LA  GUARIGIONE  DEI RICORDI

 

 

 

La guarigione necessita apertura

 

Dio sa ciò che significa essere umano. Lo ha sempre saputo, perché Lui è Dio, ma adesso, in Cristo, lo sa per esperienza diretta. Dio, quindi, conosce la nostra realtà, la comprende e vuole intervenire nella nostra vita, cioè si interessa alla nostra condizione.

La sua incarnazione è la massima espressione di questo suo interessamento nei nostri confronti. E’ venuto, infatti, sulla terra per affrontare tutte quelle circostanze in cui possiamo venirci a trovare, sia sul piano emozionale (rifiuto, abbandono, solitudine, scherno, disprezzo, ingratitudine, incomprensione), che su quello fisico (il dolore) e spirituale (fu tentato in ogni cosa: Ebrei 2:17-18 ; 4:15).

Nessuna di queste circostanze lo ha dominato mai o lo ha condizionato nel suo comportamento, anzi Lui ha superato ogni cosa, ha vinto ogni sentimento interno e ogni pressione esterna, ha mantenuto il suo equilibrio, la sua pace, la sua armonia, non si è mai vendicato di nessuno e non ha mai fatto del male a nessuno.

Dio, in Cristo, ha affrontato tutto questo per poter offrire a noi la sua vittoria sul peccato e su tutte le conseguenze negative che il peccato stesso produce sulla nostra vita (1 Pietro 2:21-24).

Lo Spirito Santo è lo strumento che Dio oggi utilizza per comunicare con noi, trasmetterci tutte le cose che Lui ha preparate per noi e, soprattutto, concederci la sua vittoria. E’ chiamato Spirito della verità, perché deve mostrarci la verità su noi stessi, così come Dio la vede. E’ chiamato il Consolatore, perché ci comprende, avendo vissuto la nostra stessa miseria. E’ Colui che geme dentro di noi, perché anela la nostra liberazione (Romani 8:18-26).

 

Questa vittoria, questa liberazione, è, dunque, a nostra disposizione ed è tramite la fede, cioè la fiducia, che possiamo appropriarcene.

La fiducia comporta l’abbattimento di ogni barriera di timore (vergogna, giudizio, condanna, rifiuto, umiliazione), di orgoglio (non accettare aiuto, non riconoscere la propria condizione, voler dimostrare di essere quello che non si è: Giovanni 8:31-37 ;

9:39-41 / Luca 18:10-12), di rifiuto della sofferenza (nel riportare alla luce situazioni penose della nostra vita passata: Giovanni 11:34,39,43-44 ; 4:16-18), di rifiuto al cambiamento (la guarigione porta un cambiamento negli schemi mentali, nell’atteggiamento verso la vita, verso il prossimo, e può produrre un timore verso l’ignoto o riguardo alla capacità di affrontare questa nuova realtà (Giovanni 5:2-8).

 

Per la guarigione delle persone, però, è necessario che i membri della Chiesa irradino lo stesso tipo di accettazione espressa dal Signore. La maggior parte dei timori e della ansie che impediscono alle persone di aprirsi sono causati dal dolore delle relazioni interpersonali non sane.

Dati i traumi relazionali vissuti da queste persone, è necessario che si sentano circondati, adesso, da cristiani affettuosi e solleciti e da un’atmosfera di comprensione e d’amore. Anche quando queste persone vadano corrette, deve prevalere lo spirito di restaurazione su quello di censura.

 

Vediamo a questo riguardo una parabola:

Un uomo era steso sull’asfalto e sanguinava. L’auto che lo aveva investito non si era fermata. Doveva essere soccorso immediatamente, ma costui supplicava: “Non portatemi all’ospedale, per favore”. Sorpresi, tutti gli chiesero: “Ma perché?”

Con un atteggiamento ancora di supplica rispose: “Perché io lavoro in quell’ospedale e sarebbe imbarazzante che i miei colleghi mi vedessero così. Non mi hanno mai visto ferito e sporco, ma sempre ben pulito e sano, mentre adesso sono una catastrofe”.

“Ma l’ospedale esiste apposta per dei casi come il suo. Non possiamo chiamare un’ambulanza?” “No, per favore, non fatelo. Io ho partecipato ad un corso di sicurezza per i pedoni e l’istruttore mi criticherebbe, se venisse a sapere che mi sono fatto investire”.

“Ma che importa ciò che possa pensare l’istruttore, lei ha bisogno di cure!” “C’è anche un’altra ragione, sapete, l’impiegata all’accettazione è molto meticolosa e finirebbe per innervosirsi, perché non ho a portata  di mano tutti i dati di cui lei ha bisogno. Non ho potuto notare, infatti, né la targa, né il tipo di macchina che mi ha investito e, inoltre, ho dimenticato a casa la mia tessera sanitaria”.

