GIOBBE, LA FEDE IN CONFLITTO

 

 

Il messaggio del libro di Giobbe

 

Ammirare il personaggio per la sua pazienza e la sua fede di fronte alla perdita di beni, di persone care e della propria salute è interpretare la sua esperienza con eccessiva superficialità.

Il problema di Giobbe non fu di carattere economico, fisico, sentimentale o sociale, ma religioso. Ciò che nel suo caso venne messo a prova non fu la sua resistenza di fronte all’avversità, ma la sua capacità spirituale per continuare a confidare in Dio senza intendere il processo della sua provvidenza.

La cosa più patetica della sua agonia interiore fu la brutale collisione tra la sua teologia e la sua esperienza. Fu così il precursore di molti altri credenti la cui struttura dottrinale, apparentemente ben fondata, ha sofferto delle violenti scosse dovute ad avvenimenti sconcertanti.

I grandi interrogativi che sorgono lungo questo libro hanno preoccupato gli uomini di tutti i tempi. Perché la prosperità e il dolore non corrispondono sempre all’integrità e alla malvagità? Si interessa Dio alle cose degli uomini oppure no? In caso affermativo è un  Dio che ci è amico o avversario? E’ possibile conoscerlo? Viene retto l’universo da principi di giustizia? Vale la pena vivere? C’è qualcosa dopo la morte?

Queste domande, però, non hanno in Giobbe una risposta chiara e immediata.

 

Questo libro non vuole giustificare Dio nel governo morale dell’universo, né vuole essere un’illustrazione di come sopportare con coraggio le disgrazie. Non è neanche un trattato teologico sull’universalità del peccato, sulla giustificazione, redenzione o risurrezione.

Qual è allora lo scopo che si prefigge questo libro? Da una parte mettere a confronto l’uomo con l’enigma della sua vita in tutta la pienezza del suo dramma esistenziale (la contemplazione della sua lotta, con i suoi momenti sfolgoranti e le sue ore di tenebre, la sua fede esuberante e la sua profonda costernazione, i suoi briosi salti verso le cime celesti e i suoi abbattimenti fino alle porte dell’inferno, è qualcosa che impressiona, ma che riconforta nello stesso tempo).

Dall’altra dimostrare quanto siano inadeguate le speculazioni umane per spiegare il mistero della sofferenza e l’assurdità di pretendere di giudicare Dio. La nostra conoscenza è sempre limitata e imperfetta. I nostri concetti di Dio non sono mai esenti da pregiudizi. Spesso ci preoccupano di più le sue opere che non la sua stessa persona, ciò che sta facendo con noi più di quello che Lui è.

Questa preoccupazione rivela in fondo il nostro egoismo, ed è per questo che Dio, quando alla fine parla con Giobbe, non risponde alle domande che questi aveva formulate, ma si limita a mostrargli la maestà della sua sapienza e il suo potere dispiegato nelle meraviglie della creazione.

Davanti a questa manifestazione dell’Onnipotente, Giobbe ammutolisce. Smette di formulare delle domande e si sottomette. Non argomenta più, ma confida. Non si erge più con audacia a difendere la sua causa, ma si umilia e nella sua umiliazione trionfa.

Non è ancora libero dalle sue tribolazioni, ma sente pace nel suo cuore. E’ nelle mani di un Dio sovrano, ma meraviglioso, e intuisce che lì è sicuro, succeda quello che succeda. Anche se nelle circostanze della sua vita prevale ancora l’oscurità, il suo cuore si rallegra raggiante di luce.

 

Un’altra finalità del libro è ampliare la nostra comprensione di ciò che succede nel mondo, dandoci la visione di ciò che avviene al di là delle cose visibili: lo scontro tra Dio e Satana.

E’ vero che né Giobbe, né i suoi amici sono meri pezzi di scacchi in una partita tra due rivali soprannaturali, ma non è meno certo che la prova di Giobbe risponde a un proponimento saggio e buono di Dio.

Il Diavolo avanza l’ipotesi che Giobbe lo serve soltanto per i benefici che gliene derivano e che, quindi, la sua pietà non è altro che un interesse di parte. Dio accetta la sfida.

Giobbe si agita, dubita, maledice, protesta, si indegna, invoca, ma non soccombe. Ha idee sbagliate relativamente alla persona di Dio, ma non lo include nelle sue maledizioni. Dubita del valore pratico della pietà, ma non vi rinuncia per darsi alla malvagità.

Queste grandi sofferenze di Giobbe, lungi da rappresentare un giudizio di Dio contro di lui, provano la fiducia che Dio aveva in lui.

 

La fine del conflitto mostra un Giobbe purificato e spiritualmente arricchito. E’ un monumento vivo al Dio che vince sulle forze del male ed eleva l’uomo al altezze gloriose di redenzione.

 

 

 

L’inizio della prova (Giobbe 1:6-12)

 

“Un giorno…” Giobbe non poteva certo immaginarsi il significato che quel giorno avrebbe avuto per il resto della sua vita. Tutto procedeva come sempre. Capriccio del destino, quindi? Questo pensa il non credente, ma il credente fa sue le parole del salmista: “Io confido in Te, o Eterno…i miei giorni sono in tua mano” (Salmo 31:15-16).

Giobbe tardò nel raggiungere questa certezza. Se solo avesse presenziato alla scena che ebbe luogo alla corte celeste! Ciò, però, avrebbe tolto alla tentazione la sua spina più penetrante, poiché la compie la sua finalità quando vi passiamo senza vedere e spesso senza capire: “Camminiamo per fede e non per visione” (2 Corinzi 5:7).

 

Dio accetta la sfida di Satana, e cioè che Giobbe lo segue per egoismo spirituale, per i benefici che ne ricava e non per vera devozione. Dio sa che né Giobbe, né alcun altro figlio di Adamo è esente dal peccato. Conosce come nessun altro le diverse componenti spirituali della nostra pietà e discerne le radici più occulte del nostro egoismo.

Sa anche, però, che non sono mancati degli uomini che, malgrado i loro difetti e peccati, hanno potuto dirgli ciò che un giorno Pietro avrebbe detto a Gesù: “Tu sai ogni cosa; tu lo sai che io ti amo” (Giovanni 21:17). Giobbe era uno di questi e perciò Dio confidò in lui e autorizzò la prova.

In un istante Dio ritira la protezione che aveva assicurato fino ad allora alla casa e ai beni di Giobbe. Satana ha via libera, anche se entro certi limiti. Nei suoi attacchi successivi mostrerà il suo grande potere e la sua malvagità, ma anche la sua impotenza per andare oltre ciò che Dio permette. Inoltre, nell’esercizio libero della sua volontà, il Diavolo diventa in ultima analisi un servo di dio, uno strumento tramite il quale si compiono i proponimenti di Dio.

Questa realtà deve darci coraggio. Satana è una creatura che, malgrado la sua ribellione prepotente, non può annullare la sovranità di Dio. E finché Dio è sovrano, cioè finché noi siamo sottomessi a Lui, è assicurato il trionfo finale della giustizia e dell’amore.

 

 

 

Le disgrazie si susseguono (Giobbe 1:13-22)

 

Le disgrazie incominciano a colpire Giobbe. Che cosa farà? Come reagirà? Avrebbe potuto sprofondare nella sua prostrazione, in un’attitudine di dolente passività. Invece no. Giobbe si strappa la veste e si rade la testa in segno di duolo. In questo modo esprime l’amarezza che riempie il suo cuore.

