IL CRISTIANO E’ UNA PERSONA SPECIALE

 

 

Possiamo avere un buon concetto di noi stessi

 

Le persone che hanno un buon concetto di se stesse vivono in pace con la propria persona e con quelle che le stanno intorno. Sono, quindi, più creative, più attive socialmente e più fiduciose di quelle che hanno un concetto di sé piuttosto negativo.

Il mormorio, di attacchi di malumore, la critica, le lamentele costanti sono varianti dell’ira e procedono dalla mancanza di accettazione di se stessi.

Se viviamo in pace con noi stessi ci è più facile convivere con gli altri e dar loro il valore che meritano come persone. Possiamo essere franchi, sinceri e aperti.

Se, però, ci detestiamo, ciò che faremo è di portare all’esterno l’autocritica e cioè, troveremo errori negli altri per difendere noi stessi. Finché troveremo dei difetti negli altri possiamo sentirci protetti dal disprezzo che sentiamo per noi stessi.

 

La gelosia è mancanza di fiducia nell’amore di altri nei nostri confronti, perché non disponiamo di una sufficiente autoaccettazione.

Possiamo avere un buon concetto di noi stessi senza sentirci colpevoli o dover dimostrare costantemente agli altri il nostro valore (per sentirci accettati).

Chi si accetta non dovrà mostrare un perfezionismo neurotico, prodotto dalla paura che gli altri possano vedere degli aspetti negativi nella sua persona.

Chi ha avuto dei genitori perfezionisti e impeccabili può vivere confrontandosi continuamente con loro e trovarsi mancante, con gravi turbe psichiche e disprezzo di se stesso nel vedersi inferiore al loro livello.

 

Quando non abbiamo un senso di valore personale sufficiente, viviamo in costante tensione e riveliamo una notevole sensibilità. Il minimo suggerimento del coniuge, per esempio, ci può sembrare una critica acerba, un rimprovero immeritato e inopportuno.

Quando, poi, c’è una differenza di opinioni, ci lanciamo a difendere il nostro punto di vista con accanimento per poter puntellare la nostra precaria autostima. Diventiamo nervosi, irritabili, depressi e non riusciamo più a comunicare in modo costruttivo. La discussione cessa di essere un dialogo e diventa un’arringa per dimostrare che abbiamo ragione. Non c’è più partecipazione nelle idee e sentimenti.

 

La Bibbia ci insegna chiaramente che dobbiamo amare noi stessi, perché siamo creati all’immagine di Dio. Come creature abbiamo valore e per dimostrarlo Cristo è morto per noi.

L’umiltà e la abnegazione biblica non contraddicono il concetto di valore personale (vedi Salmo 8:5 e Apocalisse 22:1-5).

Siamo, quindi, immagine e somiglianza di Dio: abbiamo una grande capacità intellettuale; possiamo accumulare immense quantità di conoscenza e usarla per prendere delle decisioni complesse; possiamo fare dei progetti, prevederne i risultati e prendere decisioni importanti che influenzano il nostro futuro; possiamo esprimerci per mezzo del linguaggio e abbiamo una capacità creativa immensa; abbiamo libero arbitrio; possiamo esplorare la natura, fare delle invenzioni e creare opere d’arte; possiamo usare i nostri talenti per il bene dell’umanità; ma soprattutto abbiamo una natura morale, che ci permette di considerare questioni di indole spirituale e morale.

 

Non abbiamo perso, però, tutto il nostro valore in seguito al peccato? Il peccato corrompe grandemente le nostre vite e offusca l’immagine di Dio in noi, ma non la cancella.

Sappiamo ancora discernere tra il bene e il male, abbiamo ancora una capacità intellettuale, siamo in grado di fare delle scelte e abbiamo ancora il potere di comunicare e creare. Verremo restaurati per completo nell’eternità.

Anche il Nuovo Testamento riconosce l’immagine di Dio nell’uomo (Giacomo 3:8-10 / 1 Corinzi 11:7).

Il nostro valore ci è confermato dal fatto che Cristo ha dato la sua vita per noi (1 Pietro 1:18-19), che ci vengono affidati degli angeli custodi (Salmo 90:11-12 / Daniele 6:12 / Matteo 4:11 ; 18:1-10 / Ebrei 1:14) e che c i è stata preparata una dimora eterna in Cielo (Giovanni 14:1-3).

Cristo, durante la sua vita terrena, ha espresso con una certa frequenza il concetto del valore dell’uomo davanti agli occhi di Dio (Matteo 5:13-14 ; 6:269. Cristo, poco prima della sua passione, anche se oppresso da tristezza mortale, rivolge al Padre parole di sostegno per noi (Giovanni 17:9-11,22-23).

 

 

Valor proprio e orgoglio

 

Tutti conosciamo delle persone con un grande “Ego”. Possono essere arroganti e insopportabili, o possono dare semplicemente l’impressione di essere un po’ migliori di tutti gli altri.

