IL  NOSTRO  POTERE  SPIRITUALE  ED  EMOZIONALE

 

 

Cambiare la propria immagine

 

Lei si lamentava, perché troppe erano le responsabilità a cui doveva far fronte giornalmente: tre figli da allevare e disciplinare, l’amministrazione della casa e la sua vita sociale.

Si era, così, ritirata affettivamente e anche a livello emozionale dal marito. Nella sua vita matrimoniale non aveva ancora goduto di soddisfacenti rapporti sessuali col proprio partner.

Il marito, intelligente e acuto nelle sue osservazioni, era cresciuto in una casa dove a nessuno interessava quello che lui pensava e, cos’, si era abituato a tenere per sé le sue opinioni.

Una volta resosi conto di non essere uno stupido e di saper fare delle valide riflessioni, iniziò a partecipare alla vita di coppia con maggior convinzione e ricuperò il rispetto della moglie.

L’atteggiamento mentale del marito verso se stesso condizionò, sia nel primo che nel secondo caso, ma in maniera diversa, l’andamento del suo matrimonio.

 

Molti cristiani confondono lo star bene con se stessi con orgoglio e presunzione e in questo modo resistono ad ogni sentimento di salutare valor proprio, sbandierando ai quattro venti il loro poco valore, la loro condizione di vermi, convinti così di esprimere spiritualità.

Le persone, invece, che scoprono il grande valore che hanno agli occhi di Dio, non sono né orgogliose, né presuntuose, ma si sentono piuttosto umiliate dal prezzo pagato per il loro riscatto.

La nostra visione della vita, in generale, è il prodotto del concetto che abbiamo di noi stessi. Se ci vediamo in senso positivo, avremo anche una visione positiva della vita e viceversa.

Il concetto che noi abbiamo di noi stessi si è formato attraverso le relazioni tra noi e gli altri membri della famiglia durante i primi 3-5 anni di vita.

Può essere stato influenzato dal modo in cui è stata accettata la nostra nascita: se ci veniva tolta la poppata in modo dolce o violento, se siamo stati addestrati a fare i nostri bisogni fisiologici con pazienza o con rabbia, se i genitori esprimevano tolleranza o riprensione quando ci vedevano toccare i genitali, se hanno gridato spesso con noi, se ci hanno elogiato spesso, se ci hanno disciplinato in modo giusto o ingiusto, se, se ci hanno concesso sufficiente libertà, se ci hanno caricati con troppa responsabilità, ecc.

 

Nessuno nasce con un concetto di sé, ma già al momento di varcare la soglia della scuola il bambino ha imparato molte maniere di sentire e di pensare nei propri confronti, che tendono a stabilizzarsi nel tempo e che resistono tenacemente al cambio.

E’ importante anche l’ordine di nascita. Il primo figlio, a volte, viene allevato con criteri di perfezione per riparare a tutti gli errori fatti dai nonni. D’altra parte il primo figlio ha tutta l’attenzione dei genitori e non ha altri concorrenti con cui dividere giocattoli e affetto. Si tende ad essere anche più esigenti con lui e, così, da grande facilmente sarà una persona responsabile e produttiva.

Il più piccolo della famiglia, in genere, riceve molte attenzioni e molto amore, specialmente se c’è un certo distacco dal penultimo e ci si aspetta che tutti lo aiutino e lo curino.

I bambini di età intermedia sono quelli, forse, più esposti a sviluppare un basso concetto di se stessi.

 

La nostra felicità viene determinata in gran parte dal modo in cui sentiamo e pensiamo di noi stessi r come decidiamo di sentire e pensare rispetto agli avvenimenti della vita.

Per la nostra felicità, quindi, non è importante ciò che ci è successo, ma come abbiamo deciso di reagire di fronte alle cose successe.

Noi vediamo le nostre circostanze e quelle degli altri a nostro modo (il povero vuole diventare ricco e il ricco vuole diventare povero). Le circostanze non determinano la nostra felicità, ma il modo come decidiamo vederle (ottimista e pessimista).

Certo, la vita può trattare uno meglio dell’altro, ma fa soffrire tutti. L’influenza che ne deriverà per la nostra vita sarà dovuta al modo come noi vedremo le circostanze attraverso le quali saremo obbligati a passare.

 

Può un cristiano ritrovare una salutare immagine di se stesso? Sì! Con la nuova nascita entriamo in un processo di trasformazione che ci rende simili a Gesù (2 Corinzi 3:17-18). Molti, sbagliando, credono che questa trasformazione sia un fatto istantaneo al momento della conversione senza sforzo personale.

Vediamo alcuni passi pratici per cambiare il concetto che abbiamo di noi stessi:

 

1) Vediamoci come una persona facile da amare

Accettiamo facilmente un complimento? Quando ci dicono: “Come stai bene oggi!” ci sentiamo sospinti a far notare che il vestito che indossiamo è stato acquistato durante i saldi? Ci è difficile dire: “Grazie, molto gentile”.

Ci è facile ricevere espressioni d’amore da altre persone o siamo schivi? Dio vuole che ci vediamo come una persona degna e facile da amare.

Quando guardiamo la croce del Calvario non possiamo dubitare dell’amore del Padre nei nostri confronti. Ma quella croce ci dice soltanto quanto Dio ami i suoi nemici (Romani 5:6-8). Se Dio, quindi, ama in questo modo i suoi nemici, quanto amerà i suoi figli? Molto di più (Romani 5:9-10)!

2) Riconosciamo il nostro valore agli occhi di Dio

Molti credenti non intendono la differenza tra “non essere degno” e “non aver alcun valore”. Essere indegno non significa non avere valore. Nessuno potrà mai essere degno del prezzo che Dio pagò per noi, ma se non avessimo avuto valore ai suoi occhi, Lui non avrebbe fatto quello che ha fatto a nostro favore.

Il valore di una cosa è determinato dal prezzo che uno è disposto a pagare (Giovanni 3:16 / 1 Pietro 1:18-19). Ogni individuo vale molto di più della somma di tutte le ricchezze materiali di questo mondo (Marco 8:36).

Luca 17:10 dice, però, che siamo servi inutili. Ciò significa che per quanto ci sforzassimo non potremmo mai rendere al Padre di più (la somma da Lui versata più gli interessi) di quello che Lui ha pagato.

Non è stato, quindi, un affare, una transazione economica, ma un atto d’amore puro che non mirava ad un guadagno o a un qualsiasi altro tipo di convenienza.

 

3) Vediamoci come una persona facile da perdonare

Alcuni pensano che ci sia una qualche virtù nel continuare a soffrire per i propri peccati. Gesù ha espiato per i peccati di tutto il mondo e, così, è del tutto inutile continuare a soffrire per i nostri peccati.

E’ possibile che soffriamo le conseguenze di certi peccati, ma Dio non vuole che ci trasciniamo il rimorso per gli stessi (1 Giovanni 1:9 / Isaia 43:25).