Non maledice Dio e non dà, quindi, ragione a Satana (1:21). La fede non lo priva della sua sensibilità, infatti un credente non è una pietra. Non lo è stato neanche Gesù (Giovanni 11:33-38). Non ci viene proibito di commuoverci o piangere. Le stesse tribolazioni, però, che condussero molti alla disperazione, muovono Giobbe all’adorazione. E’ stato privato di tutto, ma non si può dire lo stesso riguardo la sua personalità. Le cose più preziose di Giobbe non erano in ciò che possedeva, ma in ciò che era. Infatti aveva capito che tutto ciò di cui poteva disporre era un segno della grazia di Dio e non la ricompensa a meriti speciali.

La perdita dei suoi beni non produce come conseguenza la perdita della sua fede, perché Giobbe onora e serve Dio indipendentemente da ciò che riceve da Lui. Questo fatto dimostra che c’è un servizio a Dio che non è un’opera in cerca di premio. E’ una lealtà sentita nel cuore, un’ansia della presenza di Dio che sopravvive alla perdita e alla sofferenza, che aderisce al divino, malgrado le apparenti contraddizioni, come l’ago calamitato cerca il nord, e che risale al di sopra dell’oscurità e ai dispiaceri di questa vita verso la luce e l’amore di un al di là.

 

 

 

Al bordo della distruzione (Giobbe 2:1-10)

 

Giobbe viene privato anche della salute. E’ colpito da una malattia simile alla lebbra, che causa in chi lo vede un senso di ribrezzo e repulsione. Deve vivere, così, le ore più oscure della sua vita nella più grande solitudine, perché anche la moglie si trova tremendamente lontana da lui sul piano spirituale.

Più che una compagna fedele è piuttosto uno strumento inconscio di Satana per allontanarlo da Dio. Per Giobbe sarebbe stato doloroso perdere la moglie insieme ai figli, ma la sua sopravvivenza gli è adesso motivo di più profondo dolore, perché li separa un abisso spirituale e lei non riesce a identificarsi con lui.

In tutto ciò comunque Giobbe non pecca, mantiene la sua fede e accetta la sovranità di Dio (2:10).

 

 

 

Vale la pena vivere? (Giobbe 3:1-26)

 

Giobbe prorompe nel più grande lamento conosciuto nella poesia di tutti i tempi. E’ notevole il contrasto tra le sue parole rassegnate del capitolo 2 e l’amarezza con cui adesso maledice il giorno della sua nascita.

Giobbe pecca, perché giudica Dio, ma non dobbiamo condannarlo affrettatamente. La prova dura da mesi, le sofferenze fisiche, morali e spirituali hanno influito notevolmente sul suo stato d’animo.

L’aspetto più pericoloso di una prova è il suo protrarsi nel tempo. Non deve sorprenderci, quindi, che la mente di Giobbe si vada offuscando e che lui si veda sprofondare nella disperazione. Tutti gli sforzi per trovare una spiegazione alle sue calamità falliscono. Ogni giorno che passa tutto risulta più indecifrabile. L’oscurità si fa sempre più densa e la bocca di Giobbe esprime l’abbondanza del dolore presente nel suo cuore.

Giobbe vive rettamente, teme Dio, perché allora si trova coinvolto in quell’ondata di disgrazie? Che motivo poteva avere Dio per smettere di essere il suo benefattore e trasformarsi nel suo avversario?

Giobbe ritiene che gli è preclusa ogni possibile uscita da quella situazione, perché lo stesso Dio si è messo contro di lui. E se questa è la realtà, la sua vita non solo perde ogni significato, ma diventa una tragedia, la più spaventosa delle tragedie.

Ecco perché Giobbe maledice il giorno della sua nascita.

Anche in queste forti parole di lamentela Giobbe non maledice Dio, così come il Diavolo avrebbe voluto che facesse.

 

La lamentela di Giobbe, comunque, si avvicina all’accusa. Dio avrebbe fatto meglio a non farlo nascere o a lasciarlo morire subito dopo la nascita. Geremia manifesta, più o meno, lo stesso concetto (Geremia 20:14-18). La vita del patriarca adesso era priva di senso, era un totale fallimento, un’assurdità e voleva morire.

Anche altri manifestano nella loro vita questo desiderio e, come Giobbe, dimostrano di non riposare sulla speranza evangelica e di non sospirare per la “gloria futura”, ma di volere la liberazione dalla miseria presente. L’oscurità e il languore del regno dei morti sono da questi mille volte preferiti a una vita triste e senza senso. Invano si moltiplicano le riflessioni e le domande sull’esistenza: “Perché? A che scopo?” Ma non c’è risposta: Che amarezza!

La vita risponde a un piano stupendo di Dio. La luce su questo piano ci aiuta a capire molti misteri della provvidenza divina che condizionano la nostra vita sulla terra. La nostra parentesi terrena è solo una parte minima della nostra esistenza. Giobbe aveva solo una pallida idea “della speranza della gloria di Dio” (Romani 5:2), non sapeva che “le sofferenze del tempo presente non sono punto da comparare con la gloria che ha da essere manifestata a nostro riguardo” (Romani 8:18), che “la nostra momentanea, leggera afflizione ci produce un sempre più grande, smisurato peso eterno di gloria” (2 Corinzi 4:17), che “resta un riposo per il popolo di Dio” (Ebrei 4:9) e che Dio non deve essere giudicato prima del giorno finale, in cui Egli giudicherà il mondo con giustizia (Atti 17:31) e ogni essere umano riceverà la sua giusta retribuzione (Romani 2:5-11).

 

Noi cristiani dobbiamo guardarci dall’arroganza. Non sempre la nostra esperienza riflette la luminosità del Vangelo. Non sempre ci manteniamo “allegri nella speranza, pazienti nell’afflizione” (Romani 12:12). Chi non ha mai avuto dubbi, ore di crisi, perplessità? Non lasciamoci trasportare, quindi, da facili giudizi o da consolazioni superficiali.

Per il credente angosciato il rimedio più efficace è lo sfogo sincero dell’anima, anche se questo sfogo è un lamento così lacerante come quello di Giobbe. Dio non è sordo alla voce di coloro che si dibattono nell’oscurità e nel dolore.

Se Giobbe avesse potuto vedere un po’ del bene immenso che la sua esperienza avrebbe dato all’umanità, non avrebbe avuto il minimo dubbio rispetto al senso della sua nascita. Ne è valsa la pena, dunque, che vivesse, che soffrisse e che affrontasse la grande questione dell’essere o non essere in circostanze di avversità e mistero.

La stessa croce di Cristo, con tutti i suoi aspetti di oscurità, umiliazione e dolore, non è un simbolo di sconfitta, ma di vittoria. Qualunque siano le circostanze vale la pena vivere.

 

Nei misteri di Dio non sempre vale la regola del raccogliere ciò che si è seminato. Non sempre l’uomo timoroso di Dio è liberato dalla fame, dalla guerra, dalla diffamazione, dalla necessità e da altre forme di disgrazie. Possiamo dire, però, che nella scuola di Dio alla sofferenza della disciplina segue la gioia della benedizione.

 

 

 

Il clamore di un’anima abbattuta (Giobbe 6:1-7)

 

Ciò che tormenta maggiormente Giobbe non è l’aspetto quantitativo della tribolazione, ma quello qualitativo, cioè l’interpretazione che lui dà alle sue sofferenze. Dietro tutto questo vede la mano di Dio e non capisce perché, senza validi motivi, stia agendo come fosse suo nemico. E’ un uomo terrorizzato e si sente come nell’anticamera dello stesso inferno.

Giobbe, però, stava lottando contro un Dio vivo, che, malgrado tutto, gli lasciava ancora un margine di speranza. Per un ateo, invece, non rimane altro che un atteggiamento fatalista che non potrà che portarlo alla disperazione di fronte a un destino cieco e a un universo insensibile.

