IL  DISEGNO  ETERNO

 

 

Il fine che Dio aveva posto all’uomo era la gloria, ma il peccato ha ostacolato questo disegno ed ha impedito all’uomo di raggiungerla (Romani 3:23).

Il risultato del peccato è che noi siamo privati della gloria di Dio e quello della redenzione è che siamo di nuovo sul cammino della gloria (Romani 8:21).

Sia nella creazione che nella redenzione lo scopo di Dio era che Cristo Gesù fosse il primogenito di molti fratelli, tutti conformi alla sua immagine, e Lui padre di molti figli.

Dio, quindi, manda il Figlio unigenito, affinché diventi il primogenito ed abbia molti fratelli, tutti condotti alla gloria (Ebrei 2:10) tramite l’incarnazione e la croce.

 

Tra i molti alberi dell’Eden Dio ne aveva piantati due in particolare: quello della vita e quello della conoscenza del bene e del male.

Adamo, creato innocente, non aveva conoscenza del bene e del male, né alcuna facoltà per discernerli. Non era un uomo sviluppato. Era stato creato moralmente neutro: né peccatore, né santo, ma innocente. Iddio gli mise davanti questi due alberi, affinché egli potesse liberamente esercitare la sua scelta.

La conoscenza del bene e del male, benché vietata ad Adamo, non era cattiva in se stessa. Adamo, quindi, era limitato perché incapace di decidere e valutare la conseguenza morale dei suoi atti.

Il discernimento del bene e del male non risiedeva in lui, ma in Dio solamente e l’unica linea da seguire per Adamo, trovandosi in presenza di un problema, era di riferirlo a Dio stesso. Adamo, nel giardino, rappresenta una vita totalmente dipendente dal Creatore.

 

Se Adamo avesse scelto l’albero della vita, avrebbe avuto parte alla vita di Dio e sarebbe, così, diventato un “figlio” di Dio, perché avrebbe avuto in sé una vita derivante da Lui. La dipendenza da Dio avrebbe mantenuto tale vita.

Adamo, invece, cogliendo il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, sviluppò la propria umanità sulla linea naturale al di fuori di Dio. Divenne autosufficiente, acquistò in se stesso la possibilità di esercitare un giudizio indipendente, ma non ebbe in sé la vita di Dio.

Adamo, dunque, scelse l’albero della conoscenza del bene e del male, mettendosi in tal modo su di una base d’indipendenza. Così facendo diventò (come appaiono oggi gli uomini ai propri occhi) un uomo “pienamente evoluto”.

Egli poté disporre della sua intelligenza, prendere le proprie decisioni. Partendo da questo punto la sua “intelligenza fu aperta” (Genesi 3:6), ma la conseguenza del suo atto fu per lui la morte, perché quella scelta significò una complicità con Satana e il conseguente giudizio di Dio sulla sua vita.

 

Due ordini di vita erano stati proposti ad Adamo: quello della vita divina, in dipendenza da Dio, e quello della vita umana, utilizzando le sue risorse naturali in forma indipendente dal Creatore.

La scelta di quest’ultima opzione è stata definita “peccato”, perché ha creato un’alleanza con Satana per intralciare il disegno eterno di Dio.

E’ così che in Adamo noi tutti siamo diventati dei peccatori, dominati come lui dal Maligno, soggetti come lui alla legge del peccato e della morte e meritando come lui la collera divina.

Da questo vediamo la ragione divina della morte e della risurrezione di Gesù. Dobbiamo andare tutti alla croce, perché quello che è in noi per natura è una vita egoista, sottomessa alla legge del peccato, cioè sottomessa alla necessità di soddisfare se stessi.

Dio, così, ha dovuto cancellare tutto ciò che apparteneva ad Adamo facendolo morire sulla croce in Cristo, che viene perciò definito “ultimo Adamo”. Gesù, poi, risuscitò sotto una nuova forma, avendo ancora un corpo, ma un corpo spirituale, glorioso, e non più carnale (1 Corinzi 15:45), che gli consente di essere ricevuto da tutti (Giovanni 6:57) per farci diventare figli di Dio (Giovanni 1:12-13).

Dio non è all’opera per riformare la nostra vita, per portarla ad un certo grado di affinamento, ma vuole creare un uomo nuovo, nato di nuovo, nato dalla sua sostanza.

 

Ci sono diversi gradi di vita e quella umana si trova fra la vita degli animali inferiori e la vita di Dio. E’ impossibile superare l’abisso che ci separa dal grado superiore come da quello inferiore e la distanza che ci separa dalla vita di Dio è infinitamente maggiore di quella che ci separa dalla vita degli animali inferiori.

Potrei chiamare un cane Fido Rossi? Anche se vivesse in casa mia non si chiamerebbe Fido Rossi. I miei figli, però, portano il mio cognome, perché io stesso ho comunicato loro la vita.

Il mio cane può essere intelligentissimo, ben educato, fedele, può avere, cioè, tutte le migliori qualità del mondo sotto ogni punto di vista, ma la questione di fondo non è se sia un cane buono o cattivo, ma che è e rimane sempre un cane. Prima di essere buono o cattivo è un cane. Non ha bisogno di essere cattivo per essere escluso dalla famiglia, ma è sufficiente che sia un cane.

 

Lo stesso principio si può applicare alla nostra relazione con Dio. La cosa importante non è che siamo un essere umano più o meno buono, più o meno malvagio, ma che siamo un essere umano.

Se la nostra vita si trova su un piano inferiore rispetto a quello della vita di Dio, non possiamo appartenere alla famiglia di Dio. Non deve essere il nostro scopo quello di trasformare uomini cattivi in buoni, perché l’uomo, che sia cattivo o buono, non può avere con Dio alcuna relazione vitale.

La sola speranza per noi esseri umani è di ricevere il Figlio di Dio nei nostri cuori, perché la sua presenza, la sua natura, fa di noi dei figli di Dio.

Iddio vuole dei figli che siano coeredi col Cristo nella gloria (Ebrei 2:10-11). Il Signore Gesù, come uomo, ha tratto la sua vita da Dio e anche noi, anche se in un senso diverso ma non meno reale, riceviamo la nostra nuova vita dal Padre celeste.

Egli è stato “concepito di Spirito Santo” (Matteo 1:20) e noi siamo “nati dallo Spirito”, “nati da Dio” (Giovanni 3:5 ; 1:13). Così noi siamo nati da Uno solo. Il Figlio primogenito e i numerosi altri figli sono tutti (benché in senso diverso) “nati” dalla sola e unica sorgente di vita.

