CRISI, CAMBI E CONFLITTI

 

 

 Grado di impatto sulle persone di avvenimenti ricorrenti nella vita

 

- Morte del coniuge (100)                

- Divorzio (73)                                                          

- Separazione matrimoniale (65)                                                                

- Incarceramento (63)                                                                                 

- Morte di un familiare di primo grado (63)                                                                             

- Malattia o ferite personali (53)                                                                                                   

- Matrimonio (50)                                                                 

- Licenziamento dal lavoro (47)

- Riconciliazione matrimoniale (45)

- Pensionamento (45)

- Problemi di salute in un membro della famiglia (44)

- Gravidanza (40)

- Difficoltà sessuali (39)

- Arrivo di un nuovo membro nella famiglia (39)

- Reintegrazione nel mondo del lavoro (39)

- Cambio di condizione finanziaria (38)

- Morte di un amico intimo (37)

- Cambio di lavoro (36)

- Cambio nel numero di discussione con il coniuge (35)

- Mutui superiori a Euro 50.000,00 (31)

- Sentenza per mutui o prestiti (30)

- Cambio di responsabilità sul lavoro (29)

- Uscita di casa di un figlio/a (29)

- Problemi con i suoceri (29)

- Successi personali pubblici (28)

- La moglie inizia o lascia un lavoro (26)

- Inizio o fine della scuola (26)

- Cambio di condizioni di vita (25)

- Revisione di abitudini personali (24)

- Problemi con il datore di lavoro o principale (23)

- Cambio di orario o condizioni di lavoro (20)

- Cambio di residenza (20)

- Cambio di scuola (20)

- Cambi ricreativi (19)

- Cambi nell’attività della Chiesa (19)

- Cambi in attività sociali (18)

- Mutui o prestiti inferiori a Euro 50.000,00 (17)

- Cambi nelle abitudini di dormire (16)

- Cambi nel numero di riunioni familiari (15)

- Cambi in abitudini alimentari (15)

- Vacanze (13)

- Feste natalizie (12)

- Violazioni da parte di minori della legge (11)

 

 

 

La fase dell’impatto

 

In qualsiasi avvenimento sono 4 le fasi che si accompagnano a cambi significativi nella vita: Impatto, Astrazione-Confusione, Adattamento, Ricostruzione-Riconciliazione.

La fase dell’impatto generalmente è molto breve. Non richiede molto tempo scoprire che siamo stati scossi da un qualcosa di grandi proporzioni. E’ anche breve il lasso di tempo che trascorre prima che i meccanismi di adattamento della mente incomincino ad agire. A volte ciò avviene automaticamente.

La fase dell’impatto, quindi, è la parte del problema in cui ci rendiamo conto della crisi e veniamo investiti dal suo effetto prorompente. In generale questo periodo oscilla tra poche ore e qualche giorno.

 

In questa fase delle crisi e dei cambi le persone prendono importantissime decisioni. E’ ciò che gli psicologi chiamano “la decisione di lotta o di fuga”. E’ la risposta alla domanda: “Affronto senza vacillare questa situazione o corro a nascondermi ignorando il problema?”

Le nostre tendenze acquisite di comportamento ci portano, quasi inconsciamente, a scegliere l’una o l’altra delle due possibilità.

Molte persone affrontano malattie terminali ignorandole e così accorciano di molti anni la loro vita. Il timore per ciò di cui potrebbe essere affetto le tiene lontane dal medico. La decisione di voler affrontare il problema è la risposta che ci preserva dal distorcere la realtà e ci stimola a mettere in azione le migliori risorse di cui disponiamo, scoprendo a volte attitudini e resistenze che ignoravamo avere.

L’atteggiamento di “fuga” sembra prolungare la sequenza della crisi. Ogni successiva fase dipende dall’adattamento conseguito nella precedente. Se evitiamo la realtà, non potremo ottenere un buon adattamento e così prolunghiamo gli aspetti dolorosi di un gran cambio nella vita. In questi momenti difficili è utile la presenza di un amico per evitare esattamente questa fuga dalla realtà.

 

Durante la fase dell’impatto di una grande crisi nella nostra vita i processi intellettuali hanno un’attività diminuita. In noi regna il torpore e il disorientamento e si pensa in forma semplicistica, stereotipata, avendo una scarsa percezione della realtà. Si possono fare cose che si sanno essere sbagliate.

In questa fase non dobbiamo spingere le persone a cercare soluzioni valide al loro problema.

Un tale, sotto l’entusiasmo e il disorientamento per una proposta di lavoro molto vantaggiosa all’altro capo del paese, vendette la sua casa ad un prezzo molto inferiore al suo valore reale. Gli furono necessari due anni per ricuperarsi economicamente.

 

In questa fase dell’impatto si nota la tendenza delle persone a cercare l’oggetto perso. Quando, infatti, perdiamo qualcosa che era importante per la nostra vita, manteniamo per qualche tempo l’attaccamento emozionale a quell’oggetto e ne cerchiamo uno similare, specialmente se non abbiamo una chiara coscienza di ciò che sta capitando. Questa ricerca non deve essere repressa o negata, a meno che non duri troppo a lungo.

Una donna perse il marito che amava profondamente e da cui dipendeva in gran parte. Si sentiva come invalida. Nella sua piena afflizione trovò un uomo e se lo sposò. Ma per grande sorpresa di questo nuovo marito la donna si rifiutò di eliminare tutte le cose che erano appartenute al precedente consorte. Quest’uomo non accettò di essere un sostituto del primo marito e il matrimonio non durò a lungo.

 

Il servizio più importante che possiamo offrire a qualcuno nella fase dell’impatto della crisi o del cambio è la semplice accettazione dei suoi sentimenti. Respingerli non fa altro che complicare le cose.

La persona tende a sotterrare profondamente i sentimenti, quando questi diventano più difficili da accettare e da superare. Non è necessario che in questo momento tutti i sentimenti siano razionalmente ortodossi.

