il figlio ribelle si rimetta sulla buona strada. Confidare in Dio significa non pretendere nulla.

 

   Giobbe ha capito il messaggio. Ascoltiamo le sue parole che denotano un cambio interiore: "Si, ne ho parlato; ma non lo capivo; san cose per me troppo meravigliose ed io non le conosco…Il mio orecchio aveva sentito parlar di te ma ora l'occhio mio t'ha veduto. Perciò mi ritratto, mi pento sulla polvere e sulla cenere" (Giobbe 42: 3, 5-6).

Giobbe si rende conto che per l'uomo pretendere qualcosa da Dio è pura follia, è grottesco. Il principio della maturità è una stima di se stessi tale da considerare

impensabile qualsiasi tipo di pretesa nei confronti di Dio. Questa stima di se stessi si sviluppa quando ci si ferma a considerare chi è Dio e chi siamo noi.

"Il timore dell'Eterno è il principio della sapienza" (Salmo 111:10). Temere Dio, anche quando le cose vanno male, è tanto importante, quanto difficile. Quando ci misuriamo con Dio, incominciamo a comprendere quanto sia assurdo e arrogante pretendere qualcosa, incluso il nostro desiderio fervente di sollievo per la nostra angoscia. Una cosa è la petizione mossa dall'urgenza e dall'ardore, il pianto causato dall'angoscia e la supplica per ottenere consolazione; un'altra è invece la pretesa che la volontà dell'Onnipotente sia una con la nostra.

 

 

           

 Come ottenere la vittoria affrontando la realtà interiore

 

   Consideriamo la situazione di una donna sposata con un uomo debole e indifferente. Lei è cosciente del risentimento cronico nei suoi confronti e del vuoto che corrode la sua anima. Quando lui desidera avere relazioni sessuali con sua moglie, lei non percepisce alcun desiderio che la invogli a cooperare. Gli sforzi per comunicare provocano un'ulteriore chiusura e allontanamento da parte del marito. Lei è disperata e non prova nessuna gioia nell'essere donna. I suoi sentimenti di depressione diventano sempre più evidenti e la distrazione non è sufficiente a vincerli. La situazione si complica ancora più a causa del corteggiamento discreto, ma pur sempre chiaro, da parte del socio del marito. Anche se come cristiana vuole vivere in accordo all'insegnamento delle Scritture, lei percepisce un certo timore per la crescente attrazione che sente nei confronti di quest'uomo.

Meditando sulla sua situazione, identifica tre categorie di problemi:

 

1. Problemi nel suo mondo

Un marito debole apre la lista. Se lui reagisse come un uomo e con amore e si prendesse cura della sua relazione affettiva, ciò potrebbe riaccendere il suo amore.

2. Dolore nel suo cuore

E' cosciente della sua ira, della sua frustrazione, del suo vuoto e del suo sentimento di colpa per l'amarezza che le causa il marito e per l'attrazione che sente nei confronti dell'altro uomo.

3. Peccato nella sua condotta

Lei sa che la sua freddezza nei confronti del marito non sta aiutando la situazione e lotta contro la tentazione di iniziare una relazione illecita con qualcuno che trova più desiderabile del marito.

 

   Dopo aver ponderato la situazione, va dal suo pastore e gli chiede di parlare col marito. Si accordano per pregare Dio, affinché convinca il marito della sua responsabilità di amarla intensamente. Decide anche di andare da uno psicologo cristiano per lavorare sulle sue emozioni interiori che minacciano di distruggerla. Spera, in questo modo, di trovare sollievo al dolore del suo cuore. Attraverso dialoghi col suo pastore e col suo consigliere cerca il modo migliore per affrontare e convivere col marito. Vuole ubbidire al comandamento biblico che le chiede sottomissione al marito, ma non sa cosa ciò implichi in certe occasioni. Mentre pensa alle sue responsabilità, decide di passare più tempo nella lettura della Bibbia e nelle attività della chiesa per fortificarsi contro il peccato del suo comportamento. I mesi passano e incomincia a comprendere meglio le sue lotte. L'intensità della sua ira, le spiega lo psicologo, riflette la rabbia nata nel passato a causa di un padre debole e passivo come suo marito.