 

 

 

 

Due creazioni

 

Il regno di questo mondo non è il Regno di Dio. L’Eterno aveva stabilito un sistema universale, un universo di sua creazione che doveva avere per capo il Cristo, suo Figlio (Colossesi 1:16-17). Ma Satana, operando attraverso la carne dell’uomo, ha stabilito un sistema rivale, che le Scritture chiamano “il mondo”, un sistema nel quale siamo coinvolti e sul quale egli domina, perché è diventato “il principe di questo mondo” (Giovanni 12:31).

Così, per opera di satana, la prima creazione è diventata la vecchia creazione, che non ha più interesse per il Signore. La sua attenzione è ormai concentrata sulla seconda e nuova creazione, un nuovo regno e un mondo nuovo, nel quale nulla della vecchia creazione, dell’antico regno o dell’antico mondo può essere trasferito.

Bisogna ora considerare questi due regni rivali e vedere a quale di essi noi apparteniamo.

 

Dio ci ha liberati dalla vecchia creazione (Colossesi 1:12-13), ma per permetterci di entrarvi deve fare di noi nuove creature.

Non possiamo appartenere al nuovo regno senza essere creati di nuovo (Giovanni 3:6 / 1 Corinzi 15:50). Qualunque sia il livello del suo sviluppo, della sua cultura e del suo valore, la carne resta sempre carne.

La condizione definitiva per appartenere al nuovo regno dipende dalla nostra origine. Non dipende dal “buono o cattivo”, ma dalla “carne o dallo Spirito”. Ciò che è nato dalla carne è carne, non sarà mai altro, e ciò che appartiene alla vecchia natura non potrà mai passare nella nuova.

Dio voleva averci per sé, ma non poteva farci entrare nel suo piano così come eravamo. Ci ha fatto, allora, morire per mezzo della croce del Cristo e poi, con la risurrezione, ci ha dato una nuova vita (2 Corinzi 5:17).

La croce è stato il mezzo di cui Dio si è servito per porre fine alle “vecchie cose”, mettendo interamente da parte il nostro “vecchio uomo”, e la risurrezione è il mezzo con cui Dio ci ha dato tutto quello di cui avevamo bisogno per vivere in questo nuovo mondo (Romani 6:4). La risurrezione rimane la soglia della nuova nascita ed è il nuovo punto di partenza di Dio.

 

Siamo ora in presenza di due mondi, l’antico e il nuovo. Sull’antico Satana esercita una sovranità assoluta. Noi possiamo essere un uomo buono nella vecchia natura, ma, finché vi rimaniamo, saremo sotto una sentenza di morte, perché nulla del vecchio può passare nel nuovo.

Attraverso la croce Dio dichiara che tutto quello che è della vecchia natura deve morire. Nulla di quello che è stato del primo Adamo può passare oltre la croce. Dio ha riunito tutto quello che era di Adamo nella persona del suo Figliolo e l’ha crocefisso. Tutto ciò che era di Adamo è stato, dunque, distrutto in Lui.

Questo ci conduce alla questione del battesimo (Romani 6:3-4). Attraverso la croce siamo liberati da questo presente mondo malvagio e lo confermiamo con la nostra immersione nell’acqua battesimale.

Questo è il battesimo “nella sua morte”, che mette fine ad una creazione, ma è anche il battesimo “in Gesù Cristo”, che tende a creare una nuova natura (Romani 6:3).

Noi entriamo nell’acqua ed il nostro mondo, simbolicamente, vi discende con noi. Noi risorgiamo nel Cristo, ma il nostro mondo è rimasto sommerso.

Il carceriere e la sua famiglia di Atti 16:31-34, con il battesimo in acqua, resero testimonianza davanti a Dio, al loro popolo ed alle potenze spirituali che erano realmente salvati da un mondo condannato. E come risultato di ciò, leggiamo, si rallegrarono grandemente.

 

 

 

 

I peccati e il peccato

 

I peccati sono atti precisi in un dato momento e possono essere contati, mentre il peccato è il principio che opera in noi e che ci porta a commetterli.

L’orgoglio, principio di fondo del peccato, vuole essere adorato, stimato, valutato, innalzato e produce rancore quando ciò non avviene. Il rancore, poi, può portarci a dare risposte taglienti o ad agire in modo irrispettoso.

Il rancore è figlio dell’orgoglio ed è inutile, quindi, cercare di eliminarlo, ma dobbiamo colpire l’orgoglio vero punto di partenza dell’azione peccaminosa.

Qualunque sia il numero di peccati che commettiamo, quello che agisce in noi è sempre lo stesso principio di peccato. Ciò che ci rende peccatori, quindi, non è la quantità dei peccati (in fondo non ne ho commessi tanti, diciamo), ma il principio di peccato che dimora in noi.

Ho bisogno di perdono per i miei peccati, ma ho anche bisogno di essere liberato dalla potenza del peccato. E’ importante essere coscienti dei peccati che commettiamo, ma lo è altrettanto la coscienza che la nostra natura è peccaminosa.

Esiste in noi una tendenza naturale al peccato, una forza interiore che ci trascina al peccato. Quando questa forza si manifesta noi commettiamo dei peccati. Non dobbiamo prendere una decisione per andare in collera, perché arriva spontaneamente. Dobbiamo, invece, prendere una decisione per non lasciarci dominare dalla collera. La mansuetudine non è frutto spontaneo del nostro cuore.

Abbiamo bisogno del perdono per quello che abbiamo fatto, ma abbiamo bisogno anche di essere liberati da quello che siamo.

Noi non diventiamo peccatori per quello che abbiamo fatto, ma a causa di ciò che Adamo ha fatto e di ciò che è diventato (Romani 5:19 / Genesi 5:3). Adamo è il capostipite e noi siamo rami dello stesso tronco. Cristo, infatti, viene chiamato l’ultimo Adamo (1 Corinzi 15:45). In Lui, cioè, morì Adamo, morì la natura peccaminosa e venne alla luce la natura divina, santa e giusta.

 

Sì, colui che pecca è un peccatore, ma il fatto che egli pecchi è semplicemente la prova che è già un peccatore, non ne è la causa. Colui che pecca è un peccatore, ma è altrettanto vero che colui che non pecca, se è discendente di Adamo, è ugualmente un peccatore e ha bisogno di redenzione.