Un uomo, nel giro di breve tempo, portò al cimitero il padre e un fratello. Erano molto uniti tra loro e soci in affari. Nel nome della forza cristiana, però, non sparse una sola lacrima e continuò la sua vita come se non fosse successo nulla di tanto importante. Ora è conosciuto come un uomo malinconico, che raramente cerca la compagnia di altre persone e che non sorride mai.

Mettendo un freno ai suoi sentimenti non ha fatto altro che prolungare la sua tristezza.

 

In questa fase dell’impatto i sentimenti possono essere a volte ambivalenti.

Una signora molto anziana perse il marito, che negli ultimi anni era diventato insopportabile con le sue continue lamentele. La moglie ne sentiva la mancanza da una parte, ma dall’altra era contenta di essersene liberata. Raccontò questi suoi sentimenti ad una sorella in Cristo, che la riprese aspramente. Questa vedova si riempì di sensi di colpa, finché il suo pastore la tranquillizzò dicendole che anche il Signore ebbe sentimenti ambivalenti (Luca 22:42 // Matteo 27:46 e Luca 23:46).

 

A volte neghiamo i sentimenti degli altri, perché in questo modo proteggiamo la nostra incapacità di liberarci dalle nostre stesse emozioni.

Un marito, durante una consulenza matrimoniale, dice alla moglie di non lasciarsi andare al pianto, perché prova vergogna nell’emozionarsi davanti ai sentimenti espressi della moglie, sentimenti che molte volte sono il risultato della sua incomprensione e insensibilità.

Dato che i sentimenti sono nascosti molto superficialmente, a fior di pelle della nostra coscienza, è possibile che non ne notiamo la presenza, almeno per qualche tempo. Quando, poi, salgono alla superficie, sia in noi stessi che in altri, il nostro primo impulso è di negarne l’esistenza e l’espressione.

Quando altri esprimono sentimenti che ci disturbano, è segnale che queste emozioni devono essere liberate in noi o venir identificate come nostre. Non negando o rifiutando i sentimenti altrui, e anche i nostri, aumentiamo le possibilità di superare i cambi e le crisi della nostra vita.

 

 

 

La fase dell’astrazione-confusione

 

Se il periodo del’impatto è breve, quello dell’astrazione-confusione può durare giorni e anche settimane.

Un nonno perse il nipotino di 4 anni. Durante il funerale e i giorni immediatamente successivi, a causa del suo impegno nel curare i bambini, nell’organizzare i servizi religiosi e nel rispondere a lettere e telegrammi di condoglianze, provò una certa gioia perché, dopo anni, si sentiva nuovamente utile.

Ma poi rientrò nella sua routine, incominciò a sentire in un modo tremendo la mancanza del nipotino e oltre a ciò si caricò di sensi di colpa per essersi sentito così soddisfatto nei giorni successivi alla sua morte.

Quando comprese che questa ambivalenza era in fondo normale, si svegliò in lui una profonda ostilità verso il giovane che aveva provocato l’incidente fatale e verso Dio per non averlo evitato.

Poi si sentì nuovamente colpevole per i suoi sentimenti di ostilità nei confronti di Dio, perché un cristiano, se è tale, deve amare il suo Creatore e non odiarlo. Gli venne in seguito spiegato che la rabbia e l’ostilità non sono sentimenti strani in una crisi che porti un profondo cambiamento nella vita di una persona.

 

Anche qui c’è la tentazione di sopprimere questi sentimenti o di negare che mai siano esistiti, ma non dobbiamo metterci maschera alcuna e rivolgerci a Dio per il perdono delle nostre mancanze. Dio ci conosce meglio di quanto ci conosciamo noi stessi e quindi non è il caso di nascondere nulla. Dobbiamo esprimere i nostri sentimenti in questa fase (Dio non si lascia travolgere dai nostri sentimenti, ma rimane sul suo trono, pronto ad aiutarci e a perdonarci) e ciò implica la necessità di contare sull’aiuto di amici intimi.

Anche in questa fase non si può esigere alla vittima una grande perspicacia spirituale. La rabbia, la depressione e la ricerca di un compromesso (se mi guarisci, farò…) stravolgono la mente e la vita di preghiera.

Questo è il momento per dipendere dal fondamento creato negli anni precedenti. Coloro che non hanno avuto un solido addestramento spirituale non sapranno che cosa fare in queste circostanze. Chi non ha una buona ragione spirituale per l’esistenza o non conosce la grazia di Dio per i momenti bui, cadrà nella disperazione.

 

Se vogliamo aiutare una persona nella fase discendente di una crisi, dobbiamo orientarla verso compiti specifici. Dobbiamo aiutarla ad organizzare i suoi giorni, assisterla nel prepararsi agli impegni presi, vedere che mantenga la sua casa in ordine, che rispetti gli orari dei pasti.

Generalmente le persone che si trovano in una crisi sperimentano una certa paralisi della volontà e un grande sconforto. I compiti giornalieri e rutinari aprono la strada alla piena restaurazione di una vita produttiva e costituiscono anche una barriera contro l’autocommiserazione.

L’inattività e l’autocompassione spesso si combinano per impedire la ricostruzione. L’attività e dei compiti specifici coadiuvano il processo di distacco dagli oggetti persi. Sia che si tratti di persone care o impiego, luogo di residenza, rango sociale, bisogna che la persona si distacchi da ogni senso di proprietà o di diritto sulle cose avute.

La vedova non può continuare a vivere con il marito morto, l’impiegato non può più sedersi alla scrivania di quell’ufficio da cui è stato licenziato o si è licenziato per vari motivi, e nessuno dei due può spendere quel denaro che adesso non ha più in quella misura.

 

 

 

La fase dell’adattamento

 

Un tale perse la moglie in un incidente automobilistico, di cui era in parte responsabile. Non riusciva a perdonarselo. Viveva schiacciato da questo sentimento e smise di nutrirsi come doveva.

Il dolore unito al senso di colpa e all’indebolimento fisico lo confinarono su una sedia a rotelle. Il suo auto castigo aveva raggiunto il suo scopo.