 

 

 

L’impazienza di un derelitto (Giobbe 6:8-13)

 

Giobbe invoca la morte: non può più sopportare questa sua agonia. I suoi amici lo accusano ingiustamente, Dio è diventato suo nemico, le sue forze lo abbandonano e non vede nessuna via d’uscita. La sua unica speranza è che la morte dia fine ad una vita senza senso.

Se prima Giobbe era stato un esempio di pazienza e di fede, adesso lo è di impazienza e di disperazione. Non c’è situazione più sconcertante di quella in cui uno non ha più speranza, si sente impotente per continuare a lottare e si abbandona allo scoraggiamento.

La grazia di Dio, però, non era esaurita, perché il suo potere si perfeziona nella nostra debolezza (2 Corinzi 12:9). Il Signore dà forza a chi è stanco (Isaia 40:29-31).

 

 

 

L’amarezza di un uomo deluso (Giobbe 6:14-23)

 

Le crisi di fede non sono in sé peccato, anche se a volte possono esserne la conseguenza. L’amico autentico, però, non abbandona il fratello in crisi con un moto di scandalo e di repulsione. Anche gli amici di Giobbe, legati a lui prima da un profondo vincolo di fiducia e affetto, diventano suoi accusatori e, quindi, suoi nemici.

Questa constatazione acuisce il dolore di Giobbe, perché proprio nei momenti di tribolazione si ha sete di amicizia vera, totale e incondizionata. Giobbe non chiedeva altro. Ci sono dei momenti in cui conta soltanto l’amore sincero di chi sa ascoltare, simpatizzare e accettare l’amico così come è e così come sta.

Il conforto può venire soltanto da un abbraccio forte, spontaneo, che non richiede prima di verificare l’ortodossia o la santità di chi ha bisogno di essere abbracciato. Questo è esattamente quello che gli amici di Giobbe non sono riusciti a fare. Più che l’amico amavano le proprie idee, a cui lui doveva sottomettersi se voleva meritare la loro approvazione.

La rigidità dogmatica priva di carità è purtroppo ancor oggi assai diffusa nelle nostre Chiese. L’orgoglio denominazionale e il legalismo hanno radici più profonde nel credente che non lo zelo per dar gloria a Dio.

 

 

 

La sfida di un disperato (Giobbe 6:24-30)

 

La delusione per l’atteggiamento dei suoi amici non induce Giobbe a chiudersi in se stesso, ma piuttosto a lanciare una sfida ai suoi interlocutori. L’umiltà di Giobbe non esclude la durezza con cui fa notare ai suoi amici l’inefficacia delle loro parole per mancanza di discernimento e comprensione.

Giobbe, forse, si era reso conto che non era possibile una vera comunicazione. C’è infatti una successione di monologhi, ma non un vero dialogo. Non sempre la logica e l’eloquenza, o la dottrina, stabiliscono un contatto reale con la persona a cui si parla e le parole non sono altro che un rame risonante o uno squillante cembalo.

 

La comunicazione è un fiasco quando nel fondo non si ha nulla da comunicare o per lo meno nulla che sopperisca alle necessità di chi ascolta. E’ inoltre inefficace il messaggio che fluisce dalla mente di chi parla senza essere passato dal suo cuore, cioè quando esprime semplicemente una dottrina, una verità, un fatto che non ha molto significato nella sua stessa vita, o quando non riesce a intendere o a considerare la vera situazione di chi ascolta e più che il bene di questi cerca la propria gloria, o quando invece di convincere cerca di vincere, o quando ostenta sapienza e ignora totalmente la carità.

E’ tragico quando non si riesce ad arrivare al cuore di chi sta passando per una crisi e che si dibatte nella sua solitudine, ansioso di una parola che lo guidi e di un gesto d’amore.

 

 

 

Giobbe di fronte all’esistenza umana (Giobbe 7:7-10)

 

Nel suo dolore alza adesso gli occhi e contempla l’esistenza umana in generale. Il suo dramma diventa il punto centrale di un circolo immenso. Ai suoi occhi la vita di ogni essere umano è orribilmente impoverita dalla miseria e dalla sua brevità. L’uomo non è la corona della creazione e il signore del mondo secondo il proponimento originale di Dio. E’ piuttosto come un soldato sottoposto ad un servizio obbligatorio e duro, o come un manovale costretto ai lavori più massacranti.

Quest’uomo non aspetta altro che la morte per mettere fine alle sue fatiche. Nella brevità della vita, però, Giobbe non vede un motivo per gioire, ma un’altra calamità. La logica direbbe che più corta è una vita tribolata meglio è. Le grandi sofferenze, però, generano grande confusione e la confusione non va a braccetto con la logica, ma piuttosto con il paradosso e la contraddizione.

Giobbe è condizionato dalle sue circostanze, però anche Dio mette in rilievo la brevità della vita (Isaia 40:6-7 / Giacomo 1-9-11). Di fronte a questa realtà alcuni vi si rassegnano, incapaci di sovrapporsi alle circostanze, mentre altri combattono per cambiarle, lanciandosi il più delle volte nei piaceri che la vita può offrire nel tentativo di dimenticare la realtà inevitabile della morte.

 

 

 

Dio sottoposto a interrogatorio (Giobbe 7:11-21)

 

Giobbe fa la cosa migliore: si rivolge direttamente a Dio e lo sottopone a un interrogatorio audace. La sua audacia non potrebbe essere maggiore; è l’audacia prodotta dall’angoscia, l’audacia di un uomo sincero, anche se si dibatte nell’errore, che nella sua disperazione punta tutto su una carta.

Dice a Dio cose molto forti, lo provoca per orzare una sua risposta. Solo una parola di Dio, vista la futilità delle parole degli uomini, potrebbe liberarlo da quel suo stato insopportabile.

 

Aveva un senso il fatto che Dio dispiegasse un sistema di repressione così impressionante contro un essere così insignificante come lui? Costituiva forse un pericolo per il mondo?

Giobbe preferisce che Dio smetta di preoccuparsi di lui, in contrasto con il salmo 8, o che per lo meno gli conceda un respiro. Non vede nell’Onnipotente un essere buono, identifica Dio con un poliziotto e non vede la sua fedeltà nel proteggere il suo popolo (vedi Deuteronomio 32:10 e Salmo 121).

Giobbe vede un Dio che è occupato soltanto nello spiarlo e torturarlo implacabilmente. Ha l’impressione di essere diventato un peso per Dio e che per questo diventa il bersaglio dei suoi attacchi. Anche se avesse peccato, si chiede, in cosa la sua trasgressione avrebbe potuto danneggiare il Signore dell’Universo? Non avrebbe dovuto Dio esercitare piuttosto la tolleranza nei suoi confronti?

 

Giobbe, in un certo senso, fa di se stesso il centro della sua teologia e nella sovranità e onnipotenza di Dio non vede altro che ostilità nei suoi confronti. Non si sottomette, anzi dovrebbe essere Dio, comprendendo le ragioni di Giobbe, a rettificare il suo modo di governare l’universo.

In questo momento gli manca sensibilità spirituale per rendersi conto che il peccato, nella sua ampiezza universale, coinvolge seriamente tutti gli uomini e che lui non era un’eccezione. Questa mancanza di discernimento lo indurisce nella sua autodifesa fino al punto di accusare Dio di ingiustizia e di mancanza di misericordia.

Giobbe pensava che il peccato, se anche lo aveva commesso, non aveva ripercussioni su Dio. Il fatto che Dio non venga intaccato dalla ribellione umana, però, non significa che ne rimanga indifferente. Qualsiasi peccato è una discordanza nell’armonia della creazione e ciò non lascia indifferente il Creatore. Ogni peccato è un insulto all’autorità divina e davanti a questa realtà il Re dell’universo non può restare impassibile. Ogni peccato calpesta la legge di Dio e Lui, il Giudice Supremo, non può ignorarlo. Ogni peccato ferisce il cuore paterno di Dio e Lui non è insensibile (Isaia 1:2).

