NOI e DIO
Egoismo
Avere come meta la nostra felicità ci porta ad essere in disaccordo con Dio.
Dio è amore e si manifesta in due forme: la benevolenza, desiderare cioè la felicità degli altri, e la compiacenza, approvare cioè il carattere di quelli che sono santi.
Dio ama il prossimo come se stesso e considera gli interessi di tutti gli esseri cos come considera i propri. Cerca la propria felicità, o gloria, come il bene supremo, non perché sia sua, ma perché è il bene supremo, o sommo bene possibile, al quale anche altri possono attingere.
La somma totale della sua felicità, come essere infinito, è maggiore della somma totale della felicità degli altri esseri.
Facciamo un esempio:
Un uomo è molto benevolo verso gli animali. Uno dei suoi cavalli cade in un fiume in piena. E’ vera benevolenza che quest’uomo anneghi per poter salvare il cavallo? No!
E’ una benevolenza disinteressata verso la sua famiglia che quest’uomo salvi la propria vita a scapito di quella del cavallo. La felicità dei suoi cari, infatti, è di ben più grande valore di quella del cavallo.
La differenza tra Dio e le creature è di gran lunga maggiore. Se siamo come Dio, dobbiamo considerare la felicità e gloria di Dio dallo stesso punto di vista, e cioè come il bene supremo, quel bene che supera qualsiasi altro bene presente nell’universo.
Se desideriamo la nostra felicità più della felicità di Dio, siamo fondamentalmente diversi da Lui.
Avere la propria felicità come l’obiettivo supremo non è compatibile con la vera religione, perché è contrario allo Spirito di Cristo.
Gesù non cercò la sua gloria e neanche la sua salvezza personale, tanto meno la sua felicità, ma la gloria del Padre e il bene dell’universo per mezzo della salvezza dell’uomo.
E’ venuto con un messaggio di pura benevolenza per beneficiare il regno di Dio e non se stesso. Era questa la soddisfazione che provava e che gli ha permesso di accettare la croce e la vergogna che derivava da una morte simile.
Considerare la propria felicità come l’obiettivo supremo da perseguire è contrario alla legge di Dio.
La legge dice: “Amerai il tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima…e il prossimo tuo come te stesso”.
Ci viene richiesta benevolenza verso Dio e gli uomini. Ci viene chiesto di amare la felicità e la gloria di Dio al di sopra di qualsiasi altra cosa, non solo perché Lui è infinitamente degno di amore e desiderabile, ma anche perché è il sommo bene.
Noi dobbiamo trasmettere questo sommo bene agli altri.
Cercare il proprio interesse come bene supremo è contrario al Vangelo.
1 Corinzi 13:1-7 ci dice che senza amore non siamo nulla e ci mostra una delle caratteristiche principali di questo amore, quella di non cercare il proprio interesse.
“Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà” (Matteo 16:25). Qui viene stabilito il principio del governo di Dio, e cioè che se una persona cerca il proprio interesse come bene supremo, lo perderà.
“Nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma ciascuno cerchi quello degli altri” (1 Corinzi 10:24). Al posto di “vantaggio” possiamo mettere “felicità” o “ricchezza”.
“Così come anch’io compiaccio a tutti in ogni cosa, cercando non l’utile mio proprio, ma quello dei molti, perché siano salvati” (1 Corinzi 10:33). Conferma che cercare il proprio beneficio come bene supremo è contrario alla legge e anche al Vangelo.
Cercare il proprio interesse come bene supremo è contrario alla coscienza.
La coscienza universale dell’umanità sa che considerare la propria felicità come bene supremo non è una virtù. C’è, quindi, quasi in tutti il tentativo di dissimulare il proprio egoismo con atti di benevolenza.
Cercare il proprio interesse come bene supremo è contrario alla ragione.
La ragione ci permette di considerare il valore reale e quello relativo delle cose.
Cercare il proprio interesse come bene supremo è contrario al buon senso, o senso comune.
Si potrà considerare patriota uno che, lottando per il suo paese, ha come meta venir incoronato re? Il patriottismo, per essere tale, deve essere disinteressato.
Cercare il proprio interesse come bene supremo è contrario alla costituzione della nostra mente.
Cercare la felicità, senza identificarla con una meta ben precisa, non darà altro che frustrazione. La meta da ricercare, poi, deve essere disinteressata per produrre vera felicità.
Due persone vanno lungo una strada quando vedono un uomo ferito steso a terra. La soddisfazione dei due sarà in proporzione all’intensità del desiderio di portare sollievo al ferito.
Se la preoccupazione sarà scarsa, anche la soddisfazione sarà piccola. Se, invece, il desiderio di aiutarlo arriva fino all’agonia, allora la soddisfazione nel prestargli soccorso sarà grande. Ma se questo desiderio manca, lo si lascerà morire sulla strada, perché aiutarlo non sarebbe motivo di alcuna soddisfazione.
La felicità, quindi, è in proporzione al desiderio e alla soddisfazione dell’ individuo. Il desiderio, però, deve essere virtuoso, perché se è egoista la soddisfazione si mescolerà col dolore del conflitto mentale.
Cercare il proprio interesse come bene supremo è contrario al raggiungimento della nostra felicità.
Gli uomini godono di un certo piacere, ma non di vera felicità. Il piacere che non procede dalla soddisfazione di un desiderio virtuoso è un’illusione e un inganno.
La ragione per cui l’umanità non trova la felicità sta nel fatto che si affanna a cercarla. Se il motivo della nostra ricerca fosse la gloria di Dio e il bene dell’universo come fine supremo, la felicità verrebbe come conseguenza logica.
Cercare il proprio interesse come bene supremo è contrario e incompatibile con la felicità pubblica.
Se ogni individuo ha come obiettivo supremo la propria felicità, questi interessi entrerebbero in conflitto tra loro con conseguente confusione e guerra universale.