 

   Si sente meno confusa riguardo alle sue reazioni interiori, ma continua a soffrire. Decide di non cedere alla amarezza e al malumore controproducenti e così si trova un lavoro part-time, inizia a frequentare un circolo tennistico e si offre come volontaria per assistere i bambini della chiesa. Malgrado gli interventi del pastore e dello psicologo, il marito non modifica la sua condotta. Lei fa tutto il possibile per mostrarsi carina nei suoi confronti e cooperare con i suoi desideri. Ciò non fa altro che rafforzare nel marito la convinzione che tutto è rientrato nella normalità. Anche se questo fatto la rende furiosa, si sforza per controllarsi e confidare nel Signore. Continua così, a comportarsi in maniera amorevole col marito, ma a sentire anche attrazione per il suo collega.

 

   Ma cosa dovrà fare questa donna per trovare un giusto equilibrio e la serenità, frutto di un autentico cambiamento interiore? I problemi in questo modo continueranno fino al giorno della nostra morte. Il nostro Signore ci ha detto chiaramente che "nel mondo avremo tribolazione" (Giovanni 16:33) e Giacomo ci istruisce a "considerare come argomento di completa allegrezza le prove svariate in cui veniamo a trovare" (Giacomo 1:2). I problemi in questo mondo non sono per forza la causa di una vita sfortunata e disordinata, non definiscono in modo assoluto la sporcizia presente nel cuore della persona che soffre. Il dolore può essere molto reale e opprimente, ma Pietro, dirigendosi ad un gruppo di cristiani perseguitati, non li rimprovera per la loro sofferenza. AI contrario presenta loro la speranza di "un'allegrezza ineffabile e gloriosa" (1 Pietro 1:8), basata sulla salvezza delle loro anime. Abbiamo la tendenza di fare del sollievo alla nostra sofferenza, un obiettivo. La sofferenza, però, non è la sporcizia presente nel nostro cuore, ma è soltanto una fonte di malessere, di cui si duole anche il nostro Signore.

 

   L'immondizia interiore che richiede un intervento di rimozione, non è l'angoscia della frustrazione che sperimentiamo come vittime, ma il sudiciume del peccato e della ribellione a cui offriamo le nostre membra. Il cambio profondo richiede che correggiamo i problemi che emergono dalla nostra responsabilità nel fare le scelte (di comportamento) e non quelli che sono prodotti dalla nostra vulnerabilità alla frustrazione. Il peccato nella nostra condotta è chiaramente un problema che dobbiamo affrontare. All'uomo immorale della chiesa di Corinto venne fatto pagare un alto prezzo per il suo flagrante peccato.

Le intenzioni di Paolo, però, nel dare istruzioni alla chiesa su questo caso, non tendevano soltanto a porre fine ad un'azione indegna per un cristiano, ma alla "perdizione della carne" (1 Corinzi 5:5).

 

   I peccati nella condotta sono certamente un problema, ma sono sintomi di un problema più profondo. Il Signore a questo riguardo disse: "Ascoltate e intendete Non è quel che entra nella bocca che contamina l'uomo; ma quel che esce dalla bocca, ecco quel che contamina l'uomo" (Matteo 15:10-11). Pietro, non intendendo il vero senso della parabola, chiese spiegazioni. E Gesù a lui: "Siete anche voi tuttora privi d'intendimento? Non capite voi che tutto quel che entra nella bocca va nel ventre ed è gittato fuori nella latrina? Ma quel che esce dalla bocca viene dal cuore, ed è quello che contamina l'uomo. Poiché dal cuore vengono pensieri malvagi, omicidi, adulteri, fornicazioni, furti, false testimonianze, diffamazioni. Queste son le cose che contaminano l'uomo" (Matteo 15:15.20).