Oggi è di moda minimizzare la realtà del peccato e esaltare un Dio bonaccione, che include tutti gli uomini nel suo abbraccio salvifico. La soluzione del peccato non ha un risvolto semplicistico, infatti costò la vita del Figliolo di Dio.

 

Giobbe continua con veemenza nella sua protesta. Vede che sta morendo e si riducono le sue possibilità di difendersi. Ha una specie di sentimento di compassione verso Dio che un giorno dovrà rendersi conto dell’ingiustizia commessa nei confronti del suo servo. In quel giorno vorrà incontrarsi con il suo servo, ma sarà troppo tardi, perché Giobbe non esisterà più. Questo pensiero non fa altro che provocare un sorriso di compassione in Colui che ha le chiavi della morte e dell’Ades (Apocalisse 1:18).

 

 

 

Dio, un despota crudele? (Giobbe 9:1-35 ; 10:1-22)

 

Giobbe è d’accordo che l’uomo non può giustificarsi davanti a Dio. Non vede, però,  valori morali nell’azione di Dio, ma soltanto la sua immensa grandezza, la sua sapienza e il suo potere irresistibili.

C’è un abisso tra il Creatore e la sua creatura. Chi gli si può opporre? Ciò che Dio fa è giusto, non perché si aggiusta ad un modello di rettitudine, ma semplicemente perché lo fa Lui. Dio, qualunque cosa faccia, avrà sempre ragione e l’uomo dovrà tacere davanti alla sua sovranità assoluta.

Nella sua relazione con l’uomo Dio, secondo Giobbe, agisce in un modo occulto, è il grande Invisibile. Davanti a Dio anche i più forti devono tacere e soccombere: quanto più un invalido come lui.

 

Su che base morale agirà dunque Dio, se i principi morali sembrano dover essere scartati? Dio ride dell’angoscia degli innocenti, lascia nazioni in mano a gente perversa e mette un velo sul volto dei suoi giudici. E se non è Lui a fare questo, chi lo fa allora?

 

Giobbe si rende conto che Dio non può essere come lui crede che sia, arbitrario e ingiusto, ma i fatti, però, non lasciano spazio ad alcun dubbio.

Giobbe si dibatte in un mare di contraddizioni. Che mistero! E se non c’è la possibilità di sbrogliare la matassa in cui si trova avvolto, se Dio non illumina queste tenebre, tanto vale morire.

L’oscurità del momento presente cancella dalla sua memoria ilo ricordo di un passato felice. In lui prevale il pessimismo. Che sia giusto o peccatore, Dio ha deciso di distruggerlo e per questo si abbandona alla passività di un fatalismo tragico.

In mancanza di un mediatore, decide di continuare a interrogare Dio con tutta l’amarezza del suo spirito. Vuole chiarire il mistero del governo di Dio nella sua vita.

 

Convinto della sua innocenza, interpella Dio sul dolore a cui sottopone il giusto e sul favore che concede al malvagio. Esprime anche la possibilità che Dio abbia degli “occhi di carne”, cioè che la sua visione sia così limitata e esposta all’errore come quella degli uomini, cosa che lo porterebbe a confondere l’innocente con il colpevole.

Nella terza domanda lascia intravedere un Dio simile all’uomo nel suo affanno di distruggere la sua vittima prima che gli scappi di mano. Ma perché questa fretta di Dio nell’accusarlo di peccato, sapendo che era innocente? E se non lo fosse stato, chi lo avrebbe liberato dalla giustizia divina? Non poteva Dio aspettare che il peccato di Giobbe diventasse manifesto senza il bisogno di accusarlo in un modo così implacabile? Questo modo di procedere non era certo degno di Dio, ma allora che ragione aveva per maltrattarlo così duramente?

 

Giobbe riflette sull’opera creatrice di Dio che gli aveva dato la vita e lo aveva colmato di favori. Ma qual era adesso il senso di quest’opera benefica di Dio se veniva colpito da una violenta forza distruttrice?  Giobbe ha un pensiero sinistro: tutto era stato preparato con la massima cura e il proponimento finale di Dio era di rovinare con ferocia chi aveva tanto favorito.

La prosperità del passato era come un velo che occultava le intenzioni crudeli più raffinate del Creatore. Giobbe si chiede ancora la ragione della sua esistenza e prega Dio di allontanarsi un momento da lui per lasciargli un po’ di sollievo prima di superare la soglia della morte e di finire nel luogo delle tenebre.

 

Così come Giobbe, anche noi vediamo una realtà che evidenzia la bontà e la rettitudine morale di Dio, ma nello stesso tempo assistiamo a fatti che sembrano negarle. L’applicazione del metodo induttivo per determinare la natura di Dio a partire dall’esperienza umana è un’arma a doppio taglio. Il carattere morale di Dio non può conoscersi tramite la natura o la storia, ma per mezzo della sua rivelazione redentrice.

Giobbe non sapeva nulla di questa rivelazione, incarnata in Gesù Cristo.

Malgrado “tutte le cose cooperino al bene per coloro che amano Dio” (Romani 8:28), anche noi vediamo spesso un Dio crudele nella nostra vita. Come Giobbe, non riusciamo a rinunciare a Dio e tanto meno a maledirlo, con la conseguenza che la nostra comunione con Lui si oscura e la sua sovranità, che dovrebbe essere motivo di gioia, diventa motivo di tormento.

 

D’altra parte la rivelazione biblica non chiarisce tutti i misteri (Deuteronomio 29:29). Cercare di invadere con le nostre speculazioni questa regione riservata, sarebbe un duplice peccato: irriverenza e superbia.

Bisogna anche dire, poi, che la comprensione delle verità rivelate è sempre imperfetta a causa dei limiti del nostro intendimento e degli errori o pregiudizi che giacciono nel fondo del nostro intelletto. Se, poi, la comprensione della verità fosse del tutto corretta, è facile commettere errori nel modo di comunicarla.

 

 

 

In lite con Dio (Giobbe 13:13-28)

 

Il mistero della sua situazione opprime troppo Giobbe. Per questo lancia con impeto gli interrogativi che lo tormentano: “Quanti sono i miei peccati, qual è il mio delitto? Fammelo sapere”.

Giobbe riconosceva che ogni uomo era peccatore, però erano forse i suoi peccati più numerosi di quelli degli altri uomini? E se Dio lo castigava per una trasgressione speciale, qual era questa trasgressione? Che delitto colossale aveva commesso perché Dio lo considerasse suo nemico e lo assaltasse come fa il vento con una foglia?

Dio stava, forse, facendogli pagare i peccati della sua gioventù, quei peccati comuni a tutti in quell’età frivola e instabile della vita? Pur ammettendo la realtà di quei peccati, non se ne era, forse, già pentito? E se Dio lo aveva perdonato, perché la sua sorte non era diversa?

Era il suo destino irreversibile? Il libero arbitrio era una realtà o un’illusione? Si compie nella nostra esistenza un fatalismo tragico? La provvidenza di Dio non schiavizza i suoi servi, ma dispone tutte le cose per portare a compimento la loro liberazione.

 

In questo modo di procedere di Giobbe viene messa in rilievo una cosa molto lodevole: il suo affanno per conoscere ciò che gli era velato. Cosciente della sua debolezza reagisce come un titano in cerca di una verità che era essenziale per la sua vita. Non cercava nessuna risposta a questioni che erano fuori dal campo della ragione o della rivelazione. Non era un curioso, avido di scoperte nel campo della teologia.