Trascinato in Chiesa da un amico, si rese conto che non gli restava altro da fare che accettare il perdono di Dio e il processo di guarigione.

Per sperimentare la restaurazione di Cristo dovette passare per un periodo di adattamento, scoprire cioè in un modo inequivocabile che non poteva né castigarsi o salvarsi da solo, ma che doveva compiere un atto di fede e riportare tutta la sua fiducia nella mano guaritrice del Salvatore.

Il peso della colpa o del fallimento ci può schiacciare, se non abbiamo qualcuno con cui condividerlo. Se razionalizziamo la nostra colpa e ammettiamo che è umano sbagliare e accettiamo un aiuto esterno (Gesù in questo caso), troviamo la soluzione alla crisi.

 

In questa fase incominciano gli atteggiamenti positivi, anche se rimane ancora qualche traccia di depressione. Ritorna la speranza che la vita ci sorrida di nuovo E’ quasi completato il processo di distacco dagli oggetti persi e se ne cercano dei nuovi. Può darsi che questi ultimi abbiamo un valore reale inferiore a quelli precedenti, ma i valori emozionali e psicologici sono indiscutibilmente maggiori.

Non dovremo dire mai ad una persona, che sta passando per la fase dell’adattamento, che il suo stato attuale è peggiore di quello precedente. Ostacoleremmo soltanto il suo processo di ricostruzione. Ciò che conta è la valutazione soggettiva e psicologica.

 

La persona che si riapre alla speranza è pronta adesso per intendere la vita in un modo nuovo e differente.

Un noto predicatore venne colpito da una strana malattia che lo rendeva invalido. I medici erano impotenti. Il pastore si chiedeva: “Perché Signore? Perché proprio a me?” Pensava che aveva ancora molto da fare. Poi, si abbandonò totalmente nelle mani del Signore, accettando tutto quello che avrebbe potuto succedergli. Percepì una grande pace.

Quasi nello stesso giorno il suo medico lesse un articolo che trattava del suo caso e trovò così la terapia giusta. Grande fu la gioia di quel predicatore nel poter tornare al suo ministero. Ricordando quel periodo diceva: “Non darei un centesimo per quello che ho passato, ma quello che ho imparato vale ben un milione”.

 

 

 

La fase della ricostruzione-riconciliazione

 

La risposta chiave della persona che sta uscendo da una crisi è la spontanea espressione di speranza. Non spera che la sua vita migliorerà, ma è ripiena di una vera speranza che la porta a fare dei piani per il suo futuro.

Se ha creduto in valide promesse teologiche, la sua speranza è sicura e la sua crisi viene abbreviata. La speranza è l’opposto dell’autocommiserazione. Entrambe sono affermazioni di fede. L’uomo che alberga la speranza crede in qualcosa di positivo, mentre chi si autoconsola ha il dubbio nel suo cuore. Quest’ultimo, nel periodo in cui soffre, utilizza la sua autocompassione per attirare l’attenzione su di sé, rafforzando così la sua tendenza all’autocommiserazione.

 

Le persone escono più rapidamente dai loro problemi emozionali quando decidono in modo deliberato di smettere di autocommiserarsi. La persona che si sta ricuperando emozionalmente vede con tutta chiarezza che deve scegliere tra la speranza e la commiserazione e si rende anche conto che questa sua scelta traduce fedelmente ciò che crede nel suo cuore. Così partecipa attivamente alla sua ricostruzione, prendendo l’iniziativa per progredire e rifiutando coloro che gli esprimono compassione.

Se il processo di ricostruzione è avviato, la persona cercherà altri affetti e legami per rimpiazzare chi ha perduto, o un nuovo impiego, o una nuova casa. Si scavano nuove cisterne spirituali per saziare la sete dell’anima assetata (2 Corinzi 5:17).

 

Insieme alla ricostruzione diventa imprescindibile la riconciliazione. In questi momenti di crisi e di cambio spesso feriamo le persone che ci circondano. Facciamo allora qualche gesto (invito a cena, un favore…) per dimostrare che desideriamo la riconciliazione e vogliamo ristabilire le relazioni.

Nessuno passa da solo attraverso un problema, ma coinvolge sempre quelli che lo circondano. Senza volerlo, mentre si dibatte nel suo problema, rende anche altri vittime della sua situazione. Non ha normalmente l’intenzione di farlo, però sotto la tensione le nostre relazioni umane diventano repellenti.

Siamo così occupati nell’agire difensivamente per il nostro beneficio da non vedere i danni che provochiamo intorno a noi. Da ciò la necessità imperiosa della riconciliazione. Possiamo credere di aver vissuto secondo i dettami della nostra coscienza, ma intorno a noi c’è gente ferita per causa nostra. Dobbiamo, allora, riparare i danni prodotti.

 

 

 

 

COME AFFRONTARE IL TIMORE

 

Esteriormente il timore sembrerebbe una semplice reazione. Qualcosa ci minaccia e rispondiamo emozionalmente, cioè dimostriamo paura. E’ in gioco la nostra sicurezza, sia fisica che psicologica, e pertanto ci assale il timore.

Il timore è comune a tutti gli abitanti della terra. I timori più diffusi tra i bambini sono indirizzati ai cani, al buio e al medico. La maggior parte dei bambini ha sofferto dolorose esperienze fisiche o emozionali con questi tre fattori e il risultato di ciò è il timore. A volte il semplice fatto di nominarli fa venir loro le lacrime agli occhi.

 

Il timore è qualcosa di normale e dovrebbe venir altamente valorizzato. Il timore ci protegge dal pericolo e ci immobilizza quando il pericolo ci minaccia. Il nostro cuore batte più velocemente, aumenta il tasso di adrenalina nel sangue e siamo capaci di svolgere attività che richiederebbero una dose inusuale di forza e di acutezza mentale.

Se, però, il timore diventa il tema dominante della vita, ci consuma e ci porta ad un precoce collasso fisico e anche alla morte. Ciò che deve preoccuparci è il timore anormale, inutile.