Questa superiorità può riferirsi a questioni finanziarie, posizione professionale, stato sociale, capacità, aspetto fisico e persino riguardo a esperienza e responsabilità cristiana. Molti sono orgogliosi di essere umili.

Il senso di superiorità non fa sentire gli altri a loro agio, infatti crea sentimenti di inferiorità e ansia, con risvolti di rabbia e risentimento. Il sentirsi superiore non ha nulla a che fare con il concetto di stima propria.

In genere, poi, queste persone vivono costruendo una falsa immagine di se stessi per nascondere le loro debolezze.

La parola “superiorità” è esattamente ciò che la Bibbia definisce come orgoglio (1 Corinzi 4:6,18-19 ; 8:1 ; 13:4) La parola greca per orgoglio significa “gonfiato” o “vano” e comunica un senso di arroganza nei confronti degli altri.

Questo elevarsi al di sopra degli altri è in opposizione al concetto biblico di umiltà (1 Corinzi 13:4).

 

Non dobbiamo confondere la volontà ostinata con l’amor proprio o la stima di se stessi. La persona veramente sicura ha fiducia in se stessa e non ha ragione per imporre sempre la sua volontà. Può essere sensibile e flessibile, adattandosi alle necessità e ai sentimenti di coloro che la circondano (Tito 1:7-9). Le persone che hanno un buon concetto di se stesse sono ferme e comunicano i loro punti di vista senza necessità di insistere ostinatamente, perché le cose vadano come loro dicono.

 

Tutti i bambini passano per una fase in cui amano solamente se stessi. Ciò è dovuto al fatto che si vedono circondati da persone che si preoccupano continuamente per loro: se sono sporchi, c’è chi li pulisce, se hanno fame, c’è chi li alimenta e se hanno sete, c’è chi dà loro da bere. Il mondo intero si muove intorno ai loro bisogni.

Non sono ancora coscienti di un mondo esteriore che li circonda e percepiscono la realtà come una massa di sensazioni di cui loro sono il centro. Ci sono purtroppo delle persone che non superano mai questo stadio della vita.

 

C’è poi chi vive una vita talmente centrata su se stesso da escludere ogni altra persona o da usarla per ottenere soddisfazioni egoiste. Quando le cose non vanno nella direzione da loro desiderata, si sentono frastornati, feriti e adirati.

C’è anche chi si mantiene costantemente in prima fila per attirare su di sé l’attenzione degli altri. Si può anche usare la religione per soddisfare le proprie necessità egoiste, infatti c’è chi, col pretesto di essere un fedele testimone di Cristo, predica cercando attenzione e ammirazione (Filippesi 1:16-17). Tutti segni questi di immaturità.

 

Così come Dio ha usato persone differenti con doni diversi, usa anche noi in un modo speciale. Siamo stati tutti creati con una personalità speciale e unica, e con talenti particolari.

Riconosciamo, allora, che questo essere unici davanti a dio è la fonte della nostra autostima. Siamo stati scelti per compiere un aspetto del suo ministero e, quindi, non dobbiamo entrare in competitività con altri per dimostrare il nostro valore.

 

Il libro di Geremia ci offre una eccellente descrizione del peccato d’orgoglio e ci aiuta a identificare la differenza tra l’amor proprio e l’orgoglio peccaminoso.

I discendenti di Moab, nati dalla relazione incestuosa di Lot con la figlia maggiore, erano diventati dei peccatori incalliti e Dio incaricò il profeta Geremia di portar loro l’annuncio del castigo.

Geremia ubbidì e nel suo libro enumera tre aspetti di questo orgoglio peccaminoso:

“Poiché, siccome ti sei confidato nelle tue opere e nei tuoi tesori, anche tu sarai preso” (48:7)

“Inebriatelo, poich’egli s’è innalzato contro l’Eterno, e si rotoli Moab nel suo vomito, e diventi anch’egli un oggetto di scherno!” (48:26)

“Israele non è egli stato per te un oggetto di scherno? Era egli forse stato trovato fra i ladri, che ogni volta che parli di lui tu scuoti il capo?” (48:27)

Geremia, poi, compendia in una frase il peccato principale di questo popolo: “Noi abbiamo udito l’orgoglio di Moab, l’orgogliosissimo popolo, la sua arroganza, la sua superbia, la sua fierezza, l’alterigia del suo cuore” (48:29).

L’orgoglio dei Moabiti implicava tre attitudini peccaminose:

- Fiducia nei propri beni e tesori

- L’essersi innalzati contro Dio

- Scherno nei confronti di Israele.

 

Anche nelle nostre vite l’orgoglio assume questa triplice attitudine:

- L’autosufficienza

La persona pensa di poter confidare interamente in se stessa, nei propri beni, talenti e successi ottenuti.

- Arroganza verso Dio

Basandosi sulla valutazione eccessiva delle proprie capacità, la persona orgogliosa nega di aver bisogno di Dio. Per lei Dio non è altro che una stampella di cui necessitano le persone deboli, costrette ad ammettere il loro fallimento.