 

   E' nel nostro cuore che dobbiamo guardare per scoprire la contaminazione che ha bisogno di pulizia. Non dobbiamo mettere da parte la serietà dei problemi del nostro cuore, confermando a voce che è evidente che il nostro cuore deve essere come Dio lo desidera. Questo atteggiamento rappresenta si un impegno cosciente e sincero di seguire il Signore, ma si richiede molto di più di questo. Siccome il nostro cuore è ingannevole, non scopriamo facilmente il nostro peccato di fondo; quello che deve essere affrontato con il pentimento. La maggior parte dei nostri sforzi per cambiare il più delle volte rimangono in superficie e non centrano il problema. C'è una ragione semplice per la quale il peccato presente nel cuore, quell'attitudine di autoprotezione che si manifesta in tanti modi nelle nostre relazioni, raramente viene riconosciuto come profondo e serio. Non riusciamo a scoprire il nostro atteggiamento di autoprotezione, finché non ci rendiamo conto che ci stiamo proteggendo.

 

   Fintanto che non affrontiamo la nostra frustrazione come vittime, non possiamo identificare con chiarezza le strategie che abbiamo adottato per isolarci e proteggerci da una maggior frustrazione. Solo il riconoscimento della nostra frustrazione profonda (pena nel nostro cuore) può renderci capaci di riconoscere che i nostri desideri di soddisfazione si sono trasformati in pretese di consolazione (peccato nel nostro cuore). Anche se possiamo definire il problema dell'autoprotezione, non riusciremo ad identificarlo nella nostra vita finché rimaniamo in contatto con il danno causato alla nostra anima dalla peccaminosità degli altri, danno doloroso che è la fonte prima del nostro atteggiamento di autoprotezione.

 

   Pochi desiderano ammettere profondamente la loro frustrazione e ancora meno sono quelli che, dopo aver affrontato la frustrazione ed essersi sentiti tormentati dall'angoscia e dal dolore, desiderino dire con fermezza: " Non è la mia angoscia il problema, ma la mia determinazione per alleviarla in qualsiasi modo". Vedere il nostro problema come autoprotezione nel momento in cui il dolore si fa più acuto, non è facile. Deve, però, essere visto così. Quando la nostra priorità è il sollievo dal dolore, allora abbiamo abbandonato la via che ci conduce a Dio.

 

   L'esperienza del dolore ha il potere, o di rafforzare la nostra condotta autoprotettrice, o di portarci ad una più profonda fiducia in Dio. Ci rende capaci di vedere con chiarezza se il nostro modo di relazionarci con gli altri tende ad affermare la nostra sicurezza, piuttosto che ad amare liberamente. L'autoprotezione e l'amore sono in opposizione tra di loro. L'amore è una virtù, la virtù essenziale nella vita, l'autoprotezione è un problema.

La donna, il cui marito è debole, non deve soltanto pregare per i problemi del suo mondo, cercare di capire il dolore presente nel suo cuore e sforzarsi per resistere alta sua condotta peccaminosa, ma deve affrontare il dolore nella sua anima finché la sua ira si vedrà schiacciata da un dolore disperato. Allora deve esaminare la sua vita per vedere gli schemi di autoprotezione che si sono instaurati in lei. Quando sì sarà convinta del suo fallimento nell'amare, dovrà pentirsi e produrre frutti di pentimento. " pentimento è la chiave di tutto.

 

 

 

L'importanza di entrare nella frustrazione

 

   Prima di vedere la nostra peccaminosità, come agenti autoprottettori, dobbiamo percepire la nostra frustrazione come vittime vulnerabili.

Un membro di un gruppo terapeutico volle condividere la sua gioia che gli veniva prodotta dalla percezione di una maggior compassione nei confronti degli altri. Quando qualcuno interrompeva il suo lavoro, adesso, si sentiva felice per l'opportunità di avere delle relazioni, mentre prima si sarebbe offeso. Confessò, però, di non sentire la capacità di approfondire i suoi rapporti con la gente. Lo incoraggiammo a raccontare situazioni relative alla sua infanzia, centrandosi sui momenti di frustrazione e sul suo modo di affrontarli. Mentre parlava di sua madre, dominante e superprotettiva, e di suo padre, debole e passivo di fronte all'atteggiamento predominante della moglie, non si poteva scorgere in lui alcun tipo di sentimento.