 

Un timore persistente e che si incorpora nella personalità di un individuo presenta due caratteristiche basilari. In primo luogo produce sensazioni fisiche, per es. una sensazione strana alla bocca dello stomaco. In secondo luogo è parte di una percezione e di una credenza stabilita sull’oggetto che provoca il timore.

La persona deve credere, coscientemente o no, che esiste un vero pericolo associato con l’oggetto del timore. Suggerire che tale timore è infondato o che si tratta soltanto di una peculiarità mentale, poco aiuta. Non controlliamo le nostre emozioni abbastanza per eliminare dalla nostra mente tali timori con una certa rapidità.

 

Se il timore è una reazione specifica ad uno stimolo specifico, l’ansia è un timore generalizzato per il benessere psicologico nella sua totalità.

L’ansia si manifesta in presenza o meno degli oggetti che scatenano il timore.

Il timore è strettamente legato al senso di colpa. Nella nostra cultura, infatti, chi è assalito da paure viene paragonato ad una donnicciola.

Anche l’odio si può ricollegare con il timore. Un uomo può odiare intensamente il suo padrone, perché lo teme in un modo che non può controllare.

 

 

 

Aspetti del timore

 

1) Il timore incomincia come una reazione verso oggetti o avvenimenti specifici

Più avanti si trasformerà in un sentimento generalizzato, separato dal suo stimolo originale. Un bambino che ha fatto una cattiva esperienza con un cane, avrà la tendenza a temere tutti gli animali, se il suo primo timore non è mitigato.

Il bambino che ha un padre ostile e dominante, temerà ogni persona investita di autorità e non riuscirà a dar loro fiducia. Ciò può creare seri problemi sul lavoro e nella vita matrimoniale.

 

2) Il timore legato ad oggetti o ad avvenimenti specifici diventerà uno stile di vita, se non verrà soppresso precocemente  

C’è chi sviluppa una notevole dose di coraggio come compensazione d un gran timore (agli insetti, ai rettili…)

 

3) Il timore si trasferisce da esperienze coscienti ad esperienze inconsce

Se il timore rappresenta una minaccia, lo nascondiamo nell’inconscio. E’ possibile, quindi, che una persona molto timorosa non soffra sensazione alcuna di uno specifico e terrificante timore, dato che la sensazione è stata negata ed esiste soltanto al di sotto del livello cosciente dell’esperienza.

Il timore si manifesterà simbolicamente, La persona timorosa, cioè, può diventare estremamente oltraggiosa, o brontolona, o molto rigida nelle sue forme religiose e nella sua morale. E’ un modo per ottenere il controllo sulla vita ed evitare che questa ci provochi dei timori. I timorosi hanno bisogno di esercitare il loro controllo sugli altri, sia per mezzo del denaro, o delle restrizioni sociali, o di espressioni di disapprovazione, ecc.

 

4) Il timore può trasferirsi da reazioni specifiche a sistemi di opinione.

Un timore non dominato può diventare una forza emozionale importante nello sviluppo di credenze e opinioni politiche o teologiche.

Gli estremisti devono a un forte e nascosto timore la causa della loro necessità di controllare e manipolare la gente. Costruiscono, anche teologicamente, rigidi sistemi per proteggere se stessi e, a volte, per imporsi agli altri.

 

 

 

Come ridurre la percezione del timore

 

Il primo ricorso tecnico è cambiare l’approccio con l’oggetto che produce la paura. Quasi tutti noi diamo per scontato che la persona o l’oggetto che causa il timore ha nei nostri confronti una posizione aggressiva.

Il bambino che si imbatte in un cagnolino che abbaia molto forte, suppone che questi si stia dirigendo verso di lui con l’intenzione di attaccarlo. In generale, però, non è così. Il cane non fa altro che proteggere se stesso e il suo territorio e con il suo abbaiare proclama di aver paura di chi si sta avvicinando. Il bimbo può mettersi a piangere per lo spavento, ma il cane lo interpreterà come un’ulteriore minaccia.

Se impariamo a rispondere in un modo percepito come non aggressivo dall’oggetto che produce il timore, la tensione si riduce. L’aggressività è sintomo che ci sentiamo attaccati. Se noi cambiamo questa percezione, sfumerà anche il timore che la stessa produce.

Quindi, la maggior parte delle persone che ci provocano timore agendo in forma aggressiva nei nostri confronti, in realtà rispondono ad un certo timore che essi stessi albergano e che le spinge all’aggressività. Se siamo capaci di agire in modo da ridurre il loro timore, cesserà anche la loro tendenza aggressiva e anche noi perderemo gran parte dei nostri timori.

 

Un secondo modo per ridurre il timore è accrescendo la percezione di noi stessi in riferimento al timore stesso. Per es. il rapporto tra un bambino e un cane e quello tra un adulto e lo stesso animale.

Differenze importanti di ordine culturale, sociale, etnico, ecc. possono provocare timore. Il timore non è provocato da una differenza oggettiva tra le persone, ma dalla differenza che si percepisce.

Per es. la figlia di un contadino e il figlio di un medico erano innamorati, ma l’idea del matrimonio spaventava la ragazza. Non si sentiva adatta per incorporarsi in una famiglia di tale livello. Cercò, allora, di comportarsi come pensava avrebbe fatto la figlia di un medico, ma provocò soltanto ilarità. Tentò, poi, di portare il fidanzato al suo livello, criticando il suo modo di vestire e i suoi atteggiamenti, ma la famiglia reagì violentemente. Lui pensò anche di farsi contadino, ma era evidente la sua frustrazione nel dover lasciare gli studi. Alla fine si lasciarono.

A volte le differenze a livello psicologico, che provocano i timori, come il caso precedente, possono ridursi acquisendo una determinata capacità o abilità.

 

Un terzo modo per ridurre il timore è familiarizzarci, in un ambito e terreno di sicurezza, con le cose che temiamo.