 

4) Vediamoci come una persona che può cambiare

La madre dell’autore di questo libro morì di parto. Nei primi anni di vita questo bambino era addolorato per non avere una mamma come tutti gli altri, ma in seguito pensò di essere un bambino cattivo perché la sua nascita aveva ucciso la mamma. Da adolescente sentiva un profondo rincrescimento ogni qual volta una giovane donna moriva al momento del parto.

Ma un giorno, mentre era accanto alla tomba di sua madre, Dio gli ispirò questo pensiero: “Non solo Gesù è morto per te, ma anche tua madre. Che valore deve avere la tua vita! Usala bene”.

Dio lo aveva aiutato a scoprire un modo meno doloroso per parlare a se stesso dei fatti della vita. Non possiamo cambiare gli avvenimenti della vita, però sì la loro interpretazione.

Molte persone hanno scoperto questi cambi creativi nella loro visione dei dolori della vita tramite la preghiera creativa. Dato che le persone a volte esprimono sentimenti intensi che possono spaventare gli altri o venir interpretati male, indichiamo qui quattro passi per la preghiera creativa:

 

- Diciamo a Dio apertamente ciò che ci addolora

Qualunque sia il problema nella nostra vita, che ci impedisce di vederci come Dio ci vede in Cristo, proponiamoci di parlarne sinceramente con Dio. Vedi Davide (Salmo 51), Pietro (Matteo 26:75), Giacobbe (Genesi 32).

- Esprimiamo a Dio i nostri sentimenti di dolore

Parlando a Dio di ciò che ci addolora verranno in superficie anche i sentimenti associati al problema. Come Davide potremo esprimere sentimenti di rabbia (Salmo 59:13-15 ; 58:6). E’ inutile che cerchiamo di nascondere a Dio i nostri sentimenti, pensando così di essere più accette voli, perché a Dio nulla è celato.

E’ bene anche parlarne con una persona di fiducia, perché questi sentimenti negativi nascosti in un qualche angolo del nostro cuore possono toglierci la gioia della vita. Esprimiamoli! Svuotiamoci davanti al Signore.

 

- Meditiamo fino a trovare un nuovo significato per le nostre vecchie ferite

Così come Dio aiutò Davide nel liberarsi dal suo odio e amarezza verso coloro che lo avevano offeso, il Signore ci aiuterà a cedergli le nostre ferite e ci suggerirà dei modi nuovi e più costruttivi di guardarle.

Da un nuovo modo di pensare si svilupperà un nuovo modo di sentire (Salmo 139:23-24).

 

- Lodiamo Dio per il nuovo significato che dà alle nostre ferite dolorose

Man mano che entriamo nella capacità di vedere le nostre vecchie ferite in un modo nuovo e meno doloroso, ringraziamo Dio e lodiamolo in tal senso. Questi mutamenti interiori non si verificheranno di colpo, ma occorreranno, forse, vari momenti di incontro creativo con Dio.

Un processo di cose ci ha portati a questo livello di sofferenza e serve, di conseguenza, un processo contrario per liberarcene.

Non permettiamo che il dolore del passato continui a paralizzarci, ma entriamo nella preghiera creativa e lasciamoci trasformare profondamente da Dio.

 

 

 

 

Accettando la colpa

 

Dio ha dato ad ogni essere umano una coscienza, o meglio la capacità di coscienza, e Romani 2:14-15 afferma questa verità. La coscienza è un marchio divino che ci differenzia dalle bestie. Ogni persona normale nasce con la capacità di coscienza (associare cose con il bene e il male).

Il contenuto della coscienza, però, è un derivato della cultura del momento storico. Le cose che ci creano un senso di colpa, quindi, saranno grandemente influenzate dalla regione del mondo in cui siamo nati e dall’area specifica del paese in cui siamo stati allevati. Noi, per esempio, mangiamo carne di mucca, cosa che nel mondo induista è un sacrilegio, ecc.

Che cos’è una buona coscienza? Come si può definire?

Primo, una buona coscienza non è troppo larga, né troppo stretta. Non permetterà di fare tutto quello che uno desidera, ma non condannerà neanche per piccolezze.

Una buona coscienza non ci permetterà di sentirci tranquilli quando disubbidiamo la legge o offendiamo le relazioni importanti della vita.

Secondo, una buona coscienza si mantiene vigile. Dà la sua approvazione e impone le sue sanzioni indipendentemente dal momento e dal luogo. Non si potrà zittire facilmente.

Terzo, una buona coscienza è perdonatrice. Se rispondiamo ai richiami della coscienza e confessiamo i nostri errori, ci permetterà di essere invasi dalla pace di Dio.

Molti cristiani devono fare i conti con una coscienza inferma. Ecco, qui di seguito, alcuni passi da intraprendere per portare guarigione a questa area così importante della nostra vita:

 

1) Riconosciamo di avere bisogno di guarigione in questo campo

Dal ruolo che ha giocato il senso di colpa nel passato capiamo se la nostra coscienza è inferma.

C’è chi è stato dominato da abitudini ed atteggiamenti molto egoistici e tendenti alla ricerca del piacere personale ed ha sviluppato, così, una durezza di cuore.

Bisogna intervenire sulla coscienza per produrre in queste persone un miglior controllo sulla loro condotta.

Anche una coscienza troppo limitante produce rotture interiori da sanare.

 

2) Crediamo che Dio ci può aiutare a correggere una cattiva coscienza

Se Dio può operare in noi il miracolo della rigenerazione, può anche guarire una coscienza inferma. Vediamo alcuni esempi tratti dalla Bibbia:

Giacobbe aveva una coscienza troppo larga. Durante la sua lotta con l’angelo la sua coscienza venne guarita e da quel momento soffrì troppo dolore emozionale per continuare a percorrere quella via distorta.

Paolo aveva una coscienza farisaica e legalista (Filippesi 3:4-6). In 1 Corinzi 9:19-22 vediamo la tremenda flessibilità che andò formandosi in lui dopo la sua conversione.

 

3) Concentriamo i nostri sforzi spirituali su ogni trasformazione di coscienza di cui abbiamo bisogno fino a guarigione completa

La battaglia per ottenere una coscienza sana sarà maggiore per quelle persone la cui coscienza è troppo stretta o rigida. Spesso queste persone temono di non sentire abbastanza senso di colpa per garantire loro la salvezza.

Hanno una coscienza tirannica e dovranno imparare la differenza tra il senso di colpa sano e quello cattivo. Ecco tre caratteristiche che definiscono questa differenza:

 

- Il senso di colpa cattivo affonda le sue radici nelle regole, quello sano nelle relazioni

I Galati erano propensi a questo tipo di legalismo e per questa ragione Paolo scrive loro (Galati 5:1,13-15). Una fede legalista tende a far diventare i cristiani dei giudici.