 

   Il tema, allora, si centrò sulla sua avversione ad entrare profondamente nell'esperienza della sua frustrazione. Ci rispose sostenendo che, pur sapendo quanto i suoi genitori avevano sbagliato nei suoi confronti, non valeva la pena di farsi consumare dal dolore. "Non mi centrerò sul mio dolore e sul male che mi hanno fatto", disse, "a me interessa di più sapere cosa fare per andare avanti. Ciò che è passato, è passato. Adesso voglio imparare a relazionarmi con la gente in maniera fruttuosa". Il problema, però, che bloccava lo sviluppo delle sue relazioni, non era la mancanza di conoscenza, di capacità o di volontà, ma il suo atteggiamento di autoprotezione per non tornare a sperimentare il dolore della sua infanzia. Aveva imparato, come fosse un dovere, ad ubbidire alla mamma e non aveva il coraggio di aprirle il suo cuore, per paura di venir ancora più annullato dal suo spirito tirannico.

 

   Ubbidienza di fatto, con occasionali scoppi di collera, questa era la sua strategia per preservare una parvenza di identità propria. Con questa comprensione di se stesso e con la presa di coscienza dolorosa di come anelò allora e come anelava adesso qualcuno che lo amasse con rispetto, era nella posizione di osservare la sua vita con maggior attenzione e di vedere come fuggire da una possibilità di frustrazione simile nelle sue relazioni attuali. Il primo atto per cambiare il suo attuale stile di relazionarsi con gli altri era quello di aprirsi per sentire il dolore del suo passato. Solo così poteva rendersi conto di quanto fosse risoluto a non voler mai più sperimentare quel tipo di sofferenza. Solo così poteva evidenziare le strategie di autoprotezione impiegate nelle sue relazioni attuali. Il suo modo di fare, convenzionale, a volte aggressivo, ma mai affettuoso, lo si poteva riconoscere come un mezzo per mantenersi a prudente distanza.

 

   Più profondamente entriamo nella frustrazione e più chiaramente potremo affrontare il nostro peccato. Se non percepiamo il dolore per il danno subito, avremo la tendenza a limitare la definizione del nostro problema concentrandoci solo sul nostro peccato visibile comportamentale. Sentire la frustrazione ha un altro vantaggio: ci libera per poter apprezzare legittimamente i nostri genitori, coniugi, figli e amici per tutto l'amore che ci hanno elargito e per le virtù di cui dispongono.

La mancanza d'amore è sempre centrale nei nostri problemi. Quando qualcuno apprezza i suoi genitori solo perché rinuncia a vedere il dolore che gli hanno causato, il suo apprezzamento, oltre ad essere superficiale, è una forma di autoprotezione. L'amore non è mai cieco nei confronti degli errori altrui. Li vede chiaramente, ma non si sente minacciato. Ammette la frustrazione, ma perdona e continua ad alimentare con calore la relazione. Se c'è una preoccupazione tenera per il benessere di qualcuno che non ci tratta bene, questo è l'amore.

 

   Quando guardiamo con chiarezza gli errori degli altri nei nostri confronti, ci liberiamo della nostra richiesta che ci amino bene. La valutazione ossessivamente alta dell'amore dei nostri genitori, molte volte riflette la nostra necessità di essere amati, più che l'apprezzamento reale per la loro dedicazione. Non chiedere nulla ai nostri genitori ci permette di apprezzare ciò che loro ci danno. Non possiamo esigere dai nostri genitori, né da nessun altro, ciò che non sono in grado di poter dare. Il risentimento verso i nostri genitori (coniugi, figli, amici) sorge da una dipendenza esigente che richiede da loro la nostra soddisfazione. C'è una differenza tra lo sguardo adirato e pieno di lamentela verso chi ha commesso un errore nei nostri confronti e il riconoscimento onesto della frustrazione che il suo comportamento ha provocato in noi. Quest'ultimo atteggiamento dissipa il risentimento, quello precedente lo fortifica.

 

 

   Questa libera traduzione è una sintesi del libro di Larry Crabb "Inside out".