Si ottiene poco aiutando un bambino ad arrampicarsi su un albero e lasciandolo poi lassù perché se la cavi da solo nel ridiscendere. Simili atti rinforzano i timori.

La familiarità con gli oggetti che ci provocano timore è un valido aiuto nella lotta contro il timore stesso, sempre che venga provvista la certezza di sfuggirne. E anche quando la familiarità con gli oggetti che producono timore, causa lo stesso un certo timore, questo rimarrà pur sempre un metodo beneficioso.

E’ meglio affrontare la verità rispetto all’oggetto temuto, che soffrire timori per ciò che uno si immagina su detto oggetto.

 

Un quarto metodo per superare il timore si riferisce alle occasioni in cui dobbiamo affrontare timori che sono più grandi di noi. In questi casi abbiamo bisogno di aiuto e qualcuno deve prendersi carico della situazione.

Quando un certo timore ci paralizza, è importante avere qualcuno vicino che ci presti il suo aiuto. Vale soprattutto per i bambini quando imparano a camminare e si mettono in situazioni imbarazzanti. E’ importante non riprendere il bambino perché si è cacciato in queste situazioni, in quanto lui non se ne rende conto, ma basta dargli dei sani consigli. In caso contrario impara a sentirsi colpevole, inferiore e timoroso di fronte alla vita.

Un bambino che strilla sotto gli effetti di un timore deve essere soccorso immediatamente, o il suo processo emozionale verrà ostacolato.

Il bambino che strilla per dominare gli adulti, invece, deve essere lasciato al suo pianto finché non si stanchi. Ciò avviene di solito quando si muove nel suo terreno abituale e familiare.

 

 

 

 

COME AFFRONTARE I CONFLITTI

 

1) Il conflitto interno

Il conflitto interiore giace nella persona. Questa ha due necessità che contrastano fortemente e influenzano le sue relazioni con la gente.

In casi estremi le necessità opposte sono così imperiose da sviluppare una personalità neurotica. Un giovane, per esempio, resiste al padre che pretende aiutarlo in ogni cosa e che è leader per natura. Lotta per avere una propria identità, ma le cose che impara a fare sono quelle che hanno reso suo padre un uomo rispettabile. Odia, allora, le sue realizzazioni, perché sono simili a quelle del genitore. Studia adesso con meno profitto per arrecare dolore al padre e percepire così una certa soddisfazione. Si sente, però, anche frustrato per gli effetti che questo suo comportamento produce nel suo amor proprio. Da una parte vuole sconfiggere il padre, ma dall’altra vuole incrementare il proprio senso di autostima. Non può, però, ottenere le due cose, perché le necessità si escludono a vicenda.

Anche il padre si sente frustrato, perché pensa di avere la soluzione ai problemi del figlio, ma non può obbligarlo ad adottare le sue opinioni. Più aiuta il figlio e meno questi si sente inclinato a far propri i voleri del genitore.

 

A volte la crisi può rappresentare una contingenza secondaria tramite la quale la persona cerca di risolvere un problema primario. Una donna, per esempio, ha un marito grossolano e insensibile. Non divorzia per motivi religiosi e morali, ma è tanto il suo desiderio di vedersi liberata dal suo dispotico consorte che si ammala. La malattia è abbastanza grave da esigere un’attenta assistenza medica. E’ sempre più dipendente dagli altri, ma a volte tratta duramente quelli che sono più solleciti nei suoi riguardi. Vuole restare ammalata almeno il tempo necessario per prendere un po’ di respiro dal marito. Preferisce restare inferma, ma lontana da lui, che sana e vicina al suo partner.

 

2) Il conflitto esterno

Il conflitto esteriore è semplicemente una lotta instauratasi tra due o più persone. Ognuno di loro necessita e aspira a qualcosa e vede nell’altro colui che si interpone nel suo cammino e gli impedisce di raggiungere la meta desiderata.

Vediamo, per esempio, la scelta di un programma televisivo. Uno dei possibili compromessi consiste nel decidere un giorno a testa. La soluzione finale non è perfetta e neanche soddisfacente, ma  ognuno ottiene un po’ di soddisfazione e comprende che ciò che è giusto richiede certe rinunce.

Un marito voleva che i mobili brillassero come uno specchio sempre. La moglie pensava  che fare le polveri una volta la settimana era più che sufficiente. Lui aveva avuto una madre molto meticolosa e la sentiva sempre brontolare per il disordine, così che non si sentiva a posto, se non vedeva tutto ben ordinato. Trasferì tutto ciò sulla moglie, compreso il rancore verso l’atteggiamento materno, che aggiungeva legna al fuoco nelle sue discussioni con la consorte. La moglie lo aiutò a portare alla luce il suo vero problema e la tensione tra i due coniugi si ridusse.

 

3) Io vinco, tu perdi

Il modo unilaterale e autoritario di risolvere la situazione è conosciuto come il metodo: “Io vinco, tu perdi” oppure “Adesso vedrai!” , “Io ho ragione e tu hai torto, per cui decido io”.

Questo metodo dà un risultato, ma solo per un certo tempo. E, dato il suo esito temporale, chi lo applica si sente stimolato ad usarlo nuovamente.

L’uso ripetuto mette in evidenza la debolezza del metodo, che funziona praticamente solo a queste condizioni, e cioè quando il tempo di cui si dispone è breve e c’è la certezza che l’azione che si intraprende è corretta. Lunghe discussioni per ottenere il consenso di tutti possono far perdere l’opportunità di prendere una precisa decisione. Oppure, la persona di maggior conoscenza in materia può assumersi il diritto di decidere qual è la migliore soluzione.

Nel caso di un uomo ferito sulla strada ci vuole capacità su ciò che è da farsi e non consenso su cosa è meglio fare. Il medico ha preso in questa occasione una soluzione unilaterale, ma solo in questa circostanza.

Oppure, i genitori prendono decisioni al posto dei loro figli non abbastanza maturi.