Sottomissione
La sottomissione consiste nell’acconsentire e accettare in modo completo ogni intervento e dispensazione provvidenziale di Dio, sia che si riferisca a noi, agli altri o all’universo.
L’ubbidienza concreta alla legge morale di Dio è l’espressione della nostra sottomissione.
La legge di Dio richiede in modo assoluto che subordiniamo la nostra felicità alla gloria di Dio e al bene dell’universo. E finché non entriamo in questa dimensione, siamo nemici di Dio e dell’universo, nonché figli dell’inferno.
Il Vangelo conferma la legge: “Cercate prima il regno e la giustizia di Dio”. Questo testo ci dice che ognuno deve fare della prosperità del regno di Dio il suo primo obiettivo e indica il dovere di mirare alla santità e non alla nostra felicità.
La felicità è in relazione con la santità, con l’ubbidienza a Dio e con la volontà di onorarlo e glorificarlo.
“Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualche altra cosa, fate tutto alla gloria di Dio” (1 Corinzi 10:31). Ciò significa che anche la soddisfazione degli appetiti naturali deve essere subordinata alla gloria di Dio.
“Ciascuno di voi, invece di cercare il proprio interesse, consideri anche quello degli altri” (Filippesi 2:4). Il nostro bene, quindi, non è prioritario, ma quello degli altri.
“E chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per amore del mio nome, ne riceverà cento volte tanto, ed erediterà la vita eterna” (Matteo 19:29). La ricompensa non viene mostrata qui come motivazione per il nostro agire, ma è l’amore a Cristo e al Vangelo che ci procurerà questa ricompensa come conseguenza.
L’amore disinteressato è la vera religione (1 Corinzi 13) e non ha come fine l’egoismo, ma cerca la felicità degli altri.
La vera sottomissione implica accettazione del castigo di Dio, e cioè l’esclusione del peccatore impenitente dal suo regno.
La terra è una provincia ribelle all’ordine universale di Dio e ogni uomo deve riconoscere che nella sua condizione non può partecipare all’armonia dell’universo (merita l’inferno, o appartiene all’inferno), perché in cuor suo non la desidera e non può costruirla.
La vera sottomissione implica accettazione della sovranità di Dio.
Il dovere di ogni sovrano è di vedere che i suoi sudditi si sottomettano al suo governo. E’ anche suo dovere promulgare leggi che, se ubbidite da ogni individuo, avranno come conseguenza il bene pubblico nel più alto grado possibile.
Se qualcuno si rifiuta di ubbidire è suo dovere prendere questo individuo ribelle con la forza e far sì che si sottometta all’interesse pubblico nel miglior modo possibile. Se non vorrà sottomettersi volontariamente al bene pubblico, dovrà farlo contro la sua volontà. Il governo deve chiuderlo in prigione o giustiziarlo, o farne un esempio di sofferenza, o, se il bene pubblico ammette misericordia, concedere la grazia perché possa servire per l’interesse generale.
Dio è sovrano e trascurerebbe i suoi doveri di governante, se non chiedesse l’applicazione della legge, che ha come fine gli interessi, l’equilibrio, la prosperità, la libertà e la felicità dell’universo.
La vera sottomissione implica l’accettazione delle richieste del Vangelo, che sono:
- Pentimento, e cioè dolore per il peccato e rifiuto dello stesso.
- Fede, e cioè totale fiducia in Dio per potergli consacrare tutto il nostro essere e permettergli di fare con noi quello che Lui riterrà giusto.
- Santità, e cioè benevolenza disinteressata.
- Accettazione della grazia di Dio, e cioè il riconoscimento della nostra mancanza di diritti nella salvezza che Dio ci offre.
- Ricevere Cristo come Signore, e cioè l’accettazione totale della forma di salvezza che Dio ha previsto.
Amore
“L’amore non fa nessun male al prossimo; l’amore quindi è l’adempimento della legge” (Romani 13:10).
L’amore esiste in due forme: la benevolenza e la compiacenza.
La benevolenza si esprime nel volere e cercare il massimo beneficio per il prossimo e si esercita verso tutti gli esseri, indipendentemente dal loro carattere morale.
La compiacenza è l’approvazione del carattere della persona. Viene rivolta, quindi, solo verso i buoni e i santi.
L’amore può esistere come affetto o come emozione. Quando è affetto è volontario e consiste in un atto della volontà, quando è emozione è un fatto involontario. Ciò che chiamiamo sentimenti o emozioni sono atti involontari, cioè non dipendono direttamente dalla volontà.
La virtù dell’amore è maggiore quando si manifesta in forma di affetto. Nessuno può sperimentare l’emozione dell’amore per il semplice fatto di desiderarlo, mentre l’emozione può esistere a discapito della volontà. La volontà, però, può controllare l’emozione in modo indiretto, per esempio dirigendo la mente su un certo oggetto o deviando l’attenzione da quell’oggetto.
Le emozioni d’amore verso Dio vengono sperimentate quando esercitiamo nei suoi confronti amore in forma di affetto. Non sempre , però, l’emozione accompagna l’amore affetto.
L’amore al prossimo implica l’esistenza dell’amore per Dio e viceversa.
“Non abbiate altro debito con nessuno, se non di amarvi gli uni gli altri; perché chi ama il prossimo ha adempiuto la legge” (Romani 13:8).
“Se adempite la legge regale come dice la Scrittura: Ama il tuo prossimo come te stesso, fate bene” (Giacomo 2:8).
L’amore al prossimo costituisce l’ubbidienza a tutta la legge. La religione non è altro che l’amore verso Dio e il prossimo. Essere perfetto nell’amore significa essere perfetto come Dio è perfetto.