- Posizione di scherno verso gli altri

Così come i Moabiti, la persona orgogliosa sminuisce l’importanza e il significato degli altri.

 

L’orgoglio eleva una persona al di sopra degli altri, ma l’autostima che ci offre la Bibbia vede tutti gli uomini uguali. L’orgoglio è ostinato e vuole imporre la sua volontà sugli altri, ma l’autostima, di cui la Parola di Dio parla, porta l’uomo alla partecipazione, alla comunicazione e alla flessibilità. L’orgoglio colloca il proprio “Ego” al centro dell’universo, ma l’autostima, che deve avere l’uomo biblico, lo porta a mettere Dio nel centro e a riconoscere che siamo l’oggetto del suo amore.

L’autostima che la Bibbia vuole inculcarci non è, quindi:

- Senso di superiorità

- Imposizione della propria volontà

- Egocentrismo

ma:

- Coscienza di essere un membro importante della creazione di Dio

- Coscienza di essere portatori dell’immagine di Dio

- Coscienza di essere oggetto dell’amore di Dio.

 

 

L’umiltà

 

Molti confondono l’umiltà con l’inferiorità. Per queste persone l’umiltà è considerarsi di meno valore o meno capaci degli altri. Questa è la ragione per cui cercano di svalorizzarsi continuamente, pensando, così, di ottenere la vittoria nella vita cristiana. Credono che, se possono annullare ogni loro capacità o desiderio, Dio entrerà nella loro vita e si farà carico di tutto.

Chi legge Filippesi 2:3 può cadere nell’errata concezione citata prima, ma, considerando tutto il contesto (Filippesi 2:2-9), emerge che Paolo voleva mettere in guardia quei fratelli dal pericolo dell’orgoglio. Dice, infatti:

- di avere un medesimo pensare, cioè di avere la stessa opinione

- di avere un medesimo amore

- di essere di un animo solo

- di avere un unico sentimento.

Poi menziona le attitudini che possono far naufragare questa unità, e cioè l’egoismo e la vanagloria.

 

Cristo è il nostro esempio e la sua umiltà, che dovrebbe da noi venir imitata, presenta quattro ingredienti:

- Aveva una elevata posizione

- Assunse una bassa posizione nel servizio, ma elevata nel suo valore

- Fu ubbidiente fino alla morte

- Fu innalzato dopo la sua morte

Cristo non si vide mai come inferiore o privo di valore agli occhi degli altri uomini. Vedeva se stesso come portatore dell’immagine di Dio e sapeva bene qual era il suo valore e la sua identità. E proprio grazie a questa identità non ebbe il bisogno di ostentare i suoi punti forti, ma era libero di mettere da parte i suoi interessi personali in favore di quelli degli altri.

Come Cristo anche noi:

- Abbiamo un’elevata posizione per essere figli di Dio e portatori della sua immagine

- Possiamo assumere una posizione più bassa servendo gli altri, ma elevata nel suo valore

- Possiamo essere ubbidienti a dio fino alla morte

- Verremo innalzati quando regneremo con Lui per sempre.

 

Quando Paolo ci dice di stimare gli altri superiori a noi stessi, non intende con ciò farci sentire inferiori, ma ci sospinge, come persone che hanno una identità, a concentrarci sulle necessità degli altri e sul modo di portar loro ausilio.

La scheggia di cui parla l’apostolo in 1 Corinzi 12:7 non gli fu data perché si rendesse conto di non avere né talenti, né capacità particolari, ma semplicemente per non inorgoglirsi e sentirsi superiore agli altri.

E’ diffuso il concetto che la persona umile deve essere affettuosa, amabile, quieta, modesta e senza pretese, scartando caratteristiche come la decisione, il coraggio, l’intelligenza, l’entusiasmo o l’ambizione.

Ancora una volta Cristo è il nostro esempio. Quando fu necessario mostrò fermezza, coraggio, audacia e anche ira (Matteo 21:12-13). Mostrò anche la sua energia nell’accettare volontariamente i grandi dolori e insulti mentre era sulla croce (Matteo 27:40). Permise alla gente di burlarsi di lui e di sputargli in faccia, la forma più grave di umiliazione, ma non lo fece per debolezza, come se avesse paura o non avesse il coraggio di replicare, anzi avrebbe potuto distruggerli tutti, ma accettò di pendere da quella croce a causa del suo amore per noi.

No, l’umiltà non è passività. La persona veramente umile ha fiducia nella sua forza e nei suoi diritti. Con la sua fermezza può scegliere una posizione di servizio o di sofferenza, se lo vede necessario. Data la sua forza interiore può decidere di combattere risolutamente il male.

 

L’umiltà è il riconoscimento della nostra necessità di Dio. Per mezzo di Mosè Dio ricorda agli Israeliti il proponimento del loro pellegrinaggio nel deserto (Deuteronomio 8:2-4,6-8,11-14). Il deserto doveva insegnar loro a dipendere da Dio e ad imparare l’umiltà personale e come nazione.