Ci sono dei peccatori cattivi e ce ne sono di buoni, ci sono dei peccatori “morali” e ce ne sono di “corrotti”, ma tutti sono ugualmente dei peccatori.

Noi pensiamo, a volte, che se non avessimo fatto certe cose, tutto andrebbe meglio, ma il male è nascosto più profondamente rispetto a ciò che abbiamo commesso, è dentro di noi.

Noi siamo inclini a pensare che ciò che abbiamo commesso è molto cattivo, ma che noi non siamo poi tanto malvagi. Ma il Signore vuole proprio farci comprendere che la nostra natura è corrotta, che la radice del male è il peccato e che noi dobbiamo agire su di esso (come principio peccaminoso).

 

All’inizio della nostra vita cristiana siamo preoccupati delle nostre azioni e non della nostra natura, siamo rattristati più da quello che abbiamo commesso che non da quello che siamo.

Immaginiamo che se potessimo solo riparare a certe azioni, potremmo essere dei buoni cristiani e ci sforziamo, quindi, di cambiare il nostro modo d’agire. Ma il risultato non rispecchia la nostra immaginazione e ci accorgiamo con sgomento che il male non proviene solo dalle difficoltà esteriori, ma che c’è in effetti una causa più grave nell’interiore.

Desideriamo piacere al Signore, ma troviamo in noi qualcosa che non vuole piacergli. Cerchiamo di essere umili, ma c’è qualcosa nella nostra natura che rifiuta l’umiltà. Desideriamo amare, ma non c amore in noi. Sorridiamo e cerchiamo di apparire molto gentili, ma intimamente sentiamo di essere lontani dalla vera bontà.

Più cerchiamo di correggere i nostri atti esteriori e più ci accorgiamo quanto profonde siano le radici del male. Ed è così che, allora, andiamo dal Signore e gli diciamo: “O Dio, adesso vedo! Non sol ciò che faccio è male, ma io stesso sono malvagio”.

Ma se siamo nati peccatori, come possiamo eliminare la nostra eredità di peccato? Dovremo, forse, rimanere nel peccato? Così non sia (Romani 6:1-2).

Se siamo nati in Adamo, come possiamo uscire dalla sua natura? Poiché siamo entrati nella razza di Adamo attraverso la nascita, non potremo uscirne se non attraverso la morte.

Per mettere fine alla nostra natura peccaminosa occorre mettere fine alla nostra vita. La schiavitù del peccato è venuta con la nascita, la liberazione dal peccato viene con la morte.

Questo è il mezzo di liberazione che Dio ha prestabilito e la morte, quindi, è il segreto della liberazione. Ma come possiamo morire?

Riconoscendo che Dio ha risolto il nostro problema in Cristo (Romani 6:3). Cioè, se Cristo abita in noi, noi siamo in Cristo e possediamo già il suo principio di morte al peccato.

La natura di Cristo ci è stata conferita nascendo nello Spirito e il morire al peccato deve diventare, così, un fatto naturale, come prima era naturale ubbidire al peccato (Romani 6:6 / Galati 2:20 ; 5:24 ; 6:14).

La croce mette fine alla prima creazione e dalla morte sorge una nuova creatura, il secondo uomo (2 Corinzi 5:17). Tutto ciò che è di Cristo è nostro, quindi, per grazia, senza sforzo alcuno, solo tramite la fede.

 

 

 

 

 

Abramo: la promessa di un erede

 

In relazione a questo figlio promesso, Abramo passò per tre tipi diversi di prova.

La prima fu una prova di pazienza. Le Scritture ci dicono che Abramo aveva creduto a Dio e alla sua promessa, ma che da quel giorno erano già passati dieci anni (Genesi 16:3). Pensò che, se doveva avere questo figlio, il tempo era già arrivato.

Accondiscese, così, al suggerimento di Sara e prese Agar, sua serva, come seconda moglie. Il figlio di Agar nacque quando Abramo aveva 86 anni.

Ciò che, però, non sapeva era che Dio aveva pianificato che avesse un figlio da Sara all’età di 100 anni. Invece gli nacque Ismaele 14 anni prima.

Possiamo dire che in questa sua prima prova Abramo ne uscì sconfitto. Non aveva inteso che per esercitare la fede non è necessario sforzarsi. Lui aveva creduto, ma pensò che doveva in qualche modo aiutare Dio e che nel prendere Agar permetteva alla promessa di Dio di compiersi.

 

Abramo non capì che la questione del figlio andava molto al di là del semplice fatto di averlo e che l’aspetto vitale era rappresentato da chi lo dava e da chi procedeva questo figlio.

Il problema non è se siamo attivi o no, ma chi origina le azioni e con il potere di chi vengono eseguite. Se il figlio di Abramo non era dono di Dio, che utilità poteva avere per se stesso?

E’ sbagliato aiutare la gente? No, ma dobbiamo essere sicuri che l’aiuto che ricevono viene da Dio. E’ sbagliato predicare la Buona Novella? Certamente no, ma la questione è chi lo sta facendo.

Dio vuole che siamo il mezzo per manifestare quelle buone cose che Lui sta facendo. Non è l’attività in sé la cosa importante, ma la fonte dell’azione.

Certo era volontà di Dio che Abramo avesse un figlio, ma la cosa che più importa è chi sta facendo questa volontà.

 

Nulla, né buone opere, né servizio, né predicazione della Parola, né il fare la sua volontà può soddisfare il cuore di Dio, se siamo noi la fonte di tutto ciò. Solo ciò che Lui fa in noi e per noi lo può soddisfare.

Dio prende piacere nell’utilizzarci come suoi strumenti, ma niente di più.

Nella lettera ai Galati Paolo traccia un parallelo interessante con questo passaggio. Agar, dice, rappresenta la legge, riassunta nei 10 comandamenti che Dio richiede come base di osservanza per una relazione con la sua Persona. In Abramo troviamo un uomo che cerca di dare a Dio ciò che Lui richiede, un uomo disponibile a gradirlo.

Coloro, però, che lo fanno si collocano sotto una maledizione (Galati 3:10). L’unico effetto delle buone opere di Abramo è, infatti, di aver procreato Ismaele, un figlio “secondo la carne” (Galati 4:29).

 

Dio aveva detto che il figlio doveva essere di Sara e Isacco rappresentava il figlio della promessa (Galati 4:28), un’opera della grazia di Dio. E grazia significa Dio operando in mia vece.