Tutti gli attributi morali di Dio consistono nell’amore. La giustizia di Dio nel castigare i cattivi e la sua ira contro il peccato rappresentano l’esercizio del suo amore per la felicità del suo regno.
La fede che ci lega a Dio deve essere mossa dall’amore. Anche il diavolo crede, ma non ama (1 Corinzi 13:1-3).
Una forte emozione non deve essere obbligatoriamente presente nel perfetto amore. Gesù, in genere, manifestava poca emozione o entusiasmo, il suo amore, però, era perfetto. A volte la sua indignazione era grande, così come la sua pena per la durezza del cuore degli uomini. Leggiamo anche che gioiva nello spirito, ma non manifestava mai un alto grado emotivo.
Per il perfetto amore non è essenziale esercitarlo verso tutti gli individui in ugual misura. Non è neanche possibile pensare ad ogni individuo che conosciamo nello stesso tempo. Il grado di amore verso una persona dipende dal fatto che sia presente nei pensieri.
Per il perfetto amore non è essenziale avere lo stesso spirito di preghiera per ogni individuo o per la stessa persona in ogni momento.
E’ possibile amare una persona intensamente e non avere uno spirito di preghiera nei suoi confronti. Lo spirito di preghiera dipende dall’influenza dello Spirito Santo, che conosce le cose gradite a Dio.
Non si può pregare con lo stesso fervore per tutta l’umanità. Neanche Gesù ha pregato per l’umanità intera (Giovanni 17:9).
Le debolezze fisiche non sono incompatibili con il perfetto amore.
Anche Gesù si isolava e si riposava, dovuto alle limitatezze del corpo in cui abitava.
Il perfetto amore implica che nella mente non ci sia nulla di incompatibile con l’amore. Quindi, non ci può essere odio, malizia, rabbia,invidia, né altra emozione maligna incompatibile con l’amore puro e perfetto.
Il perfetto amore implica che nella vita non ci sia nulla di incompatibile con l’amore. Quindi, tutte le azioni, parole e pensieri devono essere continuamente sotto il controllo totale e perfetto dell’amore.
Il perfetto amore implica che l’amore di Dio sia supremo. L’amore di Dio è talmente al di sopra di tutti gli altri oggetti che nulla può compararsi a Lui.
Il perfetto amore implica che l’amore per Dio deve essere disinteressato. Dio deve essere amato per ciò che è, per l’eccellenza del suo carattere e non per la sua relazione con noi.
Il perfetto amore implica che l’interesse e la felicità del prossimo devono essere considerati alla stessa stregua del nostro interesse e felicità.
Un effetto dell’amore perfetto verso Dio e gli uomini è l’abnegazione con cui mi dedicherò agli interessi del regno di Dio e alla salvezza dei peccatori.
I genitori danno tutto per i loro figli. Gesù provò più gioia nel realizzare la salvezza dell’umanità di quanto i suoi santi gioiscano nel ricevere favori da Lui. “Per la gioia che gli era posta dinnanzi egli sopportò la croce” (Ebrei 12:2). L’apostolo Paolo non contò come afflizioni le penalità che dovette sopportare per amore al Vangelo.
Un effetto del perfetto amore è quello di liberare l’anima dal potere dei motivi legali. Il perfetto amore conduce una persona a ubbidire a Dio non perché tema la sua ira o speri ricevere una ricompensa, ma perché ama Dio e vuole fare la sua volontà.
Due estremi negativi: fare le cose giuste perché sono giuste, senza riferimento alla volontà di Dio, o agire per amore in ciò che si fa, senza riferimento all’autorità di Dio come Governante e Legislatore.
Se faccio una cosa perché mi piace, senza riferimento ad una persona, non è virtù. L’amore per Dio porterà a fare una cosa perché è la sua volontà.
Un effetto del perfetto amore è il morire alle cose del mondo.
L’amore perfetto non ci porterà a cercare altro interesse al di fuori della volontà di Dio. Non ci saranno influenze da parte del sentimento pubblico.
Una donna innamorata lascerà amici e ricchezza pur di essere unita all’uomo che ama. C’è un affetto che la assorbe completamente e nulla la svia da questa sua volontà. E così è felice.
Un effetto del perfetto amore è gioia e pace perfette.
L’amore (vedi 1 Corinzi 13) ci permette di essere tolleranti in caso di opposizione o danno, sopporta le provocazioni senza vendicarsi o ingiuriare.
L’amore è tenero e affettuoso nella sua relazione con gli altri, non è rude e non fa soffrire, se non per necessità, non invidia chi è più considerato dagli altri, non si riempie di vanagloria e orgoglio, ma si mostra sempre umile, è cortese verso tutti, non è egoista e non cerca il proprio interesse, non si lascia provocare facilmente.
La persona ostinata, che si adira facilmente e si sente indignato quando le cose non vanno come vorrebbe, manca di vero amore.
Lo stesso vale per chi interpreta gli atti e le parole degli altri sotto una luce negativa o vede sempre cattive intenzioni da parte loro, per chi gioisce nella caduta del vicino ed esclama con rabbia: “Te l’avevo detto, io!”
L’amore tollera tutto. E’ disposto ad accettare qualcosa come buono anche se poche sono le evidenze in suo favore, spera nel bene, fa fiducia alla persona anche se ha ragione di sospettare il male.
L’amore non produce il male del prossimo, non inganna, non defrauda, non opprime, non desidera il male, non tende a schiavizzare.
Negazione di se stessi
Perché Dio vuole vedere che ci mortifichiamo? Perché ha piacere nel vederci crocefiggere la nostra sensibilità al piacere che Lui stesso ci ha dato?
Dio ci ha fatti degli esseri morali e razionali. Le nostre facoltà razionali sono pianificate per controllare le nostre attività volontarie e la nostra natura morale per renderci responsabili del controllo di noi stessi che Dio esige.