In modo similare Dio vuole che riconosciamo la nostra necessità di Lui. Vuole che riconosciamo che ci ha creati, che ci ha fatti simili a Lui e che dobbiamo dipendere dalla sua persona per godere di una vita piena e significativa.

Riconoscere il nostro posto nella creazione di Dio è essenziale per l’umiltà. Dio è il Creatore e noi le creature. Dio è il personaggio centrale e noi le comparse. Anche se siamo in grado di fare molte cose, non possiamo funzionare in modo efficace senza ammettere la nostra necessità di Lui.

 

Una volta stabilito che abbiamo valore perché siamo creature di Dio, possiamo incominciare a valutare in un modo realistico la nostra forza e i nostri limiti. Ognuno di noi ha dei talenti e dei doni, ma non per innalzarsi al di sopra degli altri (Romani 12:3). Siamo un corpo e membri gli uni degli altri, per cui dobbiamo operare tutti uniti in amore per il bene comune (1 Corinzi 12).

Mentre nel mondo la forza, il potere e la ricchezza rappresentano la gerarchia più alta, nel regno di Dio il maggiore è colui che serve in amore (Luca 22:25-26).

Lavando i piedi ai suoi discepoli, Cristo mostrò loro un altro aspetto dell’umiltà, e cioè la volontà di servire. Questo servizio è il risultato della forza interiore più che della debolezza.

C’è chi serve perché non si ritiene capace di fare altro, ma questa non è umiltà. Gesù non accettò passivamente la croce, come se si sentisse  il cristiano più indegno o indesiderabile, ma, cosciente della sua identità davanti a Dio, si fece servo e ubbidiente fino alla morte.

 

L’umiltà, quindi, non è:

- Inferiorità

- Scarsa stima delle proprie capacità

- Detestare se stesso

- Passività

ma:

- Un’equilibrata autostima

- Una valutazione realistica delle proprie capacità

- Riconoscimento della necessità di Dio

- Disponibilità a servire il prossimo.

 

 

Il nostro Ego ideale

 

Così come assorbiamo gli ideali dei nostri genitori, assorbiamo anche i loro metodi di disciplina. Se i genitori attaccano la nostra autostima per non essere stati capaci di raggiungere i loro ideali, anche il bambino impara a disprezzarsi quando commette errori simili. Questa è la maggior causa che ci impedisce di essere soddisfatti con noi stessi.

I genitori possono trasmettere questi messaggi negativi:

- Castigare il bambino fisicamente o in un altro modo

- Svergognarlo o abbassarne il valore dicendo: “Che vergogna! Che stupido!”

- Adirarsi e respingere il bambino in un modo più o meno sottile

- Criticare il bambino direttamente confrontandolo con altri

Questi quattro metodi usati dai genitori sono la fonte primaria della nostra incapacità di accettarci poi nella vita.

 

Castigo

Al bambino vien detto: “Siccome hai fatto questo, devi essere castigato”. Il bambino, quindi, quando non raggiunge il livello desiderato dai genitori si aspetta il castigo. Questa realtà produce innumerevoli sentimenti neurotici di colpa.

Da adulti, quando non raggiungiamo le mete che ci eravamo prefissi, ci infliggiamo da soli quel castigo che era previsto da parte dei genitori. Siamo assaliti da un senso di indegnità e dalla sensazione che ci capiterà qualcosa di male. Ci diciamo: “Che stupido sono stato…sono un fallimento…pagherò adesso una volta per tutte”.

 

Autodisprezzo

Spesso il bambino si sente dire dai genitori: “Vergognati!... E’ questo quello che ti abbiamo insegnato?...Guarda che figura ci hai fatto fare!...Dopo tutto quello che abbiamo fatto per te!”

Questi commenti e gli atteggiamenti che ne derivano, minano l’autostima del bambino e lo preparano per l’incapacità di accettarsi.

 

Rigetto

Tutti siamo stati l’oggetto della rabbia da parte di una persona cara. Persone, che abbiamo ammirato, hanno reagito con indignazione e contrarietà di fronte a una nostra azione, invece di manifestare preoccupazione affettuosa. Le loro parole dure o i loro sguardi adirati ci hanno lasciato ben chiaro nel nostro cuore il sentimento di rigetto.

Sotto certe condizioni i genitori possono aver anche detto: “Vattene via da me!...Non voglio vederti più!”

Quello che emerge da tutte queste situazioni è la sensazione di non essere amati quando non ci si comporta come gli altri si aspettano da noi.

 

Critica

Un’altra risposta frequente dei genitori di fronte ai comportamenti non corretti dei figli è la critica. Una parola di critica non è compensata da 99 parole di lode. Nel tempo ci si ricorda più facilmente delle critiche che delle lodi.

La critica distrugge la fiducia in noi stessi e l’autostima. I miglioramenti si ottengono più facilmente usando stimolo, incoraggiamento, appoggio ed esempio positivo.