Con una simile mentalità è più facile preoccuparsi dell’osservanza delle regole che di mantenere le relazioni.

Il senso di colpa sano produce dolore per avvisarci che le relazioni importanti sono minacciate dalle nostre attitudini e comportamenti. I Farisei avevano interesse che Gesù ubbidisse alle loro regole, ma Lui era più interessato allo stato della relazione con Dio.

 

- Sia il senso di colpa sano che quello cattivo producono una spinta a confessare

La chiave per distinguere la differenza tra il rimorso sano e quello cattivo si trova nelle cose che ci sentiamo in dovere di confessare. Devono essere cose importanti nel mantenimento di una sana relazione con Dio e il prossimo.

Gesù ci insegna che una coscienza cattiva non riesce a distinguere tra “pagliuzza” e “trave” e tra “moscerino” e “cammello” (Matteo 7:3; 23:24).

 

- Il senso di colpa cattivo non si sottomette mai al perdono, quello sano sì

Molte persone, che non sanno trovare una valida ragione al loro implacabile senso di colpa, passano lunghi momenti in preghiera chiedendo a Dio di mostrar loro cosa non va nella loro vita. Questo senso di colpa non è da Dio.

Il Signore non tiene nascosta la causa del senso di colpa e ce la farà sapere non appena noi ci disponiamo ad ascoltarla. Dio non gioca con noi, non tiene il muso e si trincera dietro un muro di silenzio.

Lo Spirito Santo ci produce il dolore del senso di colpa per proteggere la nostra relazione con Dio e le persone importanti della nostra vita. Il proponimento del dolore è di portarci al luogo del perdono, dopo esserci convinti del nostro peccato.

Prese le misure correttive riguardo al nostro comportamento, che allontanano la minaccia sulle nostre relazioni importanti, il dolore che Dio ci ha fatto sentire scomparirà.

Il senso di colpa che rimane dopo una sincera confessione di peccato è frutto di una coscienza inferma. Il risultato è una necessità malsana di soffrire, pensando così di espiare la colpa commessa e di castigarci per l’errore fatto malgrado il sangue versato da Gesù sulla croce.

Quando qualcuno non vuole perdonarsi per un qualsiasi errore del passato, sta facendo un idolo della persona che avrebbe potuto essere. Deve rompere questo idolo, perdonarsi e Dio lo aiuterà a scoprire la persona che può essere in Cristo Gesù. Solo disfacendoci del passato potremo raggiungere quel futuro che può essere nostro.

 

 

 

 

 

 

 

Affrontando la depressione

 

La depressione è uno stato emozionale di malinconia e tristezza, che va da un leggero senso di scoraggiamento e avvilimento fino a sentimenti profondi di abbandono e disperazione.

Anche i credenti possono passare per momenti di depressione e la soluzione non sta soltanto nel leggere la Bibbia e pregare. Le Scritture ci presentano alcuni personaggi che sono caduti nella trappola della depressione, come Giobbe, Elia e Giona.

I sintomi della depressione variano con la loro intensità. Quasi tutti sperimentiamo ogni tanto questo senso di malinconia, questa perdita di entusiasmo a vivere, ci sentiamo abbattuti e tristi, ci chiudiamo in uno stretto silenzio e manifestiamo come un cattivo umore.

Finché questi sintomi non superano i quattro giorni di durata non c’è da preoccuparsi, ma se la depressione si intensifica, la persona incomincia a perdere l’appetito, non dorme più bene, stenta ad addormentarsi e si sveglia presto, perde l’appetito sessuale.

 

Se la depressione ha una causa biochimica, la persona che ne è colpita mostra una notevole indifferenza di fronte agli avvenimenti della vita e nulla la rende gioiosa. Non viene neanche condizionata dall’ambiente sociale che la circonda e si presenta il desiderio di togliersi la vita.

La depressione è spesso un sintomo secondario di una malattia fisica e non sempre è di carattere psicologico. Una perdita grave può essere causa di depressione (morte, fallimento), la mancanza di figli, il termine della carriera lavorativa.

Può venire per circostanze dolorose della vita: tensioni nel matrimonio, malattia, conflitti tra padri e figli, problemi sul lavoro, noia, frustrazioni con gli amici o mancanza di sensibilità dei genitori.

Noi possiamo peggiorare la situazione adottando idee esagerate sulla situazione. I pessimisti o negativisti vengono depressi non dalle circostanze, ma dal loro concetto della vita.

Come affrontare la depressione?

 

1) Non permettiamo alla depressione di scoraggiarci

Il timore alla depressione o il senso di colpa per sentirsi depressi non faranno altro che aumentare la sofferenza. Ricordiamoci che la depressione si nutre di se stessa.

 

2) Sottomettiamoci a esami clinici

La depressione può essere di origine fisiologica.

 

3) Adottiamo la terapia che consiste nel restare occupati

Forse non risolverà la situazione, ma ci aiuta a non alimentarla. La depressione ha un appetito vorace e più la si alimenta, più cresce. La cosa peggiore da farsi è prostrarsi ad essa.

 

4) Scopriamo il sollievo di scaricare in preghiera sul Signore i nostri pesi

Per Davide la preghiera diventò una terapia per scaricare la sua rabbia ed amarezza (Salmo 55:22 ; 58:6-8 ; 59:2, 6-7, 12-13).

Apriamo il nostro cuore davanti a Dio e non temiamo di venir da Lui respinti per questo. Confidiamogli ogni sentimento e gettiamo si di Lui ogni nostra ansietà (1 Pietro 5:7).

 

5) Apriamoci con un amico o persona fidata

Comunicare ci aiuta a ridurre il nostro livello di ansietà e ci alleggerisce il peso che portiamo (Galati 6:2). Salutari conversazioni con un amico di fiducia saranno molto utili per abbreviare la notte della nostra depressione e accelerare l’alba di quel giorno tanto atteso.

 

Nel caso di depressione profonda si può arrivare ad una chiusura nella comunicazione e in questo caso bisogna avere molta pazienza con l’ammalato. L’aiuto può essere medico o psicologico.

Vediamo il caso di Elia (1 Re 19:5-8). La prima cosa che Dio fa è lasciarlo libero da responsabilità vocazionali (degenza in clinica). Secondo, Elia si mette a dormire. Un sonno adeguato, infatti, è parte essenziale del trattamento contro la depressione. Terzo, una dieta bilanciata è importante nel piano di ricupero. Quarto, il rinnovamento della propria vita spirituale e il ricupero della presenza di Dio nella propria vita.

Il processo di ricupero intende una uscita graduale dalla depressione e non un tocco magico, miracolistico. Un eventuale periodo di sollievo non deve essere visto assolutamente come una guarigione totale. Una speciale presenza di Dio può essere meglio intesa come un aiuto, un incoraggiamento in questo processo di guarigione, piuttosto che come una guarigione miracolosa.