Era un uomo tormentato da un problema che influenzava radicalmente la sua relazione personale con Dio. Per questo ha fatto bene a non rassegnarsi a vivere in modo indefinito nella nebbia dell’incertezza.

Solo il credente che rivela questa inquietudine raggiunge i più alti livelli spirituali. La natura di Dio, la sua provvidenza, la sua grazia, la sua opera redentrice, l’azione del suo Spirito nell’uomo non sono mere astrazioni dottrinali, ma influenzano in modo decisivo la nostra esperienza con Dio.

Senza una chiara comprensione di questi aspetti saremo preda di confusione, scoraggiamento o indifferenza.

 

 

 

Giobbe davanti alla vita, il peccato e la morte (Giobbe 14:1-22)

 

Giobbe continua a pensare che Dio esagera nella sua ira contro di lui. Se per qualche motivo Dio doveva castigarlo, non erano sufficienti le afflizioni comuni a tutti gli esseri umani? E se in lui non c’era un peccato eccezionale, perché doveva essere eccezionale la retribuzione?

Adesso non pensa più soltanto a se stesso, ma coinvolge tutta la razza umana. L’uomo porta in sé il marchio della debolezza. La sua vita, breve come quella di un fiore, è contrassegnata da molte tristezze. Deve Dio far comparire davanti al suo trono di giudizio un essere così insignificante? Questa grande disuguaglianza tra creatura e Creatore non rende ridicolo questo confronto? Nessuno può cambiare la propria natura peccaminosa, fino a che punto, quindi, l’uomo è responsabile della sua condotta?

 

Non sempre luce e logica sono sinonimi. E’ vero che la propensione al peccato è un condizionamento morale di forza tremenda, ma questo condizionamento non è decisivo.

Il grande peccato degli uomini non si fonda sulle inclinazioni innate, ma nel fatto che si compiacciono nel cadere ad esse e resistono ad ogni influenza liberatrice (Giovanni 3:19).

L’uomo, all’interno della schiavitù morale della sua natura decaduta, ha un margine di libertà nella sua condotta e Dio giudicherà ognuno secondo l’uso fatto di questa libertà li9mitata (Romani 2:5-16). Il suo giudizio si baserà soprattutto sull’atteggiamento di ogni essere umano davanti alla rivelazione della sua verità (Giovanni 12:48).

Nel giorno del giudizio Dio saprà discernere perfettamente tra i fattori ereditari e gli atti volontari, tra le attenuanti e le aggravanti. Dio si ricorda che siamo polvere (Salmo 103:14).

 

 

 

Gli alti e bassi della fede (Giobbe 16:1-22 ; 17:1-16)

 

Ciò che adesso maggiormente tormenta Giobbe è la sua solitudine completa. Dio è suo nemico e gli uomini si scagliano contro di lui. Si trova in un ambiente ostile, ciò che aumenta il peso della prova.

La solitudine in genere è difficile da sopportare. Anche se in qualche caso costituisce una benedizione, perché facilita il nostro raccoglimento interiore e la nostra comunione con Dio, molte volte è terreno propizio per le tentazioni più pericolose.

Nella solitudine possiamo sperimentare manifestazioni ineffabili della presenza di Dio, ma anche i m omenti più terribili di dubbio, le ore di maggior depressione spirituale e l’angoscia indescrivibile di sentirsi abbandonato.

Dio, però, non è mai lontano. Anche se a volte sembra occultarsi, usa l’amarezza della nostra solitudine per fini salutari. La solitudine, unitamente alle delusioni, ci fa maturare, ci libera da una fiducia eccessiva negli uomini, dalla necessità assoluta di appoggiarci su di loro, ciò che ci espone a gravi rischi (Isaia 31:1-3 / Geremia 17:5-6) e ci sospinge sempre più vicino a Dio.

Così è avvenuto con Giobbe.

 

Giobbe ha uno slancio di fede e vede un Dio perfettamente giusto, che alla fine lo assolverà. In modo paradossale Giobbe prega Dio perché lo difenda nel contrasto con lo stesso Dio e gli dia la vittoria.

Nella vita di ogni credente possono sopraggiungere dei momenti di confusione in cui tutto può sembrare contraddittorio, in cui la provvidenza divina sembra la suprema antitesi della giustizia e della bontà.

Beato chi in questi momenti, così come ha fatto Giobbe, sa ancorare la sua fede nella perfezione degli attributi di Dio!

 

Giobbe, però, ricade nello sconforto e questa alternanza di fede e di scoraggiamento, che continuerà fino all’intervento di Dio, ci permette di apprezzare la grandezza di questo atleta spirituale così profondamente umano.

Non ci son o molto utili le esperienze di coloro che sempre vivono, o credono di vivere, in altezze imperturbabili di dolce comunione con Dio, liberi da dubbi, timori, cadute e abbattimenti.

Molto più confortante è il dramma di Giobbe con tutte le oscillazioni che il suo animo produce, ma a cui però non si arrende mai.

 

I suoi amici gli presentano un futuro prospero, se solo decide di pentirsi e confessare il suo peccato. Ma Giobbe nel suo futuro vede solo la morte. Per questo cerca chi possa proclamare la sua innocenza, una volta che sia stato messo nel sepolcro.

E’ veramente ammirevole questa ossessione di Giobbe. Non chiede la restituzione della sua salute, dei suoi beni o dei suoi figli. Desidera soltanto che non trionfi l’ingiustizia, ma che risplenda la verità, e questo non solo per rivendicare il suo onore, ma anche e soprattutto per rendere manifesta la giustizia di Dio.

Giobbe continua a dibattersi tra la costernazione e la speranza. Non cederà ai suoi amici, anche se vede aumentare le sue sofferenze, ma, al contrario, questa sua esperienza consolida la sua rettitudine.

Molti credenti, infatti, hanno consolidato la loro pietà nel mezzo della maggior oscurità spirituale, convinti che una vita priva del timor di Dio sia molto più tenebrosa, miserabile e vuota. Pur prossimi a cadere, hanno scoperto che la loro mano destra è unita a quella di Dio (Salmo 73:23).

La vita di Giobbe era stata un fallimento, i suoi piani distrutti, le sue illusioni svanite, non gli rimane altro che la morte come liberazione, ma la sua fede non soccombe.

 

 

 

Io so che il mio redentore vive (Giobbe 19:1-29)

 

Continua il suo lamento riguardo l’atteggiamento, per lui deprimente, delle persone che lo circondano. Parenti e conoscenti si allontanano da lui. I suoi servi fanno finta di non sentire la sua voce. La pesantezza del suo alito, risultato della malattia che lo consuma, tiene lontana anche la moglie. I suoi fratelli carnali rifiutano la sua compagnia. I ragazzini si burlano di lui. Tutti quelli che hanno avuto dei favori sono diventati suoi nemici e proprio nel momento in cui Giobbe ha maggior bisogno del calore della simpatia umana.

In questo momento così buio Giobbe stende la mano verso i suoi tre amici che gli sono accanto, implorando la loro pietà, ma invano. Tutti gli uomini della sua generazione si sono schierati contro di lui, però è sicuro che lem generazioni future vedranno le cose con più obiettività e gli daranno ragione.

 

Per questo chiede che le sue parole di autodifesa vengano incise sulla sua tomba.

Ma Giobbe ha subito dopo un pensiero e una convinzione più elevata: lo stesso Dio lo riabiliterà (“Io so che il mio redentore vive”).

Adesso ha la certezza: Dio sarà il suo grande Avvocato e proclamerà, dopo la sua morte, la sua innocenza. Vede un Dio che gli ritornerà amico e si commuove davanti a questa prospettiva. Questa sublime dichiarazione di Giobbe è la riapparizione di una fede comparabile a uno scoglio che viene coperto ripetutamente dalle onde, ma che riemerge ogni volta nella sua solidità.