Quando l’Eterno operò, Isacco nacque “secondo lo Spirito”. A 86 anni Abramo aveva ancora forza naturale, ma a 100 era come morto (Romani 4:19) e non poteva avere più figli per via naturale. Ed è a questo punto che arrivò Isacco.

Anche noi dobbiamo considerarci morti prima di poter credere pienamente nel Dio che dà vita ai defunti. Dio aspetta che arriviamo alla fine di noi stessi e soltanto allora ci manda Isacco. Isacco era solo una questione di tempo, il tempo di Dio.

 

Spesso pensiamo che sarebbe una buona cosa se potessimo incominciare prima a lavorare per Lui, ma quando lo conosciamo, incominciamo a capire cosa significhi aspettare il suo momento.

E’ Isacco, e non Ismaele, che deve compiere il proponimento di Dio e mantenere viva la sua testimonianza qui sulla terra. Non soltanto Ismaele mancava di valore agli occhi di Dio, ma nessuno ha ferito tanto il popolo di Israele o ha combattuto contro Dio stesso come lo ha fatto Ismaele.

Cercare di aiutare Dio può significare danneggiare la sua opera. A 86 anni Abramo non aveva ancora una fede perfetta, ma “egli credette all’Eterno, che gli contò questo come giustizia” (Genesi 15:6). E’ sufficiente credere, anche se non in maniera perfetta.

Nei 15 anni che seguirono imparò una lezione tremenda, che lo portò, poi, a glorificare grandemente Dio quando, alla fine, l’impossibile divenne realtà e gli fu dato Isacco.

Paolo ci dice che quando Isacco fu concepito Abramo si considerava già morto (Romani 4:19) e non in grado di procreare. Quanto più noi siamo nell’impossibilità di agire, tanta più gloria daremo a Colui che può ogni cosa. E ciò che Dio fa è sempre buono.

 

Nei 13 anni seguenti alla nascita di Ismaele, Dio non parlò ad Abramo e lo lasciò impegnato nelle sue cose. Ma quando era come “morto”, cioè anziano, debole e incapace di avere un figlio, allora gli rivolse la parola.

Ogni nostro progresso spirituale è reso possibile dalla chiamata di Dio e non dai nostri desideri. Abramo non si era pentito, né aveva compreso il suo errore o cercato Dio, anzi Ismaele diventava sempre più prezioso agli occhi suoi.

Dal nostro punto di vista umano non c’era più speranza per lui. Dio, però, non lo aveva abbandonato e le porte della sua misericordia erano ancora aperte, perché era sua volontà continuare ad operare in Abramo.

Se Dio mette i suoi occhi su di un uomo, questi non può sfuggirgli. Quanto dobbiamo imparare ad affidarci completamente a Lui!

Così, dopo tanto tempo, Dio torna a parlare ad Abramo (Genesi 17:1) e si presenta come l’Onnipotente. Abramo sapeva che Dio era onnipotente, ma non lo conosceva in tutta la sua potenza.

In questo nuovo dialogo l’Eterno stabilisce un patto con il patriarca e cioè che da lui sarebbe sorto un popolo (Genesi 17:2,4,7). Il marchio di questo patto era la circoncisione, che significava la creazione di un popolo che non confidava nella carne.

 

Il peccato nell’uomo, in fondo, non è così difficile da trattare quanto il problema della carne che cerca di piacere a Dio nel momento in cui cerca di occupare un posto nella sua opera.

La croce di Cristo, allora, viene in nostro aiuto per indebolire la fiducia che abbiamo in noi stessi e farci crescere nella fiducia in Dio.

Qual è la caratteristica peculiare della nostra vita cristiana davanti agli uomini? Onestà o sapienza? Eloquenza nella Parola di Dio o amore? E’ forse la completa mancanza di fiducia in se stessi o anche la possibilità di sbagliarsi e di non conoscere perfettamente il piano di Dio per la nostra vita?

Nel capitolo 15 leggiamo che Abramo credette e nel 17, avvicinandosi il compimento della promessa, che la sua fede sembrò vacillare. Si dice, infatti che “si prostrò con la faccia in terra e rise” (Genesi 17:17). Era proprio ridicolo che lui e Sara avessero un figlio a quella età.

La sua prima fede era stata genuina, ma c’era comunque un elemento di fiducia in se stesso. Adesso la sua fede è morta, quella fede che si basava sulle sue convinzioni umane riguardo Dio e sulle sue capacità come uomo.

Dio stava producendo in Abramo una nuova qualità di fede, che lo portò non a ridere di Dio ma di se stesso (Romani 4:17-22). Questa è vera fede, la fede che riposa nella grazia di Dio.

 

 

 

 

 

 

I doni o il donatore

 

Dio prova ancora Abramo (Genesi 22:1). Adesso gli chiede il sacrificio di suo figlio (Genesi 22:2). Quanti avrebbero tollerato un’ulteriore prova?

Non c’erano in gioco solo dei sentimenti umani, ma il proponimento di Dio, sospinto dal suo grande amore (Ebrei 11:17-19), di dargli una discendenza. Se l’erede della promessa fosse morto, su chi avrebbe riposato il piano di Dio?

La prova colpì Abramo non come individuo, ma come vaso per il proponimento divino. Il compimento della promessa era in Isacco e sacrificarlo avrebbe equivalso a sacrificare il patto di Dio.

Se allontanare Ismaele era stato ragionevole in quanto frutto dell’agire umano in Abramo, perché doveva toccare proprio a lui sacrificare il dono che Dio gli aveva concesso così meravigliosamente? In fondo lui non lo aveva neanche desiderato perché aveva già Ismaele.

 

Isacco era veramente di Dio, ma c’era il problema della preoccupazione di Abramo per questo figlio. Non dobbiamo attaccarci in modo possessivo ai doni di Dio. Abramo aveva capito che Dio era il padre relativamente alla nascita di Isacco e adesso deve imparare che Lui continua ad esserne il padre anche dopo.

E’ Dio che occupa ancora la nostra visione o è Isacco? Pensiamo che adesso che è venuto Isacco l’opera di Dio sia conclusa e che tutto gira intorno al figlio ricevuto?

Isacco può rappresentare molte cose, cioè i molti doni della grazia di Dio, e noi possiamo occuparci di questi doni dimenticandoci di chi ce li ha concessi.

Spesso dimentichiamo che la nostra fonte di vita è Dio e non l’esperienza, afferrandoci più al vissuto che alla realtà che Lui è Padre.