 

Alcuni cristiani insistono nel bisogno di avere sempre successo nelle cose che intraprendono, altrimenti si sentirebbero sconfitti e abbattuti. Diamo qui alcuni suggerimenti per quei casi in cui il successo non viene raggiunto e c’è una propensione alla depressione:

 

1) Consideriamo i vantaggi della depressione

Per molte persone la depressione è un ottimo mezzo per far fronte alla tensione. Produce meno danno di una malattia cardiovascolare o gastrointestinale, cause comuni della tensione.

 

2) Impariamo a trattare la nostra rabbia in modo creativo

La depressione è spesso il prodotto della rabbia rivolta verso se stessi.

Carla era depressa, specialmente a Natale e questa festività, così ben preparata da figli e marito, si risolveva sempre in una frustrazione. La madre di Carla era alcolizzata e non permise mai alla figlia, causa questa sua dipendenza, di passare felicemente un Natale, da lei così agognato. Odiava sua madre, ma non aveva sempre represso questo sentimento. Riconosciuto questo suo odio nei suoi confronti e perdonata la madre, Carla tornò a gioire e a contribuire in seguito a vivere felici Natali in famiglia.

 

3) Facciamo uno sforzo per adottare una visione positiva del mondo

Apparteniamo a quel gruppo di persone che vedono la bottiglia mezza piena o mezza vuota? Pensiamo di avere davanti a noi giorni ancora migliori o esattamente il contrario? Leggiamo Filippesi 4:8.

 

4) Centriamo la nostra attenzione sul Signore

Avere una visione positiva della vita non significa chiudere gli occhi sulla realtà del male da cui siamo circondati. Non centriamo, però, il nostro sguardo su di esso, ma in Cristo, perché Lui è maggiore di chi sta nel mondo (1 Giovanni 4:4).

Vediamo Dio muoversi sopra tutte le circostanze della vita e su ciascuno dei nostri cari e amici. Esploriamo queste nuove dimensioni che la vita nuova in Cristo ci offre.

 

 

 

 

 

Timore a sbagliare

 

Se vogliamo diventare quella persona che desideriamo essere, dobbiamo eliminare dalla nostra vita il timore a sbagliare. Le nostre idee creative e le soluzioni visualizzate non entreranno mai nel campo delle realizzazioni, se non estirpiamo alla radice il timore a sbagliare.

Le mete stimolano le aspirazioni di coloro che visualizzano possibilità. Freud, che pensava in termini negativi, vide nel fissarsi delle mete un pericolo potenziale e affermò: “Le mete non raggiunte generano ansietà e frustrazioni, che portano alla malattia”.

Un altro psichiatra viennese, Viktor Frankl, che pensava in termini positivi, affermò invece che la mancanza di mete toglie ogni senso alla vita.

Entrambi avevano ragione. La soluzione non è, comunque, nell’aver timore a fissarsi delle mete, ma nell’eliminazione del timore a sbagliare.

Ridefiniamo adesso il significato di fallimento:

 

- Fallimento non significa essere dei falliti, ma semplicemente che non abbiamo ancora avuto successo.

- Fallimento non significa che non abbiamo ottenuto nulla, ma che abbiamo imparato qualcosa.

- Fallimento non significa che abbiamo agito come degli stolti, ma che abbiamo avuto molta fede.

- Fallimento non significa che abbiamo subito il discredito, ma che siamo stati disposti a provare.

- Fallimento non significa mancanza di capacità, ma che dobbiamo fare le cose in modo diverso.

- Fallimento non significa che siamo inferiori, ma che non siamo perfetti.

- Fallimento non significa che abbiamo perso la nostra vita, ma che abbiamo buone ragioni per incominciare di nuovo.

- Fallimento non significa che dobbiamo tirarci indietro, ma che dobbiamo lottare con maggior forza.

- Fallimento non significa che non raggiungeremo mai le nostre mete, ma che impiegheremo più tempo per ottenerle.

- Fallimento non significa che Dio ci ha abbandonato, ma che ha un’idea migliore.

 

Il vero fallimento non è altro che una attitudine mentale negativa. I ricercatori e gli sperimentatori non falliscono mai, ma riescono sempre a sottomettere le loro idee a un test per verificare se daranno o no risultati positivi.

Il timore non è un sentimento normale, nel senso che non viene da Dio, ma è il frutto della mente incredula di coloro che pensano in termini negativi: “Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza (di codardia), ma di forza…” (2 Timoteo 1:7).

Siamo conformati in tal modo che la preoccupazione e l’ansietà sono come sabbia messa negli ingranaggi della nostra vita, mentre la fede è come olio lubrificante. Viviamo meglio nella fede e nella fiducia che nel timore, nel dubbio e nell’ansietà.

Nell’ansia e nelle preoccupazioni tutto il mio essere è alla ricerca di ossigeno, mentre nella fede e nella fiducia respira liberamente.

Vediamo adesso come eliminare il timore a sbagliare dalla nostra vita:

 

1) Esponiamo i nostri timori e i nostri fallimenti alla luce della verità e scopriremo che, in fin dei conti, il nostro problema non è la paura di fallire o di sbagliare, ma il timore che i nostri amici e coloro che ci circondano ridano di noi e si allontanino da noi.

Il timore a sbagliare non è altro, quindi, che il timore ad affrontare una situazione imbarazzante o il timore a provocare l’abbandono da parte delle persone con cui siamo in contatto.

Ma perché temere questo supposto abbandono? Dopo tutto siamo capaci di curarci anche da soli. Perché abbiamo paura, allora? Perché il timore all’abbandono è il timore alla perdita della nostra stima, del nostro amor proprio. Temiamo la vergogna.

Il timore a sbagliare non è altro, quindi, che un prodotto della nostra immaginazione. Temiamo di perdere la nostra dignità e il rispetto verso noi stessi, ma ricordiamoci che nessuno rifiuta chi perde lottando.

I topi abbandonano la nave che affonda. Gli amici che ci abbandonano in seguito a un nostro errore o fallimento, non sono mai stati dei veri amici.

Ricordiamoci che uno sbaglio o un fallimento onesto non è una vergogna, mentre lo è la mancanza di fede e la codardia. Essendo fatti a immagine di Dio non sopportiamo l’idea di passare per esperienze vergognose. Vogliamo essere trattati con dignità.

Il timore a sbagliare è un meccanismo di difesa inconscio per impedire che un Ego insicuro si lanci verso un’esperienza rischiosa e potenzialmente imbarazzante.

 

2) Questo timore, in realtà, annulla o impedisce il rispetto verso se stessi. Supponiamo che ci venga una brillante idea, ma per paura a sbagliare non sfruttiamo questa opportunità. In questo modo non temeremo una situazione imbarazzante, ma resteremo annoiati.