Questa fede riposa sulla natura stessa di Dio, sulla perfezione della sua giustizia. Dio non sarebbe più Dio, se rimanesse definitivamente in silenzio di fronte alla verità e all’innocenza offese.

La rivendicazione di Giobbe è la stessa rivendicazione di Dio. Se Dio esiste ed è giusto, non possono restare impuniti i crimini commessi da persone che, invece di ricevere in questa vita la retribuzione che meritavano, godono di prosperità. Sarebbe anche inaccettabile che un giorno non prevalesse la difesa di coloro che hanno sofferto innocentemente in questo mondo.

Le ingiustizie umane non possono perpetuarsi nel tempo. La rettitudine di Dio risplenderà un giorno in modo inequivocabile.

 

 

 

Una esperienza che smentisce una teologia (Giobbe 21:1-34)

 

Perché vivono i malvagi, invecchiano e aumentano addirittura il loro potere? E’ l’enigma che ha tormentato Asaf (Salmo 73), Geremia (Geremia 12:12) e ha portato un popolo al cinismo religioso (Malachia 3:15).

Questi malvagi sfidano apertamente l’autorità divina: “Chi è l’Onnipotente perché lo serviamo? Che cosa ci guadagniamo nell’invocare il suo Nome?”

Purtroppo, però, anche tra i credenti predomina il concetto utilitaristico della fede. Si crede per quello che ci si aspetta di ricevere. L’avvicinamento a Dio è determinato dai grandi benefici della salvezza più che dall’attrazione spirituale che esercita su noi il Salvatore.

La conversione e la vita cristiana frequentemente assomigliano ad una transazione commerciale. Riflettono un atteggiamento simile a quello di Pietro quando disse: “Noi abbiamo lasciato ogni cosa e t’abbiam seguitato; che ne avremo dunque?” (Matteo 19:27).

In questi casi bisogna dare ragione al Diavolo nella sua conclusione che l’uomo non serve Dio per amore, ma per interesse. La vera pietà supera tutti i calcoli di interesse privato. I motivi per amare Dio e non offenderlo sono più alti del “cielo promesso” o del “temuto inferno”.

 

E’ proprio questo concetto utilitaristico delle relazioni tra l’uomo e il suo Signore che porta molti a ripudiare Dio. Che cosa si guadagna temendolo e ubbidendogli? Se vivendo in un cammino di iniquità senza freno l’uomo prospera ed è felice, che necessità ha di limitare la sua libertà e di preoccuparsi per le esigenze morali di una legge divina? In questo caso più si è lontani da Dio meglio è.

Dio permette che dei malvagi vivano senza provare la sofferenza, ma è anche vero che il giudizio di Dio a volte è caduto su queste persone durante la loro vita terrena, a conferma del giudizio che scatterà inesorabile dopo la morte su quanti non hanno seguito le sue leggi.

Uno di questi esempi è il faraone d’Egitto, che disse a Mosè: “Chi è l’Eterno ch’io debba ubbidire alla sua voce?” (Esodo 5:2), ma che pagò con le piaghe il suo ardire.

 

Ma il faraone rappresenta una delle poche eccezioni e Giobbe si chiede il perché di questo comportamento capriccioso di Dio. Si rende anche conto, però, quanto sia difficile giudicare la provvidenza divina.

Nella selva di fatti misteriosi, tristi e anche crudeli che il peccato ha intessuto nel mondo si muove Dio per far sì che un giorno risplenda su di esso la gloria del suo sapere e del suo amore (Giovanni 11:2-3).

Adesso conosciamo in parte, ma abbastanza per esclamare: “O profondità della ricchezza e della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto inscrutabili sono i suoi giudizi, e incomprensibili le sue vie! Poiché: chi ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi è stato il suo consigliere? O chi gli ha dato per il primo, e gli sarà contraccambiato? Poiché da Lui, per mezzo di Lui e per Lui son tutte le cose. A Lui sia la gloria in eterno. Amen” (Romani 11:33-36).

 

Giobbe torna a fissare il suo sguardo sulla disuguaglianza umana tanto nella vita come nella morte. Mentre alcuni giungono alla fine dei loro giorni pieni di felicità, altri muoiono consumati nell’amarezza che li ha accompagnati durante tutta la loro vita.

Il malvagio, inoltre, non gode soltanto del benessere, ma anche di una buona reputazione. Nessuno osa rimproverargli le sue malvagità. Se non è amato, almeno è temuto, mantiene una posizione di onore mondano durante tutta la sua vita e nella sua morte è circondato dalla massima pompa.

Così come i suoi tre amici, anche Giobbe probabilmente era assertore della dottrina che i malvagi avrebbero ricevuto la loro giusta retribuzione sulla terra, ma desso le sue terribili circostanze hanno sconvolto la sua credenza. Stava scoprendo che non sempre la pietà e la prosperità o la malvagità e la sofferenza si trovano in una relazione causa-effetto. La teoria veniva contraddetta dai fatti.

 

E’ povera e imperfetta la fede che si basa su elementi tradizionali piuttosto che biblici, sfuggendo ogni confronto con i problemi che il contatto con il mondo ci offre.

La fede matura si rende conto che ci sono misteri che devono essere riconosciuti, anche se non possono essere spiegati, e che ci sono degli interrogativi per i quali in questo mondo probabilmente non c’è risposta. Malgrado tutto, però, la fede rimane.

Il quadro del peccatore che trionfa stava tentando fortemente Giobbe, ma malgrado ciò il patriarca non cede.

Avere una fede robusta non significa vedere tutto con chiarezza, ma perseverare e non cedere malgrado situazioni oscure. Alcune nubi non possono estinguere lo splendore della realtà suprema: Dio nella gloria della sua sapienza, del suo amore e della sua giustizia.

 

 

 

Il Dio che si occulta e tace (Giobbe 23:1-17 ; 24:1-25)

 

Il patriarca si sforza per reprimere la sua voce di protesta, ma non riesce a dominare l’agitazione del suo spirito. Non può, né vuole,sottomettersi all’idea che Dio lo stia castigando così gravemente, perché gravi sono i peccati che ha commesso.

Aumenta il desiderio di comparire davanti a Dio per esporre gli argomenti della sua difesa. E’ sicuro che il risultato finale sarebbe una sentenza assolutoria definitiva. Il suo desiderio, però, rimane frustrato.

Giobbe cerca Dio, ma non lo trova in nessun posto. Dio sembra nascondersi, sembra voler rifiutare l’incontro con il suo servo probabilmente perché si era reso conto che aveva ragione. Infatti lui pensava: “Se mi mettesse alla prova, ne uscirei come l’oro”.

 

Ma un altro pensiero assale Giobbe: la sovranità di Dio. Valeva la pena sforzarsi di trovare l’Onnipotente, se questi aveva deciso di distruggerlo? Chi avrebbe potuto farlo desistere da una sua decisione?

Giobbe è ancora persuaso che Dio sia diventato suo avversario ed è invaso da un profondo terrore. Quanti di noi, così come il patriarca, hanno voluto cercare Dio senza sapere dove trovarlo o, avendolo trovato, si sono sentiti profondamente confusi davanti ai misteri della sua sovranità.

Oggi abbiamo delle risposte per calmare queste inquietudini, anche se è vero che tutti gli sforzi umani per trovare Dio sono inutili. La sua trascendenza divina, infatti, lo colloca molto al di sopra della nostra comprensione umana e poi bisogna anche ricordare che la nostra capacità di discernimento spirituale è seriamente deteriorata dal peccato.