 

Correggere con amore

I genitori possono:

- Non far caso agli errori dei figli e lasciare che affrontino le conseguenze delle loro azioni

- Correggere con amore e aiutare i figli a maturare e acquistare fiducia in se stessi

- Dar loro buon esempio

- Incoraggiare i figli e far comprendere loro che non ci aspettiamo che siano perfetti

 

La correzione amorosa porta con sé attitudini ed emozioni, che sono forme costruttive di un sentimento di tristezza (2 Corinzi 7:9-10).

In contrasto con le attitudini dell’Ego correttivo o censore, l’Ego correttivo amoroso ci dà incoraggiamento e sostegno. Con pazienza ci stimola a continuare a crescere, seguendo il modello che Dio ci mostra nelle Scritture.
In 1 Giovanni 2:1 abbiamo un bellissimo esempio di attitudine paterna positiva. Dio ci incoraggia con pazienza, continuando ad offrirci il suo perdono con amore, non mostrandosi adirato e, soprattutto, non rifiutandoci.

 

Tre nemici dell’accettazione di se stessi

- L’accettazione deve essere guadagnata.

Tramite i genitori, certi amici e certi insegnanti, abbiamo sviluppato la convinzione che l’amore è qualcosa che si ottiene soddisfacendo certi requisiti. Questa sicuramente è la causa più importante di mancanza di autostima.

Finché crediamo che dobbiamo fare qualcosa per essere amati, il nostro senso di accettazione è molto fragile. Ci disponiamo, quindi, a compiacere agli altri nella speranza di ricevere sicurezza e amore.

Questa attitudine, però, produce l’effetto contrario. Ci porta, infatti, a sviluppare un’idea esterna di ciò che Dio vuole che siamo, obbligandoci a forzare la nostra spontaneità e libertà, perché ci accorgiamo non essere sempre coincidenti con quello che gli altri si aspettano da noi.

E, così, cerchiamo di sviluppare qualche area della nostra vita (sport, musica, arte, ecc.) per gradire ai nostri genitori in particolare e agli altri in generale.

In questo processo i doni che Dio ci ha dato, i nostri talenti e capacità rimangono da parte. Incominciamo a sviluppare una personalità che non è la nostra vera, ma l’immagine di ciò che gli altri credono che dovremmo essere o che noi pensiamo gli altri vorrebbero vedere in noi.

Questa falsa realizzazione ci fa perdere il contatto con ciò che Dio aveva pensato per noi, e cioè essere una persona creativa, spontanea e aperta. Molti bambini, crescendo, perdono la loro spontaneità, felicità e freschezza a causa di quanto detto prima.

 

- Ogni sbaglio merita un castigo.

L’educazione ricevuta può portarci a pensare che quando sbagliamo o non raggiungiamo le mete prefissate, abbiamo bisogno di una pressione tramite la vergogna, il timore o il castigo.

Il nostro Ego censore, anche da adulti, continua a farci pressione, sostituendo in questo modo i genitori, e ci ripete: “Fa’ presto!...Sta’ più attento!...Fa’ meglio i tuoi progetti!...Devi lavorare di più!” E raramente ci dice: “Prendi le cose con calma…Goditi un po’ la vita…Sei stato bravo…Tutti sbagliamo…Hai fatto del tuo meglio”.

Spesso questo Ego censore è più forte dell’Ego correttivo amoroso ed esercita su di noi una pressione superiore a quella prodotta dagli incoraggiamenti e dagli stimoli.

Gli errori o i fallimenti producono ansia, perché siamo cresciuti col concetto che ogni errore riceve castigo e finché il castigo non ci colpisce, da parte di altri o della nostra stessa persona, non ci sentiamo in pace con noi stessi.

 

- Dobbiamo vivere all’altezza dei nostri desideri e ideali.

Da un mondo infantile di sogni in cui ogni desiderio era soddisfatto dai genitori, si passa in un mondo pieno di debolezze, senso di inadeguatezza e inferiorità.

Nella mente del bambino si fissa l’idea che i genitori possono fare tutto quello che vogliono, dovuto alla loro forza e intelligenza. I genitori sono visti come un dio che dirige il mondo delle creature inferiori.

Nel bambino si sviluppa adesso l’idea che per ricuperare quel senso di onnipotenza che aveva prima (da bebè) bisogna essere come i genitori. Pensa che da adulto avrà risolto ogni problema e sospira per il tempo necessario alla crescita. Anche da adulti, poi, continueremo a sforzarci per tendere a questo ideale di perfezionismo.

Il bambino pensa: “Quando sarò adulto potrò comandare la mia vita, sarò astuto, avrò denaro e prenderò le mie decisioni”. Pensa che da adulto potrà risolvere i suoi problemi di impotenza e ansietà, ma spesso le cose non vanno così.

 

Tre modi di ricuperare il potere

- Mediante la manipolazione.