Negli ordini inferiori della creazione vediamo animali esenti da responsabilità morale, perché sono irrazionali e incapaci di azioni morali responsabili. Per loro la tendenza naturale è la legge fisica, perché non ne conoscono altra.
Noi, però, abbiamo una legge più elevata da ubbidire. Il maggior bene degli animali è dato dalla semplice ubbidienza alla legge fisica, ma nel nostro caso non è così.
I nostri sensi sono moralmente ciechi ed è per questo che Dio non ha voluto che dirigessero la nostra vita. Dio ci ha dato, quindi, l’intelligenza e la coscienza.
L’appetito (o desiderio egoista), quindi, non può essere la nostra regola di vita, mentre lo è per tutti gli esseri inferiori.
E’ una realtà che i nostri sensi non sono in armonia con la nostra coscienza e che, a volte, chiedono indulgenza o piacere quando, sia la coscienza che la ragione, lo proibiscono.
Se ci abbandoniamo al dominio degli appetiti e dei sensi senza criterio o norma alcuna, ci svieremo dalla buona strada.
Questi appetiti crescono quando vengono cullati e alimentati: ecco perché non devono essere la nostra regola.
I nostri appetiti avrebbero richieste costanti, reclamando indulgenza e libertà, mentre la legge di Dio, la nostra coscienza e la nostra ragione ci mettono in guardia contro i sensi e la sensualità, esortandoci a negarli per trovare il nostro bene supremo nell’ubbidienza a Dio.
Gli impulsi della coscienza, l’aiuto di Dio e l’atteggiamento fermo della nostra volontà ci permettono di vincere questi appetiti sempre più aggressivi.
La mente rinnovata
Le brevi attese della vita
“Tra poco non mi vedrete più, e tra un altro poco mi vedrete” (Giovanni 16:16).
Dopo la crocefissione di Gesù i discepoli furono invasi dal timore e dalla disperazione. Si barricarono in casa temendo di subire la stessa fine del loro Maestro. Avevano già dimenticato la profezia che Gesù aveva dato loro e cioè che il terzo giorno sarebbe risuscitato.
Malgrado la loro ansia e disperazione, Dio stava operando servendosi di questo breve lasso di tempo per portare a compimento un suo piano.
Dio stava sconfiggendo le potenze delle tenebre, che avevano tenuto fino ad allora l’uomo in schiavitù e stava creando le fondamenta della salvezza. E’ stato un tempo di attesa, di tristezza, ma di lavoro proficuo da parte di Dio.
Questa attesa doveva servire anche ai discepoli per afferrarsi alla promessa fatta da Gesù, e cioè che sarebbe tornati a vederlo. Dovevano vivere con questa fede, anche se non lo stavano vedendo, e alimentare la fiducia nelle parole di Gesù.
Ogni cristiano sperimenterà brevi momenti di attesa, momenti in cui Dio sembra essersi eclissato e in cui dobbiamo dipendere dalla fede finché non tornerà a farsi sentire.
Gesù stabilisce la meta per questo tempo di attesa: “Voi siete ora nel dolore, ma io vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi toglierà la vostra gioia” (Giovanni 16:22). Dio vuole portarci a questa gioia.
Il solo modo per superare questi momenti di attesa è di credere che Dio stia operando. Non c’è nessun’altra promessa o realtà che possa mantenerci a galla come la certezza che Dio stia operando.
La tendenza dei nostri cuori e delle nostre menti durante questi momenti di attesa è di pensare che Dio sia scomparso completamente dalla scena della nostra vita. La Bibbia, però, ci assicura che Dio sta operando.
Che cosa ci è dunque necessario per sopravvivere in questi momenti di attesa? Innanzi tutto la conoscenza, e cioè dobbiamo sapere che Dio ha un piano, che lo sta portando a compimento e che noi non stiamo passando per un periodo senza significato.
Poi dobbiamo riporre tutta la nostra fiducia nella Parola di Dio e perseverare nel dipendere da quanto scritto.
Ai discepoli era stata data conoscenza, ma non erano riusciti a rimanerci legati saldamente. La loro fede si basava principalmente sull’esperienza diretta con Gesù.
Ma anche se quell’esperienza era stata meravigliosa, non era sufficiente per sostenerli attraverso questo tempo di attesa. Avevano bisogno di una conoscenza specifica della Parola di Dio.
Ciò è evidente nell’episodio dei discepoli di Emmaus, dove Gesù chiede loro perché siano tristi. Saputa la ragione della loro tristezza, e cioè la delusione per la morte del Maestro che speravano potesse essere il Messia promesso, Gesù spiega loro le Scritture e fa loro capire che era nel piano di Dio che il Messia soffrisse una tale morte.
Man mano che la spiegazione giunge loro, sentono ardere il cuore nei loro petti: stavano percependo la conoscenza specifica del piano di Dio.
Nei momenti di sofferenza e di prova non possiamo vivere con il ricordo di un’esperienza passata, anche se meravigliosa, ma dobbiamo avere una conoscenza specifica e concreta del piano di Dio, delle sue promesse e del suo proponimento.
Così come prima del raccolto c’è un tempo di crescita della semente, anche noi dobbiamo aspettare perché ciò che Dio ha promesso e progettato per noi arrivi a completa maturazione.
Dio vuole che noi sentiamo una gioia che nessuno potrà toglierci.
I discepoli di Gesù hanno avuto una comunione meravigliosa con Lui, ma il Maestro ha dovuto portarli ad una visione che andava oltre quell’amicizia del momento e che abbracciava la comunione eterna che avrebbero goduto con Lui in cielo per tutta l’eternità.
Per questo hanno dovuto affrontare questo piccolo momento di attesa: per aggiustarsi alla visione che Dio aveva per il loro futuro.
Questo cambio di prospettiva ha avuto luogo con dolore, perché la loro visione era centrata sul tempo presente soltanto.