Lasciamo il dono e l’esperienza e afferriamoci a Dio, rinunciamo a Isacco che è temporale, ma non a Dio che è eterno.

 

La realtà di Isacco va oltre il fatto individuale o la nostra esperienza personale di Dio o un dono ricevuto, ma è relazionata con la volontà dello stesso Dio.

Abramo, percependo Isacco come la volontà di Dio, poteva aver sentito per questa ragione di afferrarsi a lui, ma la volontà di Dio non era fissa su Isacco, ma su se stesso.

In Luca 22 e Giovanni 18 troviamo una situazione che ci può aiutare a capire quello che stiamo dicendo. La richiesta di Gesù di evitare la coppa, se possibile, non deve farci pensare ad una paura della morte in croce, ma piuttosto ad una distinzione tra la coppa stessa e la volontà di Dio.

La coppa rappresentava sicuramente l’opera che Dio voleva portasse a termine e questa includeva la croce. La volontà di Dio era qualcosa che si trovava dietro a tutto ciò, nel suo stesso cuore.

La coppa rappresenta l’opera di redenzione della razza umana e Gesù sapeva che questa era la sua opera prima ancora di lasciare il Cielo, ma non era così legato ad essa da non poterla lasciare.

Il suo “se possibile” si riferiva ad altre possibili alternative, che la sua umanità poteva portarlo anche a desiderare, sempre però che il Padre le avesse consentite.

In Lui comunque non c’era spazio per un “se possibile” riferito alla volontà di Dio, perché questa doveva compiersi in ogni caso. Gesù non voleva essere crocefisso ad ogni costo, ma voleva compiere la volontà di Colui che lo aveva mandato.

La croce poteva subire delle varianti, se Dio così lo avesse voluto, ma la sua volontà è qualcosa che esce dal suo stesso cuore e deve essere compiuto.

Tutto ciò che a Gesù interessava era la volontà del Padre e la decisione di come si sarebbe compiuta questa volontà era nelle mani di Dio e non nelle sue.

 

Quindi, la coppa rappresenta l’opera e la volontà di Dio stesso. A noi deve interessare più la persona del nostro Padre celeste che non ciò che Lui desidera che facciamo.

Quando Gesù comprese che la croce era senza dubbio la volontà di Dio in quel momento poté rispondere a Pietro: “Non berrò io il calice che il Padre mi ha dato?” (Giovanni 18:11).

Gesù diede la giusta priorità alle cose: la volontà del Padre prima dell’opera che essa involucrava.

Come siamo perversi! Prima che Isacco arrivi non lo desideriamo, così come Abramo, ma dopo non riusciamo più a fare a meno di lui e ci afferriamo tenacemente a lui.

Prima ci opponiamo a Isacco e poi lo possediamo. E questa è la ragione di Moriah, la prova a cui Dio dovette sottoporre Abramo.

Amiamo l’opera che Dio ci ha dato da compiere più del Donatore? Oppure la nostra comunione con Dio non subisce variazioni sia che ci venga dato o tolto Isacco? Solo in questo caso può essere mantenuto sulla terra ciò che rappresenta Isacco.

E Abramo non mormorò, ma ubbidì in silenzio (Genesi 22:5). Fu allora che Dio restituì Isacco, perché il legame possessivo era stato rotto. Abramo rinunciò a farsi grandi visioni di Isacco e lo lasciò nelle mani di Dio e alla sua volontà nei suoi confronti.

 

Abramo, così, scoprì non solo che Dio è il Dio della creazione, ma che è anche il Dio della risurrezione (Ebrei 11:9).

Non fu giustificato per le sue opere, ma le sue opere perfezionarono la sua fede. Le opere manifestano l’esistenza della fede (Giacomo 2:21-23).

Tutto ciò che realmente ha valore per noi, anche l’opera che Dio ci dà da compiere, così come la nostra conoscenza della volontà di Dio, deve passare per la morte e risurrezione.

Nella risurrezione riconosceremo che tutto è opera meravigliosa di Dio e non oseremo tenerla più nelle nostre mani. Isacco nasce in casa nostra, ma abita in quella di Dio. Non è cosa che mi appartenga. Dio è il tutto e nulla è maggiore di Lui (Genesi 22:16).

In risposta a questo suo atto di ubbidienza Dio rivela ad Abramo il completo sviluppo della sua promessa (Genesi 22:15-18). La chiamata di Abramo prima riferita alla territorio e poi al popolo di Dio, si allarga adesso a tutte le nazioni della terra.

Abramo, tramite queste profonde esperienze, era giunto a conoscere Dio non solo come il Donatore, cioè Colui che elargisce doni, ma come il Padre, la fonte di ogni cosa.

Fu questo che lo qualificò per essere il padre dei credenti e per essere il vaso di Dio nel suo programma di ricupero di questa terra perduta.

 

 

 

 

 

 

La  legge

 

“Il peccato non vi signoreggerà, poiché non siete sotto la legge, ma sotto la grazia” (Romani 6:14). Molti, però, non conoscono ancora bene il concetto di liberazione dalla Legge.

Ma qual è il significato della Legge? La Grazia significa che Dio fa qualcosa per me, mentre la Legge che io faccio qualcosa per il Signore.

Iddio ha esigenze di santità e di giustizia a cui sono chiamato a rispondere: questa è la Legge. Ora, se la Legge significa che Dio mi comanda di adempiere certe cose, la liberazione dalla Legge significa che ne sono dispensato, perché vi ha provveduto Egli stesso.

Io, cioè l’uomo carnale di Romani 7:14, non ho bisogno di fare nulla per il Signore e questa è la liberazione dalla Legge, è l’opera della Grazia di Gesù in noi.

La difficoltà di Romani 7 consiste nel fatto che l’uomo, con la sua natura peccaminosa, si sforza di fare qualcosa per il Signore. Se cerchiamo di piacere a Dio con questo mezzo ci mettiamo sotto la Legge e l’esperienza descritta in questo capitolo dei Romani diventa nostra.

L’errore non è nella Legge (Romani 7:12) e non c’è nulla di cattivo nella Legge, ma c’è qualcosa di decisamente malvagio in noi. Le esigenze della Legge sono giuste, ma l’uomo a cui è imposto il dovere di adempierle è corrotto.

 

Io sono un uomo “venduto al peccato” (Romani 7:14) e il peccato domina la mia vita. Certo, fino a che mi si lascia tranquillo posso sembrare un uomo per bene, ma quando mi si chiede di fare qualcosa, allora la mia natura di peccato si manifesta.