 

L’uomo da solo non può trovare altro che un Dio astratto, frutto di nostre filosofie, o grossolanamente degradato (Romani 1:21-23), ciò che ci fa essere dei puri idolatri.

L’uomo può conoscere Dio soltanto se Lui gli si rivela e illumina la sua mente ottenebrata. L’abisso che ci separa da Dio può essere colmato soltanto da Dio stesso (Gesù è il ponte che unisce le due sponde).

Gesù è la rivelazione di Dio, “lo splendore della sua gloria e l’impronta della sua essenza” (Ebrei 1:3). “Nessuno ha mai veduto Iddio; l’unigenito Figliolo, che è nel seno del Padre, è quel che l’ha fatto conoscere” (Giovanni 1:18). Gesù è la via d’accesso al Padre (Giovanni 14:6) e in Lui trova Dio chiunque lo cerchi veramente (Giovanni 14:8-9).

 

Riguardo poi alla sovranità di Dio, possiamo stare tranquilli. Non c’è mai una separazione tra il suo esercizio del potere e la giustizia più perfetta.

Quando la mente umana cerca da sola di scalare le vette della predestinazione, corre il rischio di farci fare degli scivoloni fatali. Nella Bibbia, però, tutto quello che vien detto sui proponimenti di Dio e dell’azione della sua sovranità, lungi dall’ispirarci terrore, ci infonde coraggio e consolazione.

La sua sovranità non agisce separatamente dai suoi attributi divini, ma è la sovranità di un Dio infinitamente saggio, giusto e misericordioso. Dio può farci passare per momenti bui, ma Lui stesso ci guida (Lamentazioni 3:1).

Tutti i dubbi riguardo la provvidenza divina troveranno piena risposta nello splendore di una salvezza ineffabile. E’ questo il caso di Giobbe.

 

E’ Dio indifferente alle ingiustizie umane?

 

Se Dio è giusto, perché non lo dimostra? Perché non rende ben visibile l’esercizio della sua giustizia? Perché non stabilisce dei giorni in cui giudicare gli iniqui? Se Dio è giusto, così pensa Giobbe, la sua giustizia è invisibile e incomprensibile.

Giobbe adesso non fissa la sua attenzione sui malvagi che godono dei loro privilegi, ma sui poveri che soffrono, non a causa dei loro peccati, ma come conseguenza della perversità degli uomini.

I poveri, indifesi, devono condurre una vita miserabile e vengono oppressi dai più forti. Innalzano lamenti, ma nessuno risponde e lo stesso Dio non sembra preoccuparsi delle loro lamentele. E’ forse cieco, sordo o insensibile?

Giobbe non vede in tutto ciò un problema sociale, ma piuttosto un problema religioso. Per quanto potesse indignarlo il fatto in sé dell’ingiustizia, ciò che più lo inquietava era la passività di Dio, il suo atteggiamento permissivo di fronte al trionfo della tirannia.

Ci sono, poi, i “ribelli alla luce” (assassini, ladri, adulteri) che non solo non ricevono la giusta retribuzione delle loro nefandezze, ma addirittura prosperano e soddisfano le loro ambizioni. E Dio non interviene.

Anch’essi muoiono, ma muoiono come tutti gli altri sotto il peso degli anni.

 

I fatti sono certi, ma errate le conclusioni. La capacità di giudizio di Giobbe appare molto limitata. Non vede altra spiegazione alle grandi ingiustizie sociali che l’arbitrarietà o l’indifferenza di Dio, spiegazione che a lui stesso in fondo risultava inammissibile.

No, Dio non è mai stato insensibile all’ingiustizia sociale (vedi profeti dell’A.T. e Gesù). La storia della Chiesa manifesta questo interesse sociale di Dio, perché i grandi risvegli hanno sempre originato forti movimenti di promozione sociale.

Anche se adesso Dio tace, il suo silenzio non sarà eterno (Salmo 50:21). Il giorno del giudizio universale si vedrà che nessun uomo può burlarsi di Dio e che il destino di ogni essere umano sarà determinato dal suo comportamento nei confronti di Dio e del suo prossimo.

La pazienza di Dio è al di sopra delle provocazioni degli uomini (2 Pietro 3:9) e ha come meta la loro conversione (Romani 2:2-4). 

 

 

 

L’universo proclama la gloria di Dio (Giobbe 26:5-14)

 

Giobbe è sensibile alla magnificenza di Dio e ne canta le lodi. Sa che la sua vera magnificenza è molto al di sopra della comprensione umana e vede l’immensa distanza esistente tra l’uomo e Dio.

Il suo problema non si basa sull’illimitatezza del suo potere, o sulla sua sovranità, ma sull’uso della sua giustizia. Il meraviglioso libro della creazione lo ispira, ma non gli offre risposta alle sue domande. In tutti i tempi le opere visibili di Dio hanno dato testimonianza del suo potere eterno e della sua divinità (Romani 1:20), ma l’universo rimane muto quando l’uomo apre degli interrogativi sul carattere morale di Dio.

Nulla ci chiarifica i misteri della sua provvidenza, nulla ci rivela i proponimenti della sua grazia. La rivelazione di Cristo ha permesso agli uomini di conoscere, oltre al suo potere ineguagliabile, l’amore infinito del suo cuore.

 

 

 

La risposta di Dio (Giobbe 38 ; 39 ; 40 ; 41)

 

Giunge il momento del grande incontro. Quanto è diverso, però, da quello che Giobbe si era immaginato! Giobbe si aspettava una spiegazione del governo morale del mondo e Dio gli parla dei misteri della natura; aspettava una risposta alle sue domande e Dio non risponde a nessuna di esse.

A molti il discorso di Dio potrebbe sembrare deludente e addirittura incomprensibile. Non è una ripetizione più ampia di quello che Giobbe stesso aveva espresso riguardo la grandezza e la sovranità di Dio nei vasti domini della sua creazione?

 

La risposta di Dio consta di due parti. Nella prima enfatizza le meraviglie della natura in modo tale che Giobbe si sente umiliato e confessa la sua incapacità di rispondere.

I fatti e i fenomeni che Dio fa sfilare come un film davanti alla mente del patriarca non sono per lui nulla di nuovo o di sconosciuto, ma il modo come gli vengono presentati lo portano a riflettere e a vederli come nuovi.

Già le parole introduttive di Dio risuonano nella coscienza di Giobbe: “Chi è costui che oscura i miei disegni con parole prive di senno?” (Giobbe 38:2). Giobbe aveva fatto di sé il centro non solo della sua vita, ma dell’universo. La rivendicazione della sua innocenza era per lui la cosa più importante. Lo stesso Dio doveva sottomettersi alle sue richieste di giustizia e rispondere alle sue domande.

E Dio, invece di rispondergli, aumenta gli interrogativi: “Chi sei tu?”, “Dov’eri tu?”, Puoi tu?”, “Sai tu?”. Dio vuole salvare Giobbe dalla sua introspezione che gli impediva di vedere le cose nella prospettiva corretta. Non usa, però, il metodo della spiegazione e non gli dice nulla sul perché delle sue disgrazie, avendo lo scopo di curare il suo servo dalla presunzione, anche se in buona fede.

 

A questo scopo mette allo scoperto la vera identità dell’uomo con il suo cumulo di misteri e limitazioni. La nostra essenza e la nostra esistenza presentano tanti aspetti inesplicabili, come potremo quindi comprendere totalmente e perfettamente Dio?

Oltre poi al suo aspetto enigmatico, l’uomo unisce la sua insignificanza nel tempo e nello spazio, la sua debolezza e la sua ignoranza.

Che pretese può accampare l’uomo davanti a Dio? Chi può ritenersi abbastanza valoroso per contendere con Dio?