Il bambino sa molto bene che non è come i suoi genitori e così cerca dei modi per ricuperare la sua posizione al centro dell’attenzione e con il potere che aveva prima.

Alcuni bambini usano a questo scopo la manifestazione della loro intelligenza, forza o bontà. Altri fanno il contrario di quello che viene loro detto dai genitori, perché in questo modo pensano di riprendere il controllo della situazione. Altri si ammalano, dimenticano di fare i loro compiti e arrivano tardi a tavola.

Questi sono tutti tentativi che tendono ad ottenere un senso di sicurezza, forza o potere e a cacciar via i sentimenti di impotenza, debolezza, piccolezza e insignificanza. Sono i tentativi per dimostrare ai genitori chi comanda e per sentirsi onnipotenti.

Queste attitudini possono permanere anche nell’età adulta e manifestarsi in modi difficili da riconoscere. L’arrivare sistematicamente tardi è un modo per esprimere la necessità di potere e controllo. E’ come se stesse dicendo: “Non fatemi fretta! Farò le cose a modo mio”. L’arrivare tardi poteva essere per il bambino un modo per ribellarsi e ottenere potere sui genitori un po’ oppressivi.

 

Altri bambini imparano a cedere alle esigenza dei genitori. Diventano depressi e passivi. Da adulti, poi, si rendono conto dei loro sentimenti di impotenza, inferiorità e depressione. Raramente si sforzano per intraprendere qualcosa di difficile e si ritraggono da tutto ciò che richiede aggressività. Si sentono incapaci.

L’essere depressi e scoraggiati, però, porta gli altri a preoccuparsi per noi, a venirci incontro, ad aiutarci. Sentirsi debole come un bambino ha i suoi vantaggi, perché ci permette di riottenere i benefici e l’impotenza dell’infanzia davanti ad un mondo troppo difficile da affrontare.

La depressione e i sentimenti di inferiorità contengono un elemento di manipolazione nei confronti degli altri per ottenere che facciano ciò che noi vogliamo. Fin dall’infanzia, quindi, cerchiamo la maniera per fare la nostra volontà, dimostrare la nostra autorità o provare il nostro valore.

Siamo ostinati, pugnaci, amabili, aggressivi, tranquilli o pignoli a seconda che ci convenga per superare i nostri sentimenti di inferiorità o debolezza.

 

- Mediante la fantasia

Per ricuperare il rispetto di noi stessi usiamo fantasie e sogni che ci procurano potere e trionfi. Per mezzo della fantasia cerchiamo di ottenere quel successo e quella forza che vorremmo possedere nella realtà.

Creiamo un’immagine mentale di noi stessi che soddisfa esattamente quello che vorremmo essere. Siamo campioni, re o personaggi famosi. Questi sogni possono dare un po’ di colore alla vita, ma, se prolungati nel tempo, possono renderci sempre più insoddisfatti con ciò che siamo o abbiamo in realtà.

Quando ci sentiamo inferiori ricorriamo ai sogni e alle fantasie per ottenere soddisfazione, ma possiamo poi sentirci dei falliti, se non realizziamo le aspettative dei sogni.

Anche se ci rendiamo conto che questi ideali non sono sensati, ci afferriamo ad essi e speriamo che qualche miracolo li renda reali. Nel caso questi sogni non si realizzino, oltre a sentirci dei falliti, tendiamo a castigarci con l’autocritica e con sentimenti di colpa e di vergogna.

Questo tipo di attitudine ci impedisce di crescere e maturare per diventare delle persone ragionevoli e intelligenti, forti e autonome come Dio ha pianificato, perché ci spingono a voler essere i più forti, i più intelligenti, i più bravi e, di conseguenza, i migliori.

Permane, quindi, la visione del bambino che vedeva nei genitori, o negli adulti in generale, quel senso di onnipotenza a cui vuole tendere. E quando otteniamo certe mete o cerchiamo di accettarci, rimane l’insoddisfazione per le aree della nostra vita in cui non abbiamo ancora trionfato. Inoltre percepiamo anche la voce di questi obiettivi irraggiungibili, che ci dice: “Non è abbastanza, non sei all’altezza, non meriti di essere amato perché non sei perfetto”.

 

- Assumendo il ruolo di Dio

L’ambizione insaziabile di realizzare i nostri sogni di gloria è strettamente unita ad un’altra attitudine mentale che tutti sviluppiamo, e cioè: “Io so più di ogni altro ciò che mi può rendere felice e che può soddisfare le mie necessità”.

Incominciando dalle esperienze dell’infanzia, come desiderare dolci, uscire a giocare, non fare i compiti, tutti sviluppiamo il pensiero che “se potessi comandare io, migliorerei tutte le cose”.

Anche nell’età adulta continuiamo a pensare che nessuno meglio di noi stessi sa ciò che è buono per la nostra vita. In altre parole assumiamo il ruolo di Dio.