La Legge mette in evidenza la nostra debolezza. Una Legge santa e giusta, infatti, non può essere rispettata ed adempiuta da un uomo peccatore. Nel momento in cui quest’uomo dovrà osservarla scrupolosamente si manifesterà in pieno la sua incapacità e il suo stato di peccato.

C’è poi un problema che complica il cammino verso la liberazione dalla Legge. Noi pensiamo probabilmente di essere dei peccatori, ma non così malvagi come gli altri. Pensiamo che, in fondo, c’è qualcosa di buono in noi.

Iddio, perciò, ci deve portare tutti al punto dal quale possiamo vedere che siamo profondamente deboli ed impotenti. Noi, in fondo, riconosciamo questa realtà, ma non la crediamo del tutto.

Dio, allora, ha dovuto fare qualcosa per convincerci e ci ha dato la Legge. Senza la Legge, infatti, non avremmo mai conosciuto la misura della nostra debolezza (Romani 7:7).

 

Più ci sforzeremo di osservare la Legge e più la nostra debolezza si manifesterà, con la conseguenza di affondare sempre più profondamente in Romani 7. Solo a questo punto potremo essere convinti della nostra disastrosa incapacità.

Per questo, dunque, Dio ci ha dato la Legge: per trasgredirla!

Egli sapeva bene che eravamo impossibilitati ad adempierla e nessun uomo è riuscito a rendersi gradito a Dio per mezzo della Legge.

Nel Nuovo Testamento non è scritto di osservare la Legge, ma è detto che la Legge è stata data affinché vi fosse trasgressione (Romani 5:20).

La Legge, quindi, ci è stata data per farci conoscere che siamo trasgressori (Romani 7:7-9) e per rivelarci la nostra vera natura.

Purtroppo siamo così orgogliosi e ci crediamo così forti che Dio deve farci attraversare delle prove per dimostrare quanto siamo deboli.

No, la Legge non è stata data con la speranza che noi potessimo osservarla, ma con la piena certezza che sarebbe stata violata.

E quando l’abbiamo trasgredita così pienamente da renderci convinti della nostra estrema miseria, la Legge ha raggiunto il suo scopo. Essa è stata il nostro pedagogo per condurci a Cristo, affinché Egli la adempisse in noi (Galati 3:24).

 

La fine di noi stessi è il principio di Dio in noi: “Compite la vostra salvezza con timore e tremore; poiché Dio è quel che opera in voi il volere e l’operare per la sua benevolenza” (Filippesi 2:12-13).

Liberazione dalla legge non significa affatto che saremo dispensati dal compiere la volontà di Dio e non significa nemmeno che noi vivremo senza legge. Al contrario!

Quel che significa ora è che siamo liberati dallo sforzo di compierla confidando solo su  noi stessi. Pienamente convinti dell’incapacità di adempierla, cessiamo ogni sforzo di piacere a Dio sulla base del nostro vecchio uomo.

Pervenuti, infine, al punto di diffidare delle nostre capacità, mettiamo la nostra fiducia nel Signore, perché Egli manifesti la sua vita risorta in noi. Diciamo, quindi: “Signore, io non posso fare questo e confido in te affinché Tu lo faccia in me” e così potremo trovare una forza superiore alla nostra che agisce per noi.

Finché ci sforziamo di fare qualcosa, Dio non può agire in noi e per noi ed è proprio a causa dei nostri sforzi che cadiamo e ricadiamo. Dio ci vuol dimostrare che non sappiamo e non possiamo far nulla da noi stessi e che, finché non lo riconosciamo pienamente, i nostri disappunti e le nostre delusioni non cesseranno.

 

Spesso ci sentiamo deboli per compiere la volontà di Dio, ma non abbastanza deboli per non cercare di farla. Quando saremmo ridotti ad una debolezza estrema e saremo persuasi della nostra assoluta incapacità, allora Dio farà tutto.

Per salvare una persona che sta annegando è meglio lasciare che esaurisca le sue forze nel tentativo di non andare sotto e soccorrerla nel momento in cui sta abbandonandosi al suo destino. Può sembrare crudele, ma è l’unico modo per evitare che anneghi anche chi va a soccorrerla, dato che la persona che è in pericolo si aggrapperebbe al suo soccorritore con troppa forza.

Così Dio attende che siamo agli estremi delle nostre risorse e che non possiamo fare più nulla da noi stessi. Dio ha condannato tutto quello che faceva parte della creazione e l’ha inchiodato sulla croce.

La carne non serve a niente e Dio ha detto che è solo degna della morte. Se crediamo questo veramente, dobbiamo confermare la sentenza di Dio abbandonando ogni sforzo di volontà per piacergli.

Ogni nostro tentativo di compiere la sua volontà, infatti, è una smentita evidente a quello che Dio ha dichiarato con la croce, e cioè che siamo del tutto impotenti a farlo.

 

In Romani 7 c’è un errore fondamentale di concetto nel pensiero di Paolo. Lui immaginava che Dio gli domandasse di osservare la Legge, cosa che naturalmente cercava di fare.

Dio, però, non gli chiedeva nulla di simile e così, lungi da fare ciò che era gradito al Creatore, si trovò a compiere ciò che gli dispiaceva.

Nel suo stesso sforzo di compiere la volontà di Dio faceva esattamente il contrario di quello che sapeva essere il precetto divino.

Se per ricevere il perdono guardiamo al Cristo sulla croce, per essere liberati dal peccato e poter compiere la volontà di Dio guardiamo al Cristo presente nel nostro cuore.

Il nostro perdono dipende da quello che Lui ha compiuto per noi e la nostra liberazione da quello che compirà in noi: “E’ Dio che opera in noi il volere e l’operare…” (Filippesi 2:13).

Dio vuol compiere tutto, perché tutta la gloria deve andare a Lui. Se noi collaborassimo nell’opera, parteciperemmo alla sua gloria, sapendo in maniera convinta che è Lui ad aver compiuto tutta l’opera dal principio alla fine.

 

 

 

 

 

 

Camminare nello Spirito

 

Vivere nello Spirito significa che confido nello Spirito Santo, perché compia in me quello che non posso fare da me stesso. Questa vita è completamente diversa da quella che io vivrei naturalmente.

Ogni volta che mi trovo di fronte ad una nuova domanda del Signore guardo a Lui, affinché compia Egli stesso ciò che si attende da me. Non devo provare, ma credere; non devo lottare, ma solo riposare in Lui.