In entrambi i casi la capacità e la conoscenza degli adulti (non permettere al figlio di 4 anni di scaldarsi il latte, non permettere ad un adolescente di rientrare dopo una certa ora) prevengono una possibile calamità. Quando, però, scompaiono le differenze di maturità, sono contro producesti le decisioni autoritarie.

 

Come regola generale possiamo dire che, quando un conflitto si riferisce a conoscenze, capacità o informazioni ben definite, è possibile un’azione autoritaria da parte di chi possiede tale conoscenza, capacità o informazione.

Quando, però, il conflitto appartiene all’ambito delle opinioni, dei sentimenti, delle attitudini e delle interpretazioni di motivi e azioni, il metodo autoritario non fa altro che acuire questi problemi.

Il problema principale che si presenta nella soluzione autoritaria unilaterale è che crea un vincitore e un perdente. In tali situazioni i vincitori pensano che, per il solo fatto di aver vinto, hanno ragione. E siccome hanno ragione, pensano di poter continuare ad imporre la loro volontà sugli altri. I perdenti, però, rimangono risentiti e in realtà non hanno ceduto in nulla. Possono accettare controvoglia la soluzione imposta, ma troveranno il modo per rifarsi.

 

I conflitti non risolti, o risolti con soluzioni imposte, portano normalmente a conflitti addizionali, anche se simbolici. Quando un marito e una moglie discutono su chi deve leggere per primo la posta o se è opportuno mettere la tovaglia a pranzo, siamo di fronte a conflitti simbolici, che manifestano l’esistenza di una tensione per problemi più seri.

Quando non riusciamo a trionfare in un’area determinata, ne scegliamo un’altra. I metodi autoritari per risolvere conflitti non fanno altro che spostare gli stessi conflitti in altre palestre.

Uno dei metodi per eliminare i conflitti è quello di esteriorizzarli, di portarli cioè alla luce, e identificare la fonte originale degli stessi.

 

4) Tu vinci, io perdo

La permissiva accettazione della richiesta dell’altro è un’inversione del metodo: “Io vinco, tu perdi”. E’ la soluzione: “Tutto ciò che tu desideri, cara”, oppure: “Tu vinci, io perdo”. E’ l’accettazione in anticipo della soluzione autoritaria e imposta.

Anche qui abbiamo un vincitore e un perdente, ma in questo caso soffre persino lo stesso vincitore, perché è esposto ad una falsa sensazione della realtà. Crede, in verità, di aver ragione e che di conseguenza gli corrisponda prendere certe decisioni. Non dando informazioni, il perdente fa sì che le decisioni del vincitore siano meno che realiste. Accettando in anticipo di perdere, il perdente non usa forza alcuna nella discussione e non offre informazioni che possono avere una certa importanza nelle soluzioni che ci cercano.

 

Nel metodo: “Io vinco, tu perdi”, il vincitore, per lo meno, poteva contare su dati che potevano essergli utili. Potendo, quindi, meditare su certe informazioni, che potrebbero comunque venir rifiutate, il vincitore può prendere soluzioni più realiste di quelle del metodo: “Tu vinci, io perdo”.

Il fatto che una delle parti in conflitto accetti in anticipo di perdere, ci dice qualcosa sul vigore e sul carattere del perdente. Ci dice che è stato sconfitto tante volte e in un modo così demolitore che il suo spirito è decaduto notevolmente. Ci dice anche che la sua fiducia è stata scossa a un punto tale da assumere un’attitudine fondamentalmente pessimista verso la vita e che si traduce nell’espressione: “Per quale ragione devo farmi il sangue cattivo”. Ci dice che la sua attitudine riguardo al valore personale è negativa e che non vale la pena lottare per la sua integrità psicologica. Ci dice anche che non prende sul serio l’opera rigeneratrice di Dio nella sua vita.

 

Se questo metodo viene applicato in forma continuata, produrrà danni nella salute psicologica e spirituale dell’individuo. Chi utilizza questo metodo è riuscito ad evitare parte dei conflitti esterni, perché invece di affrontarli li interiorizza.

Ciò che rende attraente questo metodo è il fatto che evita tutti i conflitti esterni e la pace sembra regnare. Apparentemente sono stati risolti tutti i problemi che si riferiscono alle relazioni umane, ma interiormente si annida un grande risentimento, senso di colpa e autocensura psicologica.

In casi estremi il perdente volontario può ricorrere alla sua autodistruzione, cioè al suicidio. Tutti rimangono sbalorditi: “Ma se non ha mai avuto problemi con nessuno!” Molte volte l’assenza di conflitti visibili è sintomo di infermità e non di salute. L’assenza di ogni conflitto non significa necessariamente la pace, ma un caso di ostilità occulta, che rode all’interno chi l’ha nascosta a se stesso e agli altri.

Il perdente agisce così anche perché si sente responsabile dei sentimenti dell’altro e si sente di controllare la situazione quando l’altro rimane in pace. Questo, però, è un pesante carico da sopportare e sfocia quasi sicuramente nell’autocommiserazione.

 

5) Perdita minima, guadagno diviso

Il metodo che produce i migliori frutti è il confronto creativo e la soluzione dei problemi. Ciò richiede che le parti in conflitto depongano alcune idee importanti, probabilmente egoiste, col fine di ottenere una soluzione.

In ogni conflitto la gente lotta perché teme di perdere qualcosa. La perdita può essere tanto psicologica come materiale, o entrambe le cose. L’essere sconfitto da qualcuno, o che questo qualcuno ci imponga la sua volontà, risulta più devastante di ogni perdita materiale (orgoglio ferito).

 

Riconoscere e comprendere che la perdita psicologica è più dolorosa di quella materiale risulta essenziale per intendere questo metodo di soluzione. E’ proprio su questo punto dove falliscono molti tentativi per risolvere i conflitti.