La noia non dà nessun impulso all’autostima. La noia ci lascia il tempo per meditare quello che avremmo potuto fare o essere.

Invecchieremo collezionando una serie di rimorsi. Perché non ho fatto questo? Perché non ho fatto quello? La depressione aumenterà nel vedere altri che hanno sfruttato le occasioni che hanno avuto a portata a mano e noi saremo rosi dalla gelosia.

La gelosia ci amareggerà la vita e ci ispirerà nuovi pensieri negativi. Il timore a sbagliare, così, non protegge il nostro autorispetto, ma lo annulla e impedirà uno sviluppo della nostra personalità e delle potenzialità di cui disponiamo.

 

3) Non c’è progresso senza rischi. Finché non falliamo una prima volta, non sapremo mai se miriamo abbastanza in alto.

Il successo consiste nell’ottenere il massimo con le opportunità che Dio ci ha dato. Il fallimento consiste nel non ottenere il massimo con i doni e gli aiuti che Dio ci ha offerto.

Chi non lascia nulla al caso sbaglierà poche volte, ma farà poche cose. L’uomo che intraprende cose  farà degli errori, ma eviterà, così, il più grande di tutti gli errori, che è quello di non fare niente.

 

4) Rifiutiamo il perfezionismo. Il timore a sbagliare è particolarmente vivo nei pensieri idealistici di una mente perfezionista.

Il perfezionismo esprime un timore al rifiuto. Temiamo che il fallimento ci scopra come persone imperfette. Dobbiamo, però, essere realisti e capire che nessuno è perfetto. Inoltre, nessuna persona intelligente si aspetta che siamo perfetti.

Un nostro errore non può far altro che provare che siamo esseri umani. Tutti commettono degli errori in qualche momento della loro vita. Errare è umano, perdonare è divino.

La gente ci accetterà o rifiuterà non per quello che facciamo, ma per il tipo di persona che siamo.

 

5) Il fallimento non è mai finale. Molti hanno fallito all’inizio di un’impresa per uscirne vittoriosi in seguito. Si può fallire in una cosa e trionfare in un’altra.

Non lasciamoci andare a frasi come queste: “Non ce la faccio più”, “ne ho abbastanza”, “non riuscirò mai a niente”, “sono un fallito”. Ci sono vaste sfere intatte in ogni vita umana, che aspettano di essere scoperte. Nessuno è un caso senza speranza!

 

6) Che cos’è il vero fallimento? E’ il fallire come persona. Cedere alla codardia di fronte ad una contingenza urgente, ma rischiosa. Retrocedere davanti all’alta chiamata di una nobile azione per la possibilità di una imperfezione nel compimento della stessa. Preoccuparci più di proteggere il nostro orgoglio davanti ad un eventuale e imbarazzante fallimento che di promuovere una meravigliosa e meritoria causa. Togliere alla fede il comando della nostra vita futura e promuovere il timore in una posizione di autorità sul nostro destino. Questo è il vero fallimento come persone.

7) Annulliamo i nostri timori. Isoliamoci dalle persone che generano vibrazioni depressive e di sfiducia. Non diamo retta a chi ci dice: “Altri hanno provato e non ce l’hanno fatta”, oppure “non sperare di ottenere alcun risultato”.

 

8) Il miglior modo per abbattere questi timori è sviluppare una vigorosa fede personale in Dio. Una persona consumata interiormente da una visione e mossa da una profonda e inamovibile fede in Dio può muovere montagne.

Crediamo nel versetto che dice: “Riconoscilo in tutte le sue vie, ed egli appianerà i tuoi sentieri” (Proverbi 3:6).

 

Trasformiamo i nostri timori in una forza positiva, che possa motivarci:

- Non temiamo perché potremmo fallire…temiamo piuttosto di non trionfare mai

- Non temiamo perché potremmo essere danneggiati…temiamo piuttosto di non maturare mai

- Non temiamo perché potremmo amare e perdere…temiamo piuttosto di non riuscire mai ad amare

- Non temiamo che le persone possano ridere dei nostri errori…temiamo piuttosto che Dio ci possa dire: “Uomini di poca fede”

- Non temiamo perché possiamo cadere nuovamente…temiamo piuttosto che la prossima volta può essere quella buona.

 

 

 

 

 

Confessione

 

Pochi sono i credenti che si sentono così profondamente perdonati da riuscire a perdonare se stessi e gli altri.

C’è uno zelo falso con cui molti credenti compiono i loro doveri cristiani. Ciò ci fa intendere che stanno cercando inconsciamente di espiare un certo senso di colpa, specifico o vago. Lo stesso principio lo vediamo operare nei lavoratori infaticabili e frenetici.

Un giovane ministro diceva di sentirsi sconfitto e fallito, perché non gli riusciva di essere fedele alla sua ora devozionale del mattino. Era, sì, molto occupato, ma non era questa la vera causa. Ammetteva di trovare tempo per guardare la televisione, ma non per parlare con Dio.

Qualcuno gli disse: “Non ti senti, forse, colpevole in qualche area della tua vita che non vuoi esaminare e che ti impedisce di presentarti davanti a Dio? Non stai, forse, dedicando poco tempo alla tua famiglia e a tua moglie per cui ti senti colpevole? E non ti neghi, forse, a presentarti davanti a Dio, perché ciò comporterebbe portare dei mutamenti al tuo orario, cosa che attualmente non sei disposto a fare?”

Il ministro ammise che il problema era esattamente questo. Si sentiva diviso tra le richieste del suo lavoro nella Chiesa e le esigenze della moglie. Stava cedendo, però, sempre più agli impegni derivanti dal suo lavoro, perché il non farlo gli avrebbe creato più ansia di quella che gli creava la sua poca disponibilità verso le esigenze della famiglia.

Aveva nascosto alla sua coscienza il vero motivo del suo problema, ma la sua confessione di uno stato di necessità gli permise di ricevere da altri la luce di cui aveva bisogno.

 

Un uomo, pur partecipando attivamente ad un gruppo familiare di una Chiesa, non riusciva a simpatizzare con gli altri, perché credeva che non avessero fiducia in lui. Manteneva, così, anche se a livello inconscio, delle barriere tra lui e gli altri.

Ma un giorno si ricordò di una esperienza traumatica che ebbe da bambino e che aveva dimenticato. Aveva subito un abuso sessuale e ciò gli aveva prodotto un senso di vergogna, di indegnità e di colpa, pur non essendo in nessun modo colpevole. Ricordò anche che il suo stesso padre aveva abusato di lui sessualmente e i sentimenti che sperimentò nel rivivere quella situazione furono di gran turbamento.

Si era creata in lui una colpa fittizia, un senso di indegnità per cui non sentiva di meritarla fiducia e l’apprezzamento degli altri. La confessione di questi episodi, cioè la presa di coscienza di questa sua realtà nascosta, lo liberò da questa problematica e lo riportò ad un giusto rapporto con il prossimo.