Se ho un carattere irritabile, pensieri impuri, una lingua troppo lunga, o uno spirito critico, non cercherò di trasformarmi con uno sforzo che mi sembri appropriato, ma invece, considerandomi come morto nel Cristo a tutte queste cose, aspetterò dallo Spirito di Dio la calma, la purezza, l’umiltà, la dolcezza di cui ho bisogno. Come dice la Scrittura: “State fermi e mirate la liberazione che il Signore compirà oggi per voi” (Esodo 14:13).

 

Quando lo Spirito Santo prende la nostra vita nelle sue mani non dobbiamo opporci. Non si tratta di stringere i denti, pensando che così ci siamo magnificamente controllati ed abbiamo riportato una gloriosa vittoria. No! Dove c’è una vera vittoria non sono gli sforzi umani a procurarla, ma il Signore Gesù.

“La carne ha desideri contrari allo Spirito, e lo Spirito ha desideri contrari alla carne” (Galati 5:17), cioè la lotta contro la carne non è affar nostro, ma dello Spirito Santo, perché esiste una tale opposizione tra loro che a combattere e trionfare sulla carne non può essere altro che lo Spirito.

Qual è il risultato? Che “non possiamo fare quello che vorremmo”.

Che cosa faremmo noi, naturalmente? Ci lanceremmo in una linea d’azione dettata dai nostri propri istinti, fuori dalla volontà di Dio. Invece, il rifiuto di agire da noi stessi permette allo Spirito Santo di dominare la carne che ci tiranneggia, così che non facciamo quello che saremmo inclinati a fare per natura.

Invece di procedere per la strada indicata dalle nostre inclinazioni naturali, troveremo la nostra gioia nel rimanere nel suo piano perfetto.

 

Perciò abbiamo quest’ordine assai concreto: “Camminate per lo Spirito, e non adempirete i desideri della carne” (Galati 5:16). Se viviamo nello Spirito e se camminiamo per fede nel Cristo risuscitato, possiamo realmente “metterci da parte” e lasciare che lo Spirito riporti ogni giorno nuove vittorie sulla carne. Lo Spirito ci è stato dato esattamente perché si assumesse questo incarico.

La nostra vittoria consiste nel nasconderci in Cristo e nel confidare, con semplice ma assoluta certezza, nel suo Spirito Santo, affinché superi le nostre passioni carnali con i suoi nuovi desideri.

La croce è stata data per procurarci la salvezza, lo Spirito è stato dato per mettere questa salvezza in noi. Il Cristo risuscitato ed elevato al Cielo è il fondamento della nostra salvezza, il Cristo che dimora nei nostri cuori per lo Spirito è la sua potenza, ciò che la rende effettiva.

 

Se ci irritiamo con facilità, non domandiamo a Dio più pazienza, perché non è di questa che abbiamo bisogno, ma di Cristo. Dio non mi darà umiltà, o pazienza, o santità, o altro come doni isolati della sua Grazia e non la spezzetterà per distribuircela in piccole dosi. Non accorderà una misura di pazienza a chi è impaziente, un po’ d’amore a chi non ha amore, un po’ d’umiltà a chi è orgoglioso, come se ciascuno di noi avesse un deposito a disposizione per ricavarne la quantità sufficiente al momento.

Ma Dio ci ha fatto un solo dono che risponde a tutti i nostri bisogni: il suo Figliolo Gesù Cristo. E quando guardiamo a Lui perché viva la sua vita in noi, sarà Lui umile al nostro posto, paziente, pieno d’amore e tutto quello di cui avremo bisogno. Egli è tutto quello che io non posso, ma devo essere (1 Giovanni 5:11-12).

La nostra relazione col Cristo è la nostra relazione con la vita, perché la vita di Dio è nel Figlio. La santità è il Cristo!

Tutto è compreso in Lui: l’amore, l’umiltà, la forza, il controllo di sé, ecc. Se oggi ho bisogno di pazienza, Lui è la mia pazienza. Se domani avrò bisogno di purezza, Lui è la mia purezza.

Gesù è la risposta a tutti i nostri bisogni. Per questo Paolo parla del “frutto dello Spirito” come di un frutto solo (Galati 5:22) e non di molti frutti, come se fossero doni separati. Gesù, quindi, è la risposta a tutti i bisogni di tutti gli uomini.

 

Come possiamo conoscere più a fondo il Cristo in questo modo? Soltanto attraverso una coscienza maggiore dei nostri bisogni.

Certi credenti hanno paura di scoprire la loro insufficienza e così non crescono mai. La crescita “nella grazia” è la sola maniera nella quale possiamo crescere e la grazia, come abbiamo detto, è Dio stesso che agisce al nostro posto. Lo sviluppo è la conoscenza progressiva delle risorse di Dio in noi tramite il Cristo.

Graz Cristo, quindi, possiamo dire come Paolo: “Io posso ogni cosa in Colui che mi fortifica” (Filippesi 4:13). Come è possibile dire questo? La risposta è in Romani 8:1-2 e cioè la “legge dello Spirito della vita” è più forte dell’altra legge che opera in noi e che è chiamata “la legge del peccato e della morte”.

Che cos’è una legge? E’ la ripetizione di un fatto osservato fino al punto in cui è provato il suo ripetersi senza eccezione. E’ quindi una situazione che si ripete continuamente. Tutte le volte che riappare lo fa sempre nello stesso modo.

Prendiamo per esempio la legge di gravità. Se non trattengo più il mio fazzoletto nelle mie mani qui a Bergamo, finirà a terra. La stessa cosa si ripeterà a Milano, Parigi, Londra, New York, ecc. Poco importa dove mi trovi, la forza di gravità farà cadere a terra il fazzoletto in ogni punto del globo terrestre. Esiste, quindi, una legge di gravità dei corpi.

 

E cos’è, allora, la legge del peccato e della morte? Se, per esempio, qualcuno mi fa un’osservazione poco garbata, io mi sento immediatamente ferito. Questa non è una legge, ma il peccato. Se, però, diverse persone in tempi diversi e in luoghi diversi mi fanno delle osservazioni scortesi ed io reagisco sempre nello stesso modo, scopro allora una legge in me, una legge di peccato.

Come la legge di gravità questa legge è costante e si ripete sempre nello stesso modo. La legge della morte è l’incapacità di compiere la volontà di Dio malgrado ci sia il desiderio.