Due bambini, per esempio, lottano per il possesso di un giocattolo. La madre lo strappa all’uno per darlo all’altro, il legittimo proprietario. Uno gioisce e l’altro si infuria risentito. L’uno si sente vincente e l’altro perdente. La madre non fa nessuno sforzo per spiegare la proprietà del giocattolo, così il perdente si riempie di amarezza e si convince che a nessuno interessano i suoi sentimenti.

 

Una donna si offrì come volontaria per ciclostilare il giornaletto della Chiesa. In un secondo tempo si portò il ciclostile a casa, sentendosi così come padrona di quell’apparecchio e di quell’incarico. La Chiesa crebbe e poté permettersi l’utilizzo di una persona a tempo pieno. Pensarono di affidare a lui anche il lavoro di ciclostile, anche perché quella donna era poco precisa. Quando l’impiegato andò a casa della sorella per prendersi l’apparecchio, si scatenò la battaglia.

Il problema non era tanto il ciclostile, come la perdita psicologica del potere esercitato dalla volontaria. Non valutando questo aspetto, ma solo il fatto di chi dovesse tenersi il ciclostile, la perdente si ritirò dalla Chiesa.

Nella soluzione di ogni conflitto reale bisogna tenere in considerazione tanto le perdite materiali come quelle emozionali. Bisogna compensare entrambe.

 

 

 

Passi verso la soluzione dei conflitti

 

Il primo passo nel confronto creativo e nella soluzione dei problemi è identificare il problema e i possibili guadagni o perdite delle parti in gioco, includendo le perdite psicologiche.

Le parti in causa devono parlare, entrambe, sulla questione. L’astenersi dal dialogo non fa altro che allontanare il conflitto da una soluzione soddisfacente e spinge verso una soluzione “vincente-perdente”.

 

Il secondo passo è agire tanto sui problemi simbolici come su quelli reali. I problemi diventano simbolici perché trasferiscono la parte psicologica dei conflitti a nuove palestre, senza risolvere il vero problema.

Si è giunti alla conclusione, per esempio, che i conflitti matrimoniali più seri si traducono alla fine in problemi sessuali. Considerando che la parte sessuale del matrimonio è l’aspetto più tenero e delicato della relazione coniugale, questa rifletterà tutti gli altri problemi non risolti della vita di coppia.

 

Il terzo passo importante è rinunciare alla motivazione “io devo vincere”. Tale rinuncia non suppone che uno dei due debba assumere il ruolo del perdente, ma che entrambi rinuncino al ruolo di sovrani sulla vita dell’altro. E questo spesso è il passo più difficile da fare.

Se una persona ha sempre assunto il ruolo di dio nella sua vita e non ha mai ceduto al vero Dio il controllo del suo cuore, opporrà una forte resistenza a rinunciare al suo atteggiamento di “io devo vincere”. Una persona dominante risponderà contro voglia a chi le chiede gli elementi del conflitto e insisterà a descriverli a modo suo, togliendo importanza agli argomenti dell’altra parte.

E’ importante rispettare l’integrità dell’altro e desistere dal voler controllare i suoi sentimenti e le sue opinioni. Bisogna lasciare l’altro libero di descrivere e sentire le cose come vuole, di proporre soluzioni e di determinare il corso degli avvenimenti nel modo che a lui (lei) sembra migliore. Bisogna evitare di sminuire le opinioni, i sentimenti e i progetti dell’altra parte.

 

Il quarto passo è proporre varie soluzioni possibili. Queste alternative devono venir presentate dalle parti in conflitto in ordine di preferenza. Si applica per prima la soluzione che sembrerebbe la migliore. Se fallisce, si ricorre alla seconda, poi alla terza e così via.

Provando una sola soluzione, la persona che ne risulta più svantaggiata incomincerà a vedersi come perdente e non riuscirà ad uscire dal conflitto. Con diverse alternative si possono valutare le perdite e i guadagni di entrambe le parti e scegliere quella soluzione che sottolinei più i guadagni che le perdite, con soddisfazione reciproca e stimolo per affrontare i conflitti futuri.

Ognuna delle parti, così, ha la sensazione che le sue necessità sono state espresse, captate e percepite in forma appropriata.

 

Il quinto passo è valutare i risultati delle soluzioni scelte. A volte le soluzioni accordate non risultano così soddisfacenti come si era pensato. Bisogna valutare, allora, la nuova situazione creatasi e ricorrere ad una delle altre alternative proposte. Tutto ciò ha lo scopo di evitare la situazione “vincente-perdente”.

 

 

 

 

COME AFFRONTARE UNA CRISI

 

Le persone che sanno come affrontare una crisi o dei cambiamenti si sentono perfettamente liberi di esprimere apertamente e con dignità il loro sconcerto e il loro dolore. Chi non ha questa libertà si reprime e soffoca ogni genuina emozione.

Il problema, però, viene interiorizzato e provoca malesseri fisici e una personalità inacidita. Può succedere che la vittima, pur esprimendo i suoi sentimenti, voglia trasformare la situazione in una richiesta di compassione, ciò che porta ad una malsana dipendenza. Come conseguenza diminuirà la sua capacità di affrontare i problemi della vita.

 

Uno dei sintomi che una persona non sta affrontando la situazione nel migliore dei modi è una notevole riduzione delle attività personali. Può abbandonare totalmente le cose più semplici che riguardano la sua vita. Se la persona mantiene queste piccole cose sotto controllo, ciò significa che anche gli aspetti maggiori riguardanti quella situazione sono sotto controllo.

Non bisogna mai rinunciare al buon umore nel mezzo di una crisi, perché calma il dolore e agisce contro ogni sforzo per adottare un’attitudine di “povero me” mentre si è impegnati nella lotta.

 

Dobbiamo anche riconoscere una nostra maggiore dipendenza dagli altri quando ci troviamo in qualche seria difficoltà. E’ possibile che ci vediamo obbligati ad accettare aiuti finanziari da un amico, anche se ciò ferisce il nostro orgoglio. Dovremo, forse, contare su favori che probabilmente non potremo mai retribuire.