Dio utilizza anche per noi brevi momenti di attesa per rompere la nostra dipendenza da una visione ridotta, afferrata al tempo presente e alla dimensione terrena.
Dio utilizza anche questi brevi momenti di attesa per portarci a non dipendere più dalle nostre risorse, ma dalle sue. In questo modo potremo vedere ciò che Lui è capace di fare e che sta aspettando di fare.
In questi momenti Dio frustra i nostri sforzi fino al punto in cui siamo obbligati a guardare soltanto a Lui. Ci porta fino al limite della prostrazione per mostrarci le sue risorse illimitate.
Paolo dice: “La nostra momentanea, leggera afflizione ci produce un sempre più grande, smisurato peso eterno di gloria” (2 Corinzi 4:17).
Siamo pellegrini su questa terra e Dio ci sta preparando per cose più grandi. Con questa conoscenza non staremo più aspettando questa o quella benedizione, non vivremo più di esperienza in esperienza, ma coscienti di questo piano ben più profondo che si realizzerà totalmente in cielo.
Questi momenti di attesa non significano che Dio abbia perso ogni coscienza della nostra esistenza, ma, al contrario, significano che Dio si sta interessando alla nostra vita e che sta formando cose grandi e eterne in noi.
“…quelli che sperano nell’Eterno acquistano nuove forze, si alzano a volo come aquile; corrono e non si stancano, camminano e non si affaticano” (Isaia 40:31).
Gesù si sottopose alla crocefissione “…come l’agnello menato allo scannatoio, come la pecora muta dinanzi a chi la tosa, egli non aperse la bocca” (Isaia 53:7), perché sapeva che la croce era parte del piano di Dio per la sua vita, e ripose completamente la sua fiducia nella Parola di Dio anche in mezzo al dolore e all’umiliazione.
Superò, così, questi momenti di attesa in cui sembrava che il Padre lo avesse abbandonato (Salmo 22). Facciamo così anche noi!
Quando Dio sembra distante e nulla succede è pericolosamente facile allontanarsi dalla Parola di Dio e cadere nel peccato della disperazione (Giuseppe, venduto schiavo e cacciato in prigione, non si lasciò andare alla disperazione, ma perseverò nel credere che la sua vita era ancora nelle mani di Dio).
Quando la nostra vita spirituale è scesa a un livello basso, grande è la tentazione di cadere nel peccato. Sperimenteremo, però, una crescita spirituale dieci volte maggiore perseverando a fianco del Signore nei momenti di profonda oscurità, rispetto a quella di cui godremmo quando tutto è facile.
In questi momenti di attesa Dio confida che noi viviamo in armonia con la sua volontà, anche se non proviamo quel bel sentimento che rende facile l’attesa.
E’ facile in questi momenti cadere nella disperazione: “Perché devo andare oggi in Chiesa? Perché devo continuare a pregare? Perché devo leggere la Bibbia? Dio non sembra interessarsi più a me, e allora perché continuare?”
E’ anche molto facile guardare al mondo e dire: “Quel tipo non cerca Dio, né si preoccupa della sua esistenza, eppure non ha le difficoltà che ho io. Perché l’iniquo prospera e il giusto viene calpestato?”
E’ facile pensare che non vale la pena continuare a vivere in questo modo. Giuseppe anche in prigione rimase fedele a Dio, perché ripose tutta la sua fiducia nelle sue Promesse, considerando l’integrità di chi le aveva fatte.
Santità: cooperazione tra noi e Dio
Filippesi 2:12-13
“…dedicatevi alla vostra salvezza con timore e tremore…” Questa è la parte che tocca a noi.
“…infatti è Dio che opera in voi il volere e l’operare, secondo la sua bontà (buona volontà)”. Questa è la parte che tocca a Dio.
La crescita cristiana è un’opera di cooperazione tra il credente e Dio. Vediamo due passaggi biblici a questo riguardo:
“Tu desideri che la verità risieda nell’intimo: insegnami dunque la sapienza nel segreto del cuore. Purificami con issopo, e sarò puro; lavami, e sarò più bianco della neve. Fammi di nuovo udire canti di gioia e letizia…O Dio, crea in me un cuore puro e rinnova dentro di me uno spirito ben saldo. Non respingermi dalla tua presenza e non togliermi il tuo Santo Spirito. Rendimi la gioia della tua salvezza e uno spirito volonteroso mi sostenga” (Salmo 51:8-14).
Chi ha l’iniziativa in questi versetti e su chi agisce? Chi produce la verità nell’intimo e nel segreto del cuore? Dio è colui che fa comprendere, purifica, lava, fa sentire gioia e allegria, crea, rinnova e sostiene. Qualsiasi cambio che si verifichi nel profondo del cuore è opera di Dio.
“Rivestitevi, dunque, come eletti di Dio, santi e amati, di sentimenti di misericordia, di benevolenza, di umiltà, di dolcezza, di pazienza. Sopportatevi gli uni gli altri e perdonatevi a vicenda, se uno ha di che dolersi di un altro. Come il Signore vi ha perdonati, così fate anche voi. Al di sopra di tutte queste cose rivestitevi dell’amore che è il vincolo della perfezione” (Colossesi 3:12-14).
Chi ha l’iniziativa in questi versetti? Chi si veste di sentimenti di misericordia, di benignità, ecc.? Sono gli eletti di Dio, è il credente. L’opera esterna, visibile, quella di rivestirsi spetta al credente.
Dio produce il cambio interiore, nel profondo del cuore dell’uomo e il credente manifesta all’esterno la presenza del Cristo nel suo cuore rinnovato.
Prendiamo come esempio pratico uno stampo in legno dove versare una colata di cemento. Lo stampo in legno rappresenta il compito del cristiano nella santificazione. Il credente non può produrre la pazienza, la bontà o l’amore dentro se stesso, ma deve soltanto costruire la forma esterna dentro cui Dio diffonde la sua permanente opera di santità.