Non solo la gravità, quindi, è una legge nel senso che è costante e non ammette eccezioni, ma, a differenza di leggi stabilite come può essere l’istituzione di un senso unico che successivamente può essere rimosso, è una legge “naturale” che non è il frutto di valutazioni e di decisioni, ma che va semplicemente scoperta e accettata per quello che è.

La legge esiste ed il fazzoletto cade “naturalmente” a terra, da solo, senza alcun aiuto da parte mia. E la legge definita in Romani 7:23 è esattamente della stessa natura. E’, cioè, una legge di peccato e di morte, che paralizza l’uomo che vorrebbe fare il bene e che lo porta a peccare “naturalmente” secondo la “legge del peccato” che è nelle sue membra. Vorrebbe essere diverso, ma la legge che è in lui è implacabile e nessuna volontà umana può resistervi.

 

Ma come posso essere liberato dalla legge del peccato e della morte?

Riprendiamo l’esempio della legge di gravità. Come può essere annullata questa legge? In quello che concerne il mio fazzoletto, basta che lo tenga stretto nella mia mano perché non cada. La legge di gravità, però, esiste sempre, non la possiamo annullare. Perché allora il mio fazzoletto non cade a terra? Perché stiamo applicando una forza che glielo impedisce. La legge di gravità continua ad esistere, ma c’è un’altra legge che le è superiore e trionfa su di essa, la legge della vita.

Un filo d’erba perfora l’asfalto, una pianta si fa spazio in una pietraia: è la legge della vita.

In un modo simile Dio ci libera dalla legge del peccato e della morte, introducendo in noi un’altra legge. La legge del peccato esiste sempre, ma Dio ha messo in opera un’altra legge e, cioè, la legge dello Spirito della vita in Gesù.

Questa legge è tanto potente da liberarci da quella del peccato e della morte. La vita di risurrezione che è in Cristo ha incontrato la morte sotto tutti i suoi aspetti ed ha trionfato su di essa (Efesini 1:19-20).

Il Signore Gesù dimora nei nostri cuori nella persona dello Spirito Santo e se, confidando in Lui, gli lasciamo la libertà d’agire, vedremo che la sua legge di vita ci libera dalla legge del peccato. Impareremo cosa significhi essere sostenuti non dalle nostre forze inadeguate, ma dalla “potenza di Dio” (1 Pietro 1:5).

 

Se abbandoniamo la nostra forza di volontà e confidiamo in Lui, noi non cadremo e non saremo oppressi, ma entreremo nel dominio di una legge diversa, la legge dello Spirito della vita. Dio, infatti, non ci ha dato solamente la vita, ma una legge di vita.

E come la legge di gravità è una legge naturale e non il prodotto di legislazioni umane, così la legge della vita è una legge “naturale” simile al principio della legge che regola i battiti del cuore o che controlla l’apertura e la chiusura dei polmoni.

Non abbiamo bisogno di pensare ai polmoni, né di decidere la frequenza del battito cardiaco, perché così facendo potremmo solo procurare delle complicazioni, mentre il cuore, finché ha vita, agisce spontaneamente.

E’ inutile che ci preoccupiamo per sapere se abbiamo fame o no, perché avere fame è una legge naturale.

E’ bene che noi leggiamo la Bibbia, perché altrimenti la nostra vita spirituale ne risentirà. Ciò, però, non significa che dobbiamo sforzarci a leggerla, in quanto in noi c’è una nuova legge che ci procura la fame della Parola. Una mezz’ora di lettura spontanea, quindi, sarà più efficace di cinque ore forzate. Lo stesso vale per la predicazione, la testimonianza, l’esercizio dei doni.

 

Se lasciamo vivere in noi la nuova legge, saremo meno coscienti di quella antica. Essa esiste ancora, ma non ci domina più e non siamo più sotto la sua influenza.

Gli uccelli non devono sforzarsi per volare, perché non è il frutto di un atto di volontà, ma è la loro vita, la loro natura. Un uccello che non vola non è più un uccello.

Così per noi la possibilità di vivere santamente non è più una questione di volontà, ma il frutto della vita di Dio che agisce nella sua naturalezza.

Questa vita che abbiamo dentro ci può dire per esempio: “La tua voce è troppo alta…questo ridere è fuori posto…la ragione per la quale hai fatto questa osservazione non è buona”, ecc.

Lo Spirito di vita può insegnarci come agire e produrre in noi una vera educazione, e questo in tutti i campi della nostra vita quotidiana.

 

Cosa significa “camminare nello Spirito”? Significa due cose. La prima che non è un’opera, ma un cammino. Cioè, che gli sforzi disperati, estenuanti fatti nel tentativo di piacere a Dio nella carne devono lasciare il posto al riposo ed alla gioia nella dipendenza dalla “sua forza che agisce con potenza in me” (Colossesi 1:29).

Per questo Paolo mette in opposizione le “opere” della carne con il “frutto” dello Spirito (Galati 5:19-22).

Inoltre, “camminare nello Spirito” implica sottomissione. Camminare secondo la carne significa che cediamo alle esigenze della carne e Romani 8:5-8 ci mostra dove ciò ci conduce, cioè ad una posizione di conflitto con Dio.

Camminare nello Spirito significa essere sottomessi allo Spirito e ogni forma di indipendenza dal Signore impedisce a Lui di avere l’iniziativa nella mia vita.

Soltanto se ci dedichiamo ad obbedirgli vedremo la “legge dello Spirito della vita” agire pienamente e la “giustizia prescritta dalla legge” adempiuta perfettamente non più da noi, ma in noi: “Poiché tutti quelli che sono condotti dallo Spirito di Dio, sono figlioli di Dio” (Romani 8:14).

 

L’amore è qualcosa di nascosto nel cuore di Dio. La grazia è questo amore espresso e offerto nel suo Figliolo. La comunione è il dono di questa grazia per mezzo dello Spirito.

Ciò che il Padre ha determinato a nostro riguardo, il Figlio lo ha compiuto per noi ed ora lo Spirito Santo ce lo comunica.

Così, quando scopriamo qualcosa di ciò che il Signore Gesù ci ha acquistato con la sua croce, cerchiamo di appropriarcene nella maniera che Dio ci ha indicato e con un atteggiamento di ferma sottomissione e ubbidienza allo Spirito Santo teniamo il nostro cuore completamente aperto affinché possiamo riceverlo.

Lo Spirito Santo è venuto per compiere in noi ciò che è già nostro attraverso l’opera perfetta del Cristo.