 

Il nevrotico ha un solo nemico: la sua coscienza. Questa non lo lascia mai in pace e la tragedia di questa situazione è che il nevrotico, con le sue forze e senza aiuto esterno, è incapace di scoprire perché la sua coscienza lo perseguiti in quel modo e perché qualunque cosa faccia stia sempre male. Il nevrotico, quindi, non ha risolto il problema della coscienza accusatrice e non riesce, così, a vivere in maniera soddisfacente.

La vera confessione è dolorosa. Non fa particolarmente male dover ammettere: “Non ho amato come avrei dovuto, sono orgoglioso e non so perdonare”, perché queste sono generalizzazioni, potendole riferire a qualsiasi essere umano sulla terra.

In noi c’è una tensione tra la necessità di nascondere e quella di rivelare. Abbiamo bisogno di raccontare a qualcuno ciò che ci pesa sul cuore, ma temiamo la sua condanna o il suo rifiuto. In generale, quindi, rinunciamo ad affrontare il problema della nostra colpa.

La difficoltà di andare direttamente al dunque della questione fa sì che molta gente cerchi un incontro con un consigliere o un fratello e presenti delle false inquietudini, come per esempio la richiesta di spiegazione di un punto dottrinale controverso. Tocca, poi, al consigliere sensibile approfondire il motivo di questa richiesta di incontro.

 

A una madre, che all’inizio voleva solo parlare delle marachelle del figlio quattordicenne, le si fece notare che non aveva mai amato veramente questo suo figlio. Questa fu per lei una terribile rivelazione.

Il fatto di avere altri figli da allevare e la realtà economica allarmante le fece nascere un’ondata di risentimento verso il nuovo nato, risentimento, però, che represse con cura, perché una madre non può albergare nel suo cuore simili sentimenti.

Lei sentiva un vero amore verso questo quinto figlio, era disposta a fare qualsiasi cosa per lui, ma lo aveva anche odiato. Aveva sempre cercato di espellere questo pensiero dalla sua mente e di rifiutare questi sentimenti, che la facevano sentire colpevole, gettandoli nella parte più profonda del suo inconscio.

Nell’inconscio, però, questi sentimenti continuano il loro lavoro e, nel loro bisogno di sfogo, producono malattie psicosomatiche e manifestazioni di rabbia incontrollata. Questa madre, poi, proiettava la sua colpa sul figlio, mettendone in rilievo le marachelle.

 

Una sposa credeva fermamente che il marito la tradisse. Non poteva provarlo, anche se lui aveva dei comportamenti sospetti, ma ciò le bastò per alimentare la sua convinzione.

Analizzandosi scoprì parte della risposta da sola. I suoi sospetti erano causati probabilmente dal fatto che lei aveva iniziato a frequentare l’attuale marito quando questi era ancora sposato. Lo aveva aiutato, quindi, ad essere infedele e si era sentita colpevole riguardo a questa relazione.

In lei si era insinuato il timore che, dopo una prima infedeltà, poteva essercene una seconda. Temeva, nel fondo, il castigo per quello che aveva fatto e il castigo più ovvio era quello di perdere l’oggetto del suo peccato, del suo desiderio.

 

Uno non deve solo confessare i peccati manifesti della carne, ma anche attitudini mentali, sentimenti ostili non ancora portati alla pratica, segreti che producono colpa, motivazioni sbagliate, mete false, ecc.

La stessa importanza rivestono i peccati di omissione, cioè le cose che avremmo dovuto fare e che invece non abbiamo fatto.

In Luca 16:19-31 il ricco è tormentato nell’inferno.  Chissà, forse, è il tormento quasi insopportabile del rimorso per le occasioni perdute, per le buone intenzioni mai diventate realtà e per l’amore mai espresso. Il suo fu un peccato di omissione: non mostrò compassione.

Tutti noi abbiamo commesso questo genere di peccato. Non vogliamo, però, neanche caricarci con colpe in necessarie in quanto non possiamo portare i pesi di tutti, né morire su tutte le croci sospinti da una necessità neurotica di assumere il ruolo di Dio.

 

Ci sono, poi, i peccati occulti, con il relativo senso di colpa, che abbiamo sotterrato nell’inconscio. I peccati vengono coperti anche dalla nostra razionalizzazione, cioè tramite scuse giustificanti, come: “Mi ha provocato…non ho potuto evitarlo…è stato più forte di me…lo fanno tutti…ecc.”

Se la mente, però, può essere convinta, non si può dire lo stesso per la coscienza, che mantiene vivo un certo senso di colpa. Quest’ultimo, anche se sotterrato, esercita un’influenza sulla persona.

Chiediamo a Dio che ci porti alla coscienza ciò che è ancora occulto (Salmo 19:12) e chiediamogli l’amore per poter amare.

 

Un santo è una persona che pecca sempre meno e confessa sempre di più. Non arriverà mai il giorno, qui sulla terra, in cui potremo smettere di confessare le nostre mancanze. Dopo i peccati della carne, più evidenti, ci sono quelli dello spirito, più sottili, come l’orgoglio, l’invidia, la concupiscenza, l’avarizia, la lussuria, la gelosia, ecc.

E quando uno si sta congratulando con se stesso, perché ha la sensazione di controllare tutti questi peccati, scopre che l’orgoglio ha preso in lui nuova forza. Ma dobbiamo, allora, continuare a lottare senza sperare di vincere mai? Proprio così!

La lotta qui sulla terra non finisce mai, ma ad ogni passo in più intrapreso nel cammino della salvezza sperimentiamo una sensazione più profonda di pace e tranquillità e una Presenza crescente, che opera con e dentro di noi.

Non siamo soli in questa lotta e, ogni volta che cadiamo, possiamo rialzarci e continuare in questo cammino, perché non c’è limite all’amore e al perdono di Dio.

 

In Gesù vediamo questa attitudine di perdono, di comprensione per la realtà carnale degli uomini, anche se non di giustificazione, e per la nostra cecità spirituale (Luca 9:51-56 / Marco 10:35-45). Gesù non condanna o rifiuta, ma insegna e aiuta per assumere l’atteggiamento giusto. Non punta il dito accusatorio sulla nostra debolezza, ma vuole rendercene coscienti, affinché Lui ci possa aiutare (Luca 22:54-62).

Ci è difficile, a volte, credere che Dio ci possa perdonare all’istante e in modo totale. Ci sembra incredibile che Dio possa offrirci il suo amore senza condizioni, ma Dio è migliore di noi e, quindi, può farlo.

La convinzione di essere perdonato dipenderà dal concetto che abbiamo di Dio e non dal modo come confessiamo i nostri peccati (1 Giovanni 1:9). Certo, la nostra confessione deve essere totale e soprattutto onesta.

Una donna con molti debiti era tormentata dai suoi creditori. Aveva pregato Dio perché la aiutasse a trovare il denaro sufficiente, ma non ebbe alcuna risposta.