Supponiamo che una donna abbia una vicina che mette a prova la sua pazienza. Cerca in tutti i modi di dominare la sua impazienza e il suo ardente risentimento, ma riesce solo a sentirsi colpevole per i sentimenti che alberga nel suo cuore.
“Devo essere più paziente”, continua a dirsi, ma senza successo. Sembra incapace di cambiare il suo atteggiamento e in effetti è così. L’impazienza è un’attitudine del cuore e solo Dio può cambiarla.
Comprende, allora, che non ci si aspetta da lei che cambi la sua impazienza in pazienza, ma che si rivesta di pazienza. Deve fare lo stampo che dà la forma esterna alla pazienza.
La prima tavola che utilizza si chiama “ascoltare”. Dovrà incominciare ad ascoltare la sua irritante vicina. Forse la vicina non fa altrettanto, ma qui non si tratta di ricevere una qualsiasi ricompensa da parte sua. Cercherà di conoscerla un po’ meglio e non si preoccuperà dell’impazienza che sente mentre la sta ascoltando.
La seconda tavola è la “preghiera”. Dovrà incominciare a chiedere a Dio che la benedica e che benedica anche la sua famiglia.
Un’altra tavola si chiama “una buona azione”. Anche se la vicina non le ha mai fatto un favore, si offrirà per guardarle il bambino mentre va a fare la spesa o le farà un regalino.
La quarta tavola che completa lo stampo si chiama “una buona critica”. Anche se la vicina a volte offende o critica negativamente, farà commenti positivi parlando di lei con altre persone del vicinato.
Queste tavole vengono inchiodate tra loro dalla fede. Fede che lo stampo sarà usato e riempito col cemento divino.
A suo tempo questo stampo, anche se non proprio di aspetto gradevole o raffinato, dopo aver compiuto con il suo scopo, potrà venir schiodato e gettato. Ciò che rimarrà sarà il cemento divino.
Lo stampo che costruiamo, e cioè in questo caso la pazienza di cui ci rivestiamo, non sarà mai così bello, o vero, o forte come la realtà. Non si pretende neanche che lo sia, ma è l’espressione attiva della nostra fede che Dio formerà in noi una pazienza bella, vera e reale.
In Galati 5:16 Paolo ci dice di non soddisfare i desideri della carne, ma non dice che non si debbano avere desideri carnali. Ciò che ci vuole comunicare è di non dare espressione esterna a questi desideri.
Non permettiamo al pugno di ferire, o alla bocca di offendere. Se io decido di non dare spazio ai desideri carnali, Dio si prende la responsabilità di sostituirli con il frutto dello Spirito.
Noi facciamo la parte esterna e temporale, Dio quella interna e durevole. La fede ci permette di ricevere la grazia. Siamo, quindi, collaboratori di Dio nella santificazione.
Potrebbe sorgere, adesso, questo pensiero: “Comportandomi così non rischio di essere ipocrita? Se dico delle parole gentili o faccio una certa cosa pur sentendo il desiderio contrario, non sono ipocrita?”
No,affatto! L’ipocrita è colui che pretende di essere quello che non è. Noi, però, non vogliamo ingannarci, perché siamo del tutto onesti davanti a Dio.
“Signore, Tu sai che non ho neanche un pizzico di pazienza con quella persona, ma sono convinto che se io costruisco lo stampo esterno, Tu lo riempirai con la tua pazienza divina. Se Tu non facessi questo, tutto lo sforzo per rivestirmi di pazienza sarebbe totalmente inutile. Io mi affido a Te.”
Saremmo ipocriti, se pensassimo che questi stampi esterni costituissero la vera santità. Non dobbiamo, poi, neanche imporre al nostro cuore di essere quello che non può essere.
Il nostro cuore non si sottometterà mai alla nostra volontà, solo lo Spirito Santo potrà cambiarlo.
Non dobbiamo essere schiavi dei nostri sentimenti o desideri. Non ci lasceremo dominare da essi, perché noi camminiamo per fede.
Crediamo che conformandoci alla volontà di Dio in tutte le cose esterne, nel miglior modo che possiamo, Dio conformerà i nostri sentimenti e desideri a quelli di Gesù Cristo.
Non sopprimiamo, né neghiamo i nostri sentimenti, ma controlliamo semplicemente la loro espressione esterna mentre li confessiamo a Dio.
Forse abbiamo bisogno di oltre un giorno per fare un certo stampo, magari un anno, ma non importa.
“Il Dio della pace vi santifichi egli stesso completamente…Fedele è colui che vi chiama, ed egli farà anche questo” (1 Tessalonicesi 5:23-24) ; “Infatti siamo opera sua, essendo stati creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha precedentemente preparate affinché le pratichiamo” (Efesini 2:10).
Promessa e processo
Se siamo onesti, dobbiamo ammettere che la Bibbia promette di più di quello che abbiamo sperimentato.
In Romani 6:14 leggiamo: “Perché il peccato non avrà più potere su di voi”. Spesso, però, il peccato ci afferra con i suoi tentacoli.
In Romani 8:9 si dice: “Voi però non siete nella carne ma nello Spirito”. Spesso dobbiamo confessare che andiamo secondo lo Spirito. Noi vediamo la promessa di santità che ci è stata fatta, però sperimentiamo molto poco del suo compimento.
Qual è la risposta? Volgere lo sguardo a Gesù, a Colui che ha incominciato a costruire questa casa (1 Pietro 1:5) e che è in grado di terminarla.
Dobbiamo, adesso, comprendere il processo mediante il quale Dio porta a compimento le sue promesse. I piani di Dio inglobano sempre un processo che si sviluppa in un periodo di tempo: questo è il tempo di Dio.