Chi sa affrontare le situazioni difficili, riesce a creare una relazione di dipendenza senza aggrapparsi eccessivamente agli altri e senza sacrificare la sua integrità personale. Quando passa la crisi, non si sente perseguitato dall’idea di dover rendere ognuno dei favori che gli sono stati fatti. Non si sentirà in obbligo verso tutti quelli che lo hanno aiutato, ma sperimenterà, come farse mai prima, l’opera della grazia. Accetterà, quindi, questi favori senza considerare se li merita o no.

Ci sono persone che non hanno mai imparato a ricevere una favore senza rendere l’equivalente. E finché non possono rendere ciò che hanno ricevuto, si sentono a disagio e in debito. Se riusciamo ad accettare il grande dono di Dio, la vita in Cristo, potremo imparare anche a ricevere piccoli favori senza sentirci obbligati a rendere l’equivalente misura.

 

La persona che sa affrontare in modo soddisfacente le crisi, ha la capacità di evitare le azioni impulsive. Un uomo, per esempio, viene lasciato dalla fidanzata e i soldi destinati all’acquisto della casa li spende, per compensare emotivamente il senso dell’abbandono, in una macchina di grossa cilindrata.

Chi vuole affrontare in modo corretto le crisi e i cambi della vita dovrà evitare la “magia della bocca”, cioè il mangiare, il bere, il fumo e il parlare in eccesso. Questo atteggiamento creerà ulteriori problemi e non apporterà alcun sollievo alla situazione di crisi da affrontare.

In vece di ricorrere alla “magia della bocca” si consiglia il lavoro, la partecipazione attiva in qualche sport, i sani intrattenimenti e gli esercizi, sia corporali che della mente. L’attività deve superare la passività.

E’ normale che la gente si rinchiuda in se stessa e si mantenga inattiva mentre dura il suo dolore e la conseguente depressione, o quando sono molte le cose che cambiano. Bisogna, però, occuparsi delle faccende rutinarie.

 

 

 

Essere realisti rispetto al senso di colpa

 

I figli dei genitori che divorziano si sentono colpevoli per la rottura del matrimonio. Gli amici del moribondo si sentono colpevoli per essere vivi e sentirsi bene. I sopravvissuti ad un incidente si sentono colpevoli, perché si considerano meno meritori della vittima e si domandano la ragione per cui ha dovuto soffrire chi era il migliore.

Il senso di colpa colpisce tanto il perdente come il vincente in una competizione. L’impiegato, per esempio, che ha una promozione o il capo che deve licenziare.

Giobbe non cedette alla tentazione di sentirsi colpevole per ciò che stava succedendo nella sua casa.

 

Coloro che sanno adattarsi adeguatamente in una crisi sono quelli che hanno imparato a interpretare la loro condizione spirituale, non quella delle loro emozioni e né quella creata dagli avvenimenti.

Il credente sa che la sua giustificazione è un dono che può essere accettato senza obbligo di restituzione. Ogni calamità che si produce nel futuro non deve per forza significare un regresso della condizione di perdonato. Dobbiamo rifiutare il senso di colpa sia nel successo che nel fallimento.

 

Le menti forti e sane, che attraversano una crisi, scopriranno che è di grande aiuto parlare del problema. Nel parlare si scopre che l’ansia (sentimenti prodotti dal problema) è un sintomo di salute e non di malattia. Tali sentimenti, anzi, possono essere considerati come parte del processo di guarigione.

Filippesi 4:6 non dice che l’ansietà in sé è cattiva, ma ci dice di presentarla in preghiera a Dio e di permettere che la Sua pace dimori nella nostra vita. L’ansia esposta al tocco di Dio è un’ansia in via di riduzione.

Se le persone negano e reprimono la loro ansia, aggiungono nuovi elementi al loro problema. L’ansia, così, va in profondità e trova sbocchi in malesseri fisici o in tratti pregiudiziali della personalità e dello stile di vita. Queste persone giungono ad un controllo dittatoriale sulle loro emozioni e sentimenti.

Se si prolunga nel tempo, questo controllo diventerà involontario e porterà a non rendersi conto della loro esistenza. In questo modo la loro personalità diventerà rigida, tesa, inflessibile.

Dobbiamo, così, considerare utili e beneficiose le nostre emozioni, sempre che siano sotto controllo. Possono indurci a cercare la compagnia di qualcuno con cui parlare, senza imporci un eccessivo senso di vergogna, che indica un processo naturale di guarigione.

 

 

 

Manteniamo una stretta relazione con gli altri nei tempi di crisi

 

La tendenza altruista della gente viene risvegliata dalle tribolazioni in cui veniamo a trovarci. Se la relazione è eccessivamente intima, sembra adottare una posizione di dipendenza malsana, se troppo distante, si colloca fuori da ogni aiuto che si potrebbe ricevere.

 

 

 

Integrità psicologica intatta

 

Necessità, desideri, realizzazioni, minacce, motivazioni, soddisfazioni e attitudini conformano questa disposizione dinamica di forze psicologiche.

Nel processo di crescita le persone devono stabilire un equilibrio di queste forze nella loro vita, adottando uno stile caratteristico o adattandosi alle mutevoli circostanze della loro vita.

Questo equilibrio viene denominato “Integrità psicologica”. Come risultato di ciò, l’integrità psicologica di ogni persona merita di essere rispettata. E’ stata ottenuta a costo di grandi sforzi e pertanto non deve essere oggetto della manipolazione degli altri.

Lo Spirito Santo non investe una persona come un toro infuriato. Non si impone, né impone la sua volontà su nessuno, ma agisce con il consenso della  persona coinvolta, non importa il tempo che ciò richiede. Non interferisce a meno che non sia invitato.

Anche noi dobbiamo stare attenti al modo come interveniamo nella vita degli altri. La competenza e la capacità ci apriranno le porte dei cuori degli altri. L’aiuto deve essere dato solo se richiesto. Bisogna sempre rispettare le decisioni della persona bisognosa e anche lasciarla libera (non si può correre sempre a soccorrerla) di prendere decisioni.