Una notte, non potendo dormire, uscì a fare una passeggiata e gridò a Dio tutto il suo odio per non averla aiutata. La sua lotta con Dio durò un certo tempo, poi, sfinita, rientrò a casa.

Non pregò più per una pioggia di Euro, che avrebbe risolto i suoi problemi, ma disse: “Dio, se vuoi che la mia situazione si risolva, tu te ne prenderai carico, io mi do per vinta”.

Aveva abbandonato la sua preghiera infantile per ottenere un miracolo rapido e facile e affrontò i suoi sentimenti. Abbandonando la sua lotta, l’aveva rimessa nelle mani di Dio.

Per quanto debole e umana, la sua era stata una preghiera onesta e l’onestà con se stessi e con Dio è il punto di partenza per una crescita spirituale. Se non siamo onesti con noi stessi, come potremo esserlo con Dio? E se non siamo onesti con Dio riguardo i nostri veri sentimenti, come ci potrà aiutare?

 

Il peccato risiede nell’emozione, nel sentimento, nell’attitudine che ispira il fatto. Diciamo a Dio come ci sentiamo. Se sentiamo ostilità, diciamoglielo, non giustifichiamola, né razionalizziamola, ma confessiamola.

Confessiamo a Dio la nostra gelosia, l’invidia, l’avarizia, la concupiscenza, il timore, la mancanza di fede, il desiderio di imporre la giustizia propria, le attitudini critiche che ci portano a giudicare gli altri e a giustificare noi stessi, l’autosufficienza che ci ha fatto dipendere più dalle nostre forze che da Dio, l’autocompassione che abbiamo usato come mezzo per ottenere simpatia, i nostri inganni, le bugie e la mancanza di perdono.

Non concentriamoci troppo su quello che gli altri hanno fatto a noi. Non siamo responsabili per le azioni degli altri, ma lo siamo per il modo come abbiamo reagito alle loro azioni.

Non confessiamo i difetti degli altri. Anche se chi ci ha offeso ha il 90% della colpa e noi solamente il 10%, secondo il nostro punto di vista, esaminiamo la nostra parte di responsabilità e confessiamola.

 

Nel confessare i miei peccati e nel cercarli anche in maniera spietata non sto dicendo alla mia anima che sono peggiore degli altri e degno di condanna, ma mi unisco al resto della razza umana e confesso di non essere migliore di quelli che ho condannato e che ho bisogno del perdono di Dio.

Non c’è più virtù nel condannare se stessi piuttosto che gli altri. Non sono il più qualificato per giudicare me stesso (1 Corinzi 4:3-4), infatti non posso valutare tutti gli svariati fattori di eredità e ambiente che mi predispongono verso questo o quell’errore.

Prendiamo atto solamente della nostra condizione e confessiamola a Dio.

 

Una sottile forma di orgoglio potrebbe impedirci di accettare il perdono di Dio. Si vuol dare a questo atteggiamento una veste di umiltà, ma è un modo per dire: “Devo risolvere da solo questa situazione e non posso dipendere dal perdono divino. Devo fare espiazione”.

Questo modo di agire è un rifiuto verso il vero significato della croce, che è simbolo dell’accettazione e dell’amore divini.

Da bambini abbiamo imparato che fare qualcosa di male ci portava come conseguenza un castigo. Poteva essere uno sguardo di disapprovazione da parte dei genitori o un rifiuto totale per un certo tempo.

Siccome erano umani, è stato difficile per i nostri genitori offrirci un amore incondizionato. A volte ci hanno castigato addirittura con risentimento e noi abbiamo imparato a ricevere un castigo rapido per una cosa fatta male. A volte abbiamo dovuto affrontare una negazione dell’amore da parte loro, situazione che il bambino teme più di un castigo corporale.

 

E il bambino non è morto nell’adulto. La struttura emozionale del bambino continua a vivere attraverso le nuove tappe della vita. Le pene che abbiamo sofferto da bambini sono ancora vive nel nostro cuore.

Esistono come cicatrici e siccome i nostri concetti infantili sono in parte ancora vivi tendiamo a proiettare su Dio i sentimenti che avevamo nei confronti dei nostri genitori. Forse ci chiediamo se Dio è più misericordioso di quanto lo sono stati loro.

Ma Dio è sicuramente più disposto a perdonarci di quanto noi siamo pronti a ricevere il suo perdono.

Gesù non ha mai classificato i peccati in varie categorie. Le persone che condannava principalmente erano i dirigenti religiosi, esteriormente morali e giusti, ma interiormente macchiati dall’orgoglio e altri peccati dello spirito (Matteo 23).

Le motivazioni del cuore sono quelle che interessano Dio e quelle dobbiamo confessare. Se in una certa occasione mi arrabbio, non devo tanto confessare il peccato di avere alzato la voce quanto il motivo che mi ha spinto a farlo.

 

Dio non si sente tanto adirato per il peccato in sé, ma perché, non ubbidendo alle sue leggi, danneggiamo noi stessi e gli altri, e ciò gli produce dolore. Il peccato commesso si ripercuote contro di noi, mentre Dio vuole il nostro bene.

Il sentimento di colpa che si crea in noi come conseguenza del peccato non deve portarci ad odiare noi stessi, ma a stimolarci ad agire meglio. Se noi ci odiamo, disprezziamo qualcuno che Dio ama.

Il peccato distrugge le relazioni umane e, quindi, distrugge noi stessi, perché senza relazioni umane soddisfacenti noi ci ammaliamo nell’anima.

Chi ha uno scatto di rabbia non deve sentirsi colpevole perché ha perso la pazienza, ma perché ha ferito e danneggiato una persona.

Questo nostro pentimento, se genuino, deve portarci a cercare Dio, perché in Lui noi troviamo le qualità e la forza per intavolare rapporti positivi con il nostro prossimo.

Stare, poi, alla presenza di Dio può rivelarci la condizione del nostro cuore e le motivazioni del nostro comportamento.

Una madre che grida con i suoi figli può capire che, forse, sta scaricando su loro il rancore che ha verso il suo sposo. Lo scatto di rabbia non è allora il vero peccato, ma l’aver trascurato Dio e l’aver dato più importanza ad altre cose.

 

La realtà negativa della nostra vita deve renderci coscienti del nostro vero peccato, che è alla base di tutti gli altri. L’adultero ha violato la legge divina, ma Dio non è adirato perché è stato infranto il suo codice morale, ma perché è stata violata la personalità umana.

L’adulterio non è una cosa cattiva perché si proibisce nei dieci comandamenti, ma perché è distruttivo per la personalità umana. Dio non ha dato il giorno di riposo perché l’uomo potesse entrarci come in una camicia di forza, ma per offrirgli una pausa di cui aveva bisogno.