La Bibbia spiega il tempo di Dio in questo modo: “…per il Signore un giorno è come mille anni, e mille anni sono come un giorno” (2 Pietro 3:8). Ciò significa che il tempo è relativo per Dio.
Dio si trova nel processo di costruire un edificio le cui pietre viventi siamo noi (1 Pietro 2:5). Per prima cosa deve riunire i materiali, portare cioè gli increduli alla conoscenza della verità. Poi vengono messi in deposito dove aspettano che la fase reale della costruzione abbia inizio. Questo è il processo della santificazione.
In questo stadio i credenti vengono ritoccati secondo l’uso e spesso ammucchiati finché sia terminata un’altra fase della costruzione.
Questo è uno degli aspetti più difficili da sopportare. E’ qui dove molti cristiani cadono, perché non sopportano la noia.
Durante questo tempo non succede nulla.
“Dov’è la gioia di un tempo? Dov’è quella presenza di Gesù che ho sperimentato nel passato?” Sono le domande che ci poniamo, ma Lui ci è vicino come sempre lo è stato.
Pensiamo alle piante che in autunno lasciano cadere le foglie e rimangono nude, spoglie. Entrano in un periodo di letargo. Ma questa inattività sta preparando una nuova vita fruttifera. Il piano di Dio sta avanzando.
Non guardiamo alla nostra condizione del momento, ma a Gesù. Lui ci darà una visione del programma di costruzione che sta realizzando e ci darà la sicurezza che lo terminerà.
Se la nostra vita davanti a Dio è in ordine e dimora nella sua Parola, guardiamo a Gesù e convinciamoci che Lui finirà l’opera che ha incominciato.
Entriamo in comunione con Lui per ottenere la prospettiva che Lui ha dal cielo di ciò che vuole ottenere da noi e in noi.
Per fede nella Parola di Dio sappiamo che sono state poste le fondamenta per un edificio non fatto da mano d’uomo e di cui noi siamo delle pietre vive. Non scoraggiamoci!
Il proponimento delle prove
Dio utilizza molti metodi per farci dipendere da Gesù: istruzione, predicazione, esempi.
Tutto ciò, però, può restare al livello della teoria, al livello delle possibilità, e non ci porta a convincerci profondamente che abbiamo bisogno di dipendere da Gesù in ogni circostanza della nostra vita.
Perché ciò avvenga lo Spirito Santo utilizza uno strumento molto speciale chiamato “prova”. E’ uno strumento ideato da Dio per giungere nelle profondità del nostro essere.
La prova ha lo scopo di mettere in evidenza le nostre debolezze e all’altro estremo la forza di Dio.
Le nostre debolezze sono di due categorie: quelle delle nostre circostanze, quelle cose cioè che sono esterne a noi e dalle quali dipendiamo, e quelle del nostro carattere, quelle cose cioè che sono dentro di noi e dalle quali dipendiamo.
Esempi di circostanze esterne:
l’aspetto economico (vedi il ricco insensato), le calamità naturali o provocate (terremoti, guerre), relazioni sociali (appoggio, abitudini, reputazione).
Tramite le prove Dio vuole mostrarci quanto dipendiamo da queste cose e si propone di rompere questi legami per farci dipendere esclusivamente da Gesù (cioè dai valori eterni).
Dio vuole anche portarci a riconoscere la debolezza del nostro carattere per non fare affidamento su certe nostre caratteristiche nelle varie situazioni della vita in cui siamo coinvolti.
Fu nella circostanza descritta in Matteo 26:31-35 che Pietro scoprì di non avere il coraggio per rimanere a fianco di Gesù.
La prova ci rende coscienti di qualcosa di cui Dio è già al corrente.
Nelle nostre relazioni con altre persone dobbiamo imparare a non dipendere dai meriti del nostro carattere.
Tutti noi siamo stati confrontati con l’impazienza, l’odio o il risentimento che scaturiscono improvvisamente dal nostro cuore in certe situazioni. E spesso rimaniamo stupiti di noi stessi, ma Dio ne era già al corrente.
In questo modo ci rendiamo conto del bisogno di una forza superiore per affrontare queste situazioni.
Anche la nostra relazione d’amore con Dio deve basarsi su un potere superiore, perché una forte afflizione o la morte di un figlio, per esempio, ci porta quasi sicuramente alla ribellione verso il nostro Creatore.
La prova deve servirci per vedere la forza e le risorse di Dio. L’afflizione, però, può produrre soltanto dell’amarezza e non crescita spirituale. Se ci concentriamo, infatti, sulla nostra miseria e incominciamo a rotolarci nel fango dell’autocompassione, l’amarezza ci vincerà.
L’afflizione non ha nulla di magico in sé, è neutrale. Tutto dipende da come uno reagisce quando ne è colpito.
Se ci concentriamo sull’amarezza dell’Ego, ci sentiremo induriti e risentiti contro la vita e le persone.
Oppure possiamo cercare nelle nostre risorse il modo per uscirne il più in fretta possibile e ci convinceremo che dobbiamo alzare delle barriere ancora più alte contro la calamità da cui siamo stati colpiti.
L’afflizione, però, può renderci anche migliori. E questa è la testimonianza dell’apostolo Paolo (2 Corinzi 11:19 ; 12:10). Lui la affrontò come conseguenza di situazioni permesse da Dio e ne ricavò un gran beneficio. Il suo sguardo non era fisso sulle afflizioni, ma su Dio.
Nelle prove cerchiamo di capire che cosa in noi deve essere corretto e in che modo possiamo diventare più simili a Gesù.
Se il nostro sguardo è fisso su Dio, i cieli si aprono e possiamo entrare in contatto con quelle risorse che riempiranno il vuoto rivelatosi in noi.