 

 

Il concetto biblico di se stessi

 

Ci sono quattro ingredienti centrali nella nostra autoimmagine:

1) Senso di valore

2) Fiducia

3) Sicurezza

4) Amore

 

Il senso di dignità o di valore è l’attitudine basilare rispetto al nostro significato. Se siamo coscienti del nostro valore, siamo sulla buona strada per avere un forte senso di identità. Crediamo, cioè, che la nostra vita significhi qualcosa, pensiamo di essere persone che valgono e che hanno diritto a vivere.

Senza un senso di valore ci scoraggiamo e ci deprimiamo, diventando vittime di sensi di colpa, di inutilità e di condanna.

La fiducia, che implica una certa certezza riguardo le nostre capacità e un senso di forza interiore, è la qualità che ci permette di estenderci all’esterno e cercare di intraprendere nuove avventure o superare nuovi problemi. E’ l’opposto dell’inferiorità.

Quando la fiducia in noi stessi diminuisce, ci sentiamo tesi, ansiosi, spaventati o insicuri.

 

Se la fiducia è un fatto interiore (posso farlo), la sicurezza è invece qualcosa di esteriore (gli altri credono in me, oppure tutto è sicuro).

La sicurezza si riferisce al nostro ambiente e alla nostra relazione con esso. Riflette la garanzia che il mondo che ci circonda è sicuro. Non dobbiamo temere un terremoto da un momento all’altro, né un disastro finanziario, né che ci abbandonino.

Ciò non significa che il mondo sia sempre un luogo meraviglioso in cui si può confidare in tutto e in tutti, ma significa che abbiamo una sufficiente esperienza positiva con gli altri per sapere che ci sono amici, che non tutti sono cattivi e che non dobbiamo vivere pieni di timori e paventare fame, catastrofi e conflagrazioni atomiche.

Le persone che vivono senza un sentimento di sicurezza sono costantemente preoccupate e non possono rilassarsi, né sperimentare il minimo benessere.

 

L’amore è senz’altro l’ingrediente centrale per un’attitudine positiva rispetto a noi stessi. Tutti abbiamo bisogno di sentirci amati, accettati e di avere radici, cioè di essere parte di qualcosa. Mancando ciò ci sentiamo soli, isolati e abbattuti.

L’immagine di noi stessi che avremo per la vita incomincia a formarsi nell’infanzia. Se i nostri genitori ci hanno accettato e apprezzato per quello che eravamo, sviluppiamo un senso di valore salutare. Se ci hanno lodato e incoraggiato a provare le nostre capacità per fare cose nuove, sviluppiamo un sentimento di fiducia. Se ci hanno procurato un ambiente stabile e di fiducia, impariamo a sentirci sicuri. Se ci hanno amato liberamente, impariamo ad amare noi stessi.

 

 

Collaboratori nella stima di se stessi

 

L’amore è un’attitudine che sviluppiamo nel corso della vita. Il bambino appena nato non conosce l’amore e non si rende conto nemmeno dell’esistenza degli altri. Solo in seguito impara ad amare, a patto però che abbia ricevuto amore dagli altri.

Nelle loro intime relazioni con i genitori i bambini gradualmente intendono e sperimentano l’amore. Scoprono ciò che significa essere curato, stimato e avere valore. Man mano che sperimentano l’amore iniziano a restituirlo. Incominciano ad apprezzare gli sforzi degli altri e a stabilire dei contatti.

 

Qualcuno a volte dice: “Non amo abbastanza Dio”. Non è, però, questo il vero problema. Il problema è che non sappiamo quanto ci ama Dio. L’amore non è qualcosa che possa prodursi per mezzo dello sforzo, o alimentando pensieri positivi o pregando. L’amore per noi stessi, per Dio e il prossimo è una risposta al fatto di essere amati.

L’apostolo Giovanni lo dice chiaramente quando scrive: “Noi amiamo perché Egli ci ha amati il primo” (1 Giovanni 4:19). Giovanni non dice che amiamo Dio perché dobbiamo, o perché siamo stati istruiti a farlo, ma perché Lui ci ha amati per primo.

Ciò che è vero nella nostra relazione con Dio è anche vero nelle relazioni con il nostro prossimo. Non c’è altro modo di provocare in noi sentimenti di rispetto e amore, se non tramite l’amore che riceviamo.

La stima propria non può verificarsi nel vuoto, così come nessuno può amare gli altri, se vive isolato. L’amore è il marchio del vero cristiano: “Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri” (Giovanni 13:35).

 

Una delle ragioni per cui Dio ci ordina che ci amiamo gli uni gli altri è per comunicarci un sentimento di valore reciprocamente.

La vera natura di Dio è l’amore. Lui ci ha creato, ci ama, ci apprezza come persone di valore e spera che offriamo questo amore ad altri.

Gesù dice: “Che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi” (Giovanni 15:12). Se Dio ci dice di amarci gli uni gli altri, deve esserci qualche risultato positivo in ciò.