Giobbe aveva seriamente dubitato della rettitudine di Dio, adesso era arrivato il momento di dubitare di se stesso.

Nello stesso tempo Dio, invece di chiarire ciò che per Giobbe era indecifrabile, allarga il campo dell’ignoto e aggiunge nuovi elementi di perplessità. Non solo Giobbe era incapace di comprendere la formidabile architettura dell’universo o il segreto dei fenomeno naturali, ma anche altri fatti, a lui più familiari, sfuggivano alla sua comprensione, soprattutto perché una buona parte di essi sembravano anomalie improprie di un mondo saggiamente ordinato e retto da Dio.

Perché piove sul deserto dove non c’è anima viva, perché Dio si prende cura di animali feroci come il leone, perché esistono animali inutili e stupidi o rapaci e sanguinari?

Dio non voleva spiegare a Giobbe i misteri del mondo, ma al contrario voleva portarlo a riconoscere che il mondo ha molte cose strane e inspiegabili per l’uomo, così che la provvidenza divina può risultare molto più complicata di quanto potesse sospettare.

D’altro canto questo modo di procedere di Dio avrebbe dovuto aiutare Giobbe a riconoscere che gli orizzonti di Dio, libero e sovrano, sono molto più dilatati di quelli degli uomini.

 

Nella seconda parte del suo intervento Dio conduce il suo servo dal piano fisico dell’universo a quello morale. Vuole convincere Giobbe dell’assurdità delle sue critiche riguardo il governo divino del mondo.

Dio si rivolge a Giobbe in questi termini: “Invaliderai tu il mio giudizio? Condannerai me per giustificare te?” Osare giudicare e persino condannare Dio, significa essere praticamente uguale a Lui. E Giobbe non lo era.

“Hai tu un braccio come quello di Dio? Tuona la tua voce come la sua?” Con fine ironia Giobbe viene invitato a occupare il luogo di Dio e che sia lui a governare, a umiliare i superbi e gli empi, a distruggere e a destituire gli agenti del male.

Solo in questo caso potrebbe dar credito alle sue pretese di appartenere al rango divino.

 

Ma se Giobbe non era in grado di imporsi a due bestie come il coccodrillo e l’ippopotamo, simboli di superbia e di forza, come avrebbe potuto trionfare sulle forze imponenti del male scatenate sulla terra?

E se non era in grado di affrontare questa lotta, come osava censurare il Creatore nel modo di amministrare la giustizia? Se era così evidente la sua inferiorità fisica rispetto a certi animali, come poteva competere moralmente con il Supremo Creatore? Poteva rinchiudere Dio nel suo concetto umano della rettitudine morale? Poteva, forse, concepire tutte le ragioni che ispirano le decisioni del Governatore dell’universo?

Se Giobbe pensava che alla fine Dio gli si sarebbe arreso, come se lui fosse l’autentico re della giustizia, rivelava una ingenuità puerile. La sua speranza era molto più assurda che pretendere di obbligare il coccodrillo a fare un patto con lui per essere suo servo in perpetuo o per lasciarsi incatenare e poter giocare con lui come fosse un uccellino. Giobbe stava sognando, doveva svegliarsi!

 

 

 

La ritrattazione di Giobbe (Giobbe 42:1-6)

 

Dopo aver ascoltato Dio, Giobbe non ha più luce sugli enigmi morali di quanta ne avesse prima. Lo stesso vale per la sofferenza che colpisce i giusti. I suoi problemi rimangono irrisolti, la sua sofferenza continua, è ancora invalido e disprezzato nella sua solitudine.

Giobbe, però, è adesso tutta un’altra persona. Le sue parole hanno accenti gioiosi di liberazione. Colui che era ribelle si è trasformato in un adoratore.

Che cosa è successo? Dio ha detto a Giobbe quello che lui aveva bisogno di ascoltare e lo ha convinto. Era chiaramente una cosa assurda che un uomo cercasse di discutere con Dio e mettesse in dubbio la rettitudine delle sue opere.

Il Dio che ha fatto cose così meravigliose, e a volte anche incomprensibili, come quelle presentate a Giobbe, non poteva essere soltanto un Dio di potere, ma doveva essere un Dio perfetto in tutti i suoi attributi. La sua onnipotenza va di pari passo con le sue regole morali.

 

La natura di Dio non è un segmento, ma un cerchio: qualsiasi attributo divino implica gli altri. L’onnipotenza, quindi, non può esistere separata dalla giustizia.

Se anche quello che in natura sembrava senza senso era glorioso, non potevano esserci elementi di gloria, per lui incomprensibili, in una sofferenza immeritata che Dio nella sua sapienza aveva permesso?

Questa verità penetra nella sua mente come un raggio di luce e subito confessa la sua insensatezza. Giobbe non si arrende adesso a Dio per la sua incapacità di competere con un essere infinitamente superiore a lui, ma per una profonda convinzione interiore.

Giobbe riconosce la sovranità di Dio, ma non la vede più in modo isolato come prima, bensì in armonia con la Sua dignità. Capisce che Dio non prende mai decisioni arbitrarie e ne viene consolato.

Ammette i suoi grandi limiti per discutere con Dio e riconosce di aver osato tanto per ignoranza. Si umilia e si pente della sua irriverenza. La conoscenza che Giobbe aveva prima di Dio non era falsa, ma era una conoscenza indiretta e incompleta.

Adesso conosce Dio in un modo nuovo. Ha sperimentato la sua presenza e ha ascoltato la sua voce.

La conoscenza, ampliata e depurata, è diventata adesso una profonda esperienza vissuta. Dio è diventato la più gloriosa delle realtà.

 

Il patriarca ha contemplato le immagini affascinanti della natura che gli sono state presentate, ma non sono queste che lo hanno impressionato, bensì lo stesso Dio. I suoi occhi vedono Dio e anche se i suoi problemi teologici non sono stati risolti, non è preoccupato, perché Dio valeva molto di più di tutte le risposte.

Molti conoscono Dio per averne sentito parlare, ma quello che conta è fare una autentica esperienza di Dio.

Alcuni cristiani, insoddisfatti con il livello spirituale raggiunto, si sono purtroppo uniti a movimenti che esaltano smisuratamente l’aspetto sentimentale della fede, trascurandone altri non meno importanti come quello di una mente biblicamente equilibrata o quello di un’etica sostenuta dalla Parola di Dio.

Ben più negativo, però, è accontentarsi di alimentarsi con concetti teologici, per quanto siano ortodossi. Non è sufficiente la lettera della Parola, ci serve il soffio dello Spirito. Dobbiamo sperimentare la presenza di Dio, sentire dentro di noi la sua forza vivificante.

 

Non tutti siamo chiamati, comunque, allo stesso tipo di esperienza. Dio deciderà secondo la misura della sua sapienza. Nella maggior parte dei casi non ci sarà nulla di sensazionale. La cosa più probabile è che Dio non ci parlerà come ha fatto con Giobbe o con Paolo, ma è possibile che ci parli nei momenti di tormenta nella nostra vita, nell’ora critica dei nostri dubbi, delle nostre frustrazioni, delle nostre amarezze o del nostro totale abbattimento.

Può anche succedere, però, che Dio ci parli nelle ore soavi di pace, in un culto indimenticabile, in un’ora di solitaria meditazione, in una conversazione illuminante o durante le nostre occupazioni abituali.

Queste esperienze comunicano vitalità alla conoscenza della verità di Dio e arricchiscono la fede. Bisogna evitare, però, un errore molto frequente: quello di confondere gli aspetti emotivi di queste speciali esperienze con l’essenza delle stesse.

La cosa importante è che il credente giunga ad una comprensione molto più chiara, profonda e vivificante di Dio.