Dio non vuole che si manifestino le nostre debolezze con il fine di svergognarci o per farci sentire impotenti e timorosi. Vuole piuttosto farci comprendere che non rientra nei suoi programmi che viviamo vite indipendenti da Lui, in quanto ciò ci porterebbe a dipendere da qualche dio falso, con conseguenze disastrose.
Nell’afflizione cerchiamo liberazione o crescita? Quando l’afflizione passa non deve restare soltanto il ricordo di un’esperienza dolorosa, perché in questo caso non ci guadagneremmo nulla.
Sottomettiamoci piuttosto all’afflizione e così sperimenteremo crescita spirituale. Ricordiamoci che Dio ci ha chiamati con il proponimento di renderci simili a suo Figlio Gesù Cristo e l’afflizione, o la prova, è uno degli strumenti più affilati per raggiungere questa meta.
Fuoco, battesimo e spada
Per poter costruire la sua casa spirituale il Signore sa che i suoi mattoni, che sono vite umane, devono venir sottoposti al fuoco.
In Luca 12:49-52 Gesù parla del processo di raffinazione, per il quale utilizza tre immagini: il fuoco, il battesimo e la divisione.
“Io son venuto ad accendere un fuoco sulla terra; e che mi resta da desiderare, se già è acceso? Vi è un battesimo del quale ho da essere battezzato; e sono angosciato finché non sia compiuto! Voi pensate che io sia venuto a portar pace sulla terra? No, vi dico, ma piuttosto divisione; perché, da ora in avanti, se vi sono cinque persone in una casa, saranno divise tre contro due e due contro tre”.
Fuoco:
Secondo la Bibbia il fuoco compie tre funzioni.
Come prima cosa giudica: “Circoncidetevi, per l’Eterno, circoncidete i vostri cuori, o uomini di Giuda e abitanti di Gerusalemme, affinché il mio furore non scoppi come un fuoco, e non si infiammi sì che nessuno possa spengerlo; a motivo della malvagità delle vostre azioni” (Geremia 4:4).
Il fuoco simboleggia la santa ira di Dio. Il Dio d’amore è anche un Dio di giudizio, che odia il peccato con una passione santa.
Il fuoco raffina: “E metterò quel terzo nel fuoco, e lo affinerò come si affina l’argento, lo proverò come si prova l’oro” (Zaccaria 13:9) ; “Poiché egli è come un fuoco d’affinatore, come la potassa dei lavoratori di panni. Egli si sederà, affinando e purificando l’argento; e purificherà i figlioli di Levi, e li depurerà come si fa dell’oro e dell’argento” (Malachia 3:2-3).
Così come il fuoco toglie le impurità dal metallo puro, Dio ci purifica perché risplenda in noi l’immagine pura del Figlio.
Il fuoco trasforma. I sacrifici animali, di cui si parla in Levitico, venivano bruciati dal fuoco e il fumo, che ne derivava, saliva come odore fragrante alla presenza di Dio.
La carne deve lasciare il posto allo Spirito. L’opera di purificazione e trasformazione deve incominciare nella casa di Dio.
Le impurezze del mondo rattristano Dio, ma quelle della Chiesa ancora di più. Una Chiesa pura può purificare il mondo, ma se è contaminata “con che si salerà?”
Per questo “è giunto il tempo che il giudizio ha da cominciare dalla casa di Dio” (1 Pietro 4:17). Questo è ciò che fece Gesù quando ripulì il tempio di Gerusalemme dai mercanti.
Non compiaciamoci troppo, o soltanto, del giudizio che cadrà sul mondo, perché incomincerà nella Chiesa.
Lasciamoci penetrare dal fuoco purificatore di Dio come avvenne nella vita di S. Paolo (Filippesi 3:8). Solo la Chiesa, che è provata dal fuoco, può essere utile al Signore.
Battesimo:
Nella Bibbia il battesimo è un simbolo di morte e risurrezione.
Con le parole “Vi è un battesimo del quale ho da essere battezzato; e sono angosciato finché non sia compiuto!”, Gesù sta guardando direttamente alla croce, al battesimo di sangue.
Questo battesimo è la morte alla propria produttività: “Se il grano di frumento non cade a terra e muore non dà frutto; però se muore dà molto frutto”.
Gesù stava guardando al battesimo della sofferenza, a quel battesimo che lo portava a sottomettersi fino in fondo al servizio a favore del prossimo.
La nostra efficacia è limitata finché non sperimentiamo questo battesimo di sofferenza e di morte. Siamo disposti a morire ai privilegi, alle comodità, agli interessi personali, affinché qualche altra persona possa ottenere la vita di Dio? (2 Corinzi 4:12).
Il risveglio avrà luogo solamente quando ci sarà qualcuno disposto a pagare il prezzo. Finché non si accetta questo tipo di morte, la comunità cristiana non genererà vita intorno a sé.
Anche una piccola comunità potrebbe mettere sottosopra il mondo, se i suoi membri fossero disposti a morire ai loro privilegi.
Divisione:
Dio separa le persone con l,o scopo di poterle usare. In questo senso parlò ad Abramo quando dimorava in Ur con il resto della sua famiglia (Genesi 12:1-2). Lo stesso volle fare con il popolo ebreo (Deuteronomio 14:1-2). Lo stesso deve volere oggi per la Chiesa.
Se non siamo disposti ad essere differenti, separati, non possiamo essere utili a Dio. La divisione, o separazione, ci mantiene vicini a Gesù. Soltanto mediante la separazione dalle influenze indifferenti e empie uno può mantenersi vicino a Gesù.
Non pensiamo di poterci mescolare tranquillamente con il mondo e rimanere vicino a Gesù. Non dobbiamo uscire dal mondo, ma non dobbiamo conformarci al suo modo di pensare, di agire e di credere. Rimaniamo in compagnia di fratelli in Cristo, ne verremo fortificati.