Il proponimento del nostro amore verso gli altri è di mostrar loro che sono importanti, pieni di significato e di valore. Senza il nostro amore non lo sapranno mai. Ed è anche per questo che molti compiono imprese funeste (sfidare la morte, atti delinquenziali, droga…) per attirare almeno per una volta l’attenzione degli altri su loro.

Dio usa i genitori, i figli, i coniugi e gli amici per comunicare il suo amore agli altri.

 

Se nessuno ci ama, come sapremo qual è il nostro valore e significato come persone? Se dobbiamo avere questo atteggiamento verso gli altri, anche noi dobbiamo sentirci stimati ed apprezzati.

Ciò significa che non possiamo avere un’immagine di noi stessi positiva senza l’intervento diretto degli altri. Questo bisogno degli altri ci porta, in un estremo negativo, a schiavizzarci alla loro opinione.

Nella nostra infanzia non possiamo amare a meno che non ci sentiamo amati dai nostri genitori. Crescendo, continuiamo ad avere bisogno che gli altri ci amino, che è il modo tramite il quale si manifesta l’amore di Dio verso di noi. Questa è una delle ragioni più importanti per cui Dio ci ordina di amarci gli uni gli altri.

 

Se vogliamo imparare ad amarci, dobbiamo innanzi tutto lasciare che gli altri ci amino. Non possiamo imparare ad amare in isolamento, e memorizzare dei versetti non risolverà il nostro problema di mancanza di accettazione propria.

Anche se la stima propria si fonda sulle verità bibliche della creazione e della redenzione, abbiamo bisogno dell’aiuto degli altri per imparare ad accettarci.

E’ per questo che la Bibbia dice: “Facciamo attenzione gli uni agli altri per incitarci nell’amore” (Ebrei 10:24), “Portate i pesi gli uni degli altri” (Galati 6:2), “Confessate i falli gli uni agli altri” (Giacomo 5:16).

 

Quando gli altri ci amano si mette in moto un processo curativo. Il nostro atteggiamento di autorifiuto proviene dalla relazione con i nostri genitori e con altre persone significative per noi.

In quelle circostanze abbiamo imparato a ricevere critiche e a stare sotto una certa pressione, a sperimentare colpa e condanna.

I nostri genitori, sommersi dalla loro incapacità di accettare se stessi e gli altri, hanno a volte soffocato anche il nostro atteggiamento di autostima. Non sono riusciti ad inculcarci il valore che rappresenta la nostra persona e sono stati incapaci di dimostrarci pienamente l’amore incondizionato di Dio e il suo perdono completo.

A causa di questi errori e del nostro desiderio di perfezione entriamo nell’età adulta con una valutazione deficiente di noi stessi.

 

Gli amici ci possono aiutare a rompere questi concetti mentali dominanti di condanna e rigetto. Ci possono dire che per reclamare i nostri diritti ad essere amati non è necessario trionfare nella vita.

Possono aiutarci a sperimentare che non dobbiamo essere castigati per ottenere la motivazione al nostro miglioramento. La loro compassione ci dice: “Tutti abbiamo delle lotte e possiamo fallire. Tutti ci sentiamo a volte abbattuti e tutti ci sentiamo dei buoni a nulla, ma ti capiamo e ti vogliamo bene lo stesso. Sappiamo anche che Dio ti accetta, come sempre, per ciò che sei”.

Le relazioni bibliche generano un processo di guarigione.

 

Tutti abbiamo delle aree nella nostra vita che non ci piacciono. Cerchiamo di nascondere questi difetti perché temiamo il rifiuto o un abbassamento di valore da parte degli altri.

Facendo così, però, inganniamo noi stessi perché ci comportiamo come se fossimo un’altra persona. Mostriamo una facciata per cercare di fare impressione sugli altri e così ci abituiamo a nascondere dietro di essa la nostra vera personalità e le nostre emozioni.

Ciò produce su di noi una pressione maggiore, perché non solo abbiamo il problema della nostra debolezza, ma dobbiamo usare tutte le nostre forze per tenerla segreta. Incominciamo a perdere la nostra spontaneità, ad isolarci, o a compensare questa nostra mancanza con un’attività spettacolare. Così nessuno sa quello che sta capitando dentro di noi e non viviamo in uno stato di sincera partecipazione e comunicazione.

Tutti nel fondo desideriamo essere accettati, ma temiamo che questa sincerità e intimità producano rifiuto.

Una volta che gli altri sanno che siamo umani, possiamo lasciar cadere la maschera e avvicinarci a loro ancora di più. Se qualcuno ha difficoltà nel costruire la sua stima propria, si apra con qualche amico scelto, lasci sapere ciò che sente e comunichi le sue emozioni. Questa persona può essere il coniuge o un piccolo gruppo di cristiani.

Se permettiamo agli altri che ci accettino, facilitiamo il processo di auto-accettazione. Vediamo, così, la dimostrazione della natura dell’amore di Dio e troviamo un senso più profondo a questo amore. E’ per questo che Gesù ha detto: “Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amato” (Giovanni 15:12).