Dio soffre nel vedere che ci distruggiamo. Noi soffriamo a causa del peccato che opera in noi, mentre Dio sente il peso di questa sofferenza che ci colpisce.

La croce di Cristo rappresenta da una parte la sofferenza di Dio, il peso con cui è caricato il suo cuore per la distruzione operante nell’umanità, e dall’altra il suo desiderio e capacità di mettere fine a questo ordine di cose e liberare l’uomo da questa sua triste condizione.

La croce rappresenta un peso e un mezzo di liberazione (muore il dominio del peccato sull’uomo). Dio vuole trasmettere anche a noi, tramite il suo Spirito, questo suo peso verso il peccato e la sua opera distruttrice, che deve portarci ad abbracciare la sua croce.

La croce, cioè la morte del potere del peccato in noi, ci permette di dire basta all’opera distruttrice del peccato verso noi stessi e verso il prossimo.

 

 

 

 

 

Quattro tipi di persone

 

La persona io-io

Le persone io-io trovano la pienezza emozionale alimentando il loro ego insicuro, saziando i loro piaceri egoistici e assicurandosi di fare sempre a modo loro.

Questa gente, nel momento di prendere una decisione, si pone le seguenti domande:

 

- In che modo mi riguarda?

- Che beneficio ne avrò?

- Entra nei miei piani?

 

Non importa se piace, aiuta o danneggia altri. E’ il tipo di persona che non condivide niente con nessuno, che non è interessato agli altri, né è pronto a prendersi carico dei problemi altrui, avendone abbastanza dei propri. La maggior parte delle persone appartiene a questa categoria.

Voglio ciò che voglio quando lo voglio e nel modo che lo voglio: questo è il suo principio di fondo. Tu pensa agli affari tuoi che io penso ai miei.

Scopre presto che la maggior parte della gente di questo mondo non si interessa alla sua vita più di quanto egli faccia nei confronti degli altri. Per questo diventa insicuro, sta sulla difensiva, opprime, è sospettoso e cinico.

Si lancia in una frenetica corsa al piacere con uno sforzo nevrotico per evitare un confronto col proprio Ego di cui non si sente orgoglioso, oppure cerca maggior potere credendo stupidamente che il potere e la posizione sociale raggiunta faranno sì che gli altri lo guardino con rispetto. In questo modo pensa di trovare il rispetto anche verso se stesso.

 

Ascolta soltanto quando immagina che potrà ricavarne un certo vantaggio. La vera comunicazione è un equilibrio tra dare e ricevere. La persona io-io, però, non riesce a dare e, quindi, non riceve.

Dobbiamo prestare la nostra onesta e umile attenzione per accettare un consiglio, una critica, un suggerimento. Dobbiamo dimostrare una legittima e autentica preoccupazione prima di accettare il peso degli altri e poter dire: “Mi preoccupa la tua situazione”.

Dobbiamo cedere la nostra libertà per lasciarci coinvolgere in una causa degna. Dobbiamo dare il nostro tempo, i nostri talenti e i nostri tesori prima di poter accettare responsabilità.

Su questo pianeta terra tutti siamo sulla stessa barca e il danno causato ad altri si ripercuoterà alla fine su di noi.

 

 

La persona io-materia

Queste persone attribuiscono alle cose un’importanza primordiale. Trovano la loro realizzazione emozionale nelle cose:

“Vuoi essere gioioso? Cercati qualcosa di nuovo!”

“Sei annoiato? Vai a fare degli acquisti!”

“Ti senti colpevole? Compra un regalo!”

“Hai paura? Comprati una pistola!”

“Ti senti insicuro? Aumenta il tuo conto in banca!”

“Vuoi fare impressione sulla gente? Automobili, club, cocktail-party sono la soluzione!”

“Ti senti solo? Vai al cinema, a un bar, in discoteca!”

 

Per questi individui anche le persone si trasformano in oggetti. Non vengono viste, infatti, come esseri umani che alimentano speranze, sentimenti e sogni, ma come giocattoli, strumenti, mezzi di diversione, beni per acquistare qualcosa o spazzatura che si butta via.

La persona io-materia non si sente mai emotivamente soddisfatta, né realizzata. Scopre che le cose arrugginiscono, si consumano, invecchiano o passano di moda. Le cose non producono autorispetto e stima propria su una base permanente.

Il suo atteggiamento determina le sue norme di valutazione: “Quanto ci guadagno? Quanto mi costerà? Che beneficio ne avrò?”

Non si sente mai veramente libero, perché tiranneggiato dalle cose: pitturami, rammendami, sostituiscimi, riordinami, ecc.

In fondo non ama nessuno. Il suo affetto è legato alla necessità. Il rapporto con i suoi simili non raggiunge mai un livello profondo e per questo non vive una vita piena.

 

 

La persona io-tu

Coloro che entrano in contatto con gli altri considerandoli esseri umani sono le persone io-tu. Vedono i loro simili come persone che hanno dei sogni, che soffrono e hanno delle necessità.

Quando passiamo dal livello animale a quello umano abbiamo raggiunto il livello di persone io-tu. Questo livello determinerà le nostre norme di valutazione e le nostre mete.

Nel momento di prendere una decisione, allora, ci chiederemo: “Aiuterà? E’ lecito farlo?” Ascolteremo, così, attentamente e daremo noi stessi agli altri.

Quando le persone io-io e io-materia diventano persone io-tu si producono notevoli cambiamenti:

- La donna di casa diventa una madre

- Il capo-famiglia diventa un padre

- L’avvocato diventa un consigliere

- Il maestro diventa un modellatore di uomini

- Il dottore diventa un guaritore

- Il camionista diventa un trasportatore di materiali vitali

- Il venditore diventa uno che provvede alle necessità umane

- L’impresario diventa un creatore di opportunità di lavoro

- Il capitalista diventa un costruttore di una società migliore, utilizzando la sua capacità di guadagnare denaro

- Il leader religioso non sarà più un propagandista di dottrine settarie, ma diventa un salvatore di anime, un edificatore della fede, un uomo che ispira gli altri a cambiare la loro vita.

 

E’ possibile cambiare la natura umana?

Freud direbbe che non è possibile, perché il suo studio sull’uomo lo ha portato a disprezzarlo.

Marx direbbe di sì a patto che si cambiassero le condizioni economiche dell’uomo e si eliminassero tutti i mali dell’umanità.

Gesù dice che non è possibile cambiare in modo permanente la personalità cambiando il medio ambiente, ma che diventerebbe possibile cambiando il modo di pensare. Lo Spirito Santo in noi vuole compiere questa trasformazione e convertirci in una persona capace di amare e, quindi, di interessarsi e di fare propri i problemi degli altri.

 

 

La persona io-Lui

Uniamoci a Cristo e permettiamo che il suo Spirito si incorpori nella nostra personalità. Solo così saremo la persona che realmente vogliamo essere.