“Ma che importa tutto questo?” “Non accettano nessuno senza tessera sanitaria, perché devono assicurarsi che la fattura verrà pagata. Devono proteggere l’istituzione. Lasciatemi qui sul marciapiede. Me la caverò in un modo o nell’altro. Se mi hanno investito è stata colpa mia. Perché poi gli infermieri dovrebbero sporcare le loro uniformi per soccorrermi? Se la prenderebbero con me!”

 

Ciò può verificarsi sia per un timore ingiustificato al rigetto e sia per un rifiuto reale da parte di chi dovrebbe accogliere il bisognoso.

Auguriamoci di poter sviluppare una tale comunità per cui ogni persona ferita possa dire con ansia: “Portatemi in Chiesa, per favore”.

 

 

 

Il gruppo familiare: strumento di guarigione

 

Questi gruppi non sono rigidamente concepiti per sviluppare la discussione su certi temi, lo studio biblico o la preghiera, ma contengono elementi di questi tre aspetti.

Il gruppo ha come base un senso di necessità in chi vi partecipa. Gesù si avvicinava alle persone sulla base delle loro necessità: una malattia fisica, un handicap come la cecità, per esempio, un bisogno spirituale, una perdita di una persona cara o una necessità di perdono. Gesù usava le crisi come un punto di partenza per un contatto ravvicinato, considerava l’uomo come un’ isola e vi navigava intorno cercando un punto per attraccare.

 

Un essere umano non cambierà il suo stile di vita, malgrado le esortazioni e gli esempi detti o dati, se non a causa di una sofferenza vissuta sulla sua pelle.

I consigli, la persuasione e le richieste fatte dall’esterno produrranno solo un cambio temporale e superficiale nella sua personalità. L’ Ego umano è abbastanza recalcitrante e ostinato e si ribella contro i cambiamenti, perché teme grandemente l’insicurezza profonda che questi producono nella sua vita.

Ma il corso della vita avanza in modo implacabile e porta con sé la giusta porzione di sofferenza. Quando il turbamento ha raggiunto proporzioni consistenti, l’individuo è disposto ad abbandonare quella attitudine che la Bibbia condanna.

Una certa dose di disperazione è un requisito valido per ottenere qualsiasi tipo di guarigione dell’anima. La necessità interna che ci obbliga a cercare una risposta può essere la pugnalata acuta di una crisi o la pulsazione sorda di una frustrazione sopportata per molto tempo. Può essere la crisi di una mancanza di armonia nel matrimonio, di una malattia o il dolore diffuso che si sperimenta nel considerare che la vita ci sta scappando di mano senza avere vissuto nulla di significativo.

Siamo lenti ad ammettere la nostra insufficienza. Per molti è doloroso confessare l’esistenza di problemi nella loro vita, che non riescono a risolvere da soli. In un certo modo si crede che una tale ammissione costituisca un atto di debolezza.

 

I membri di questi gruppi, per il semplice fatto di farvi parte, sono abbastanza umili per ammettere il loro bisogno di aiuto.

La necessità può essere un semplice desiderio di maggior crescita spirituale. La persona è cosciente che la vita ha molto di più da offrire e che la sua religione non gli ha permesso di sperimentare quel’amore, quella gioia e quella pace che Gesù ha promesso per i suoi seguaci.

Altri si uniscono al gruppo per raggiungere una maggior felicità coniugale. Una comunicazione più profonda e aperta da parte dei coniugi può essere la chiave che apre questa porta.

Altri vengono perché si sentono frustrati. La vita, certo, è frustrante e i momenti di vera felicità sono rari. La difficoltà non sta nel fatto che la vita non offra più gioia e felicità, ma che le persone non hanno imparato ad essere aperte per riceverle.

Il gruppo può incominciare cercando una maggior consacrazione a cristo. Questo passo può mettere in evidenza una difficoltà nel pregare. Ciò permette di scoprire l’esistenza di barriere che impediscono una maggior conoscenza di Dio. Il dialogo aperto tra i componenti del gruppo porta alla scoperta concreta di questi ostacoli.

 

 

 

 Esempio di lavoro di gruppo

 

Il gruppo consiste di 12 persone: quattro coppie sposate, due persone non sposate e due mogli senza i rispettivi mariti. La loro età varia tra i 30 e i 42 anni.

Dopo una tazza di caffè e 15 minuti circa di dialogo libero per una prima conoscenza, il responsabile del gruppo prende la parola. Questi invita i presenti a leggere un certo passaggio di un libro e lascia loro 15 minuti per meditare sul testo, o per pregare.

Parla il responsabile: “In questo passaggio l’autore suggerisce che la ragione per cui molte delle nostre preghiere non ricevono risposta non è da attribuire alla poca disponibilità di Dio, ma a barriere presenti in noi, che limitano le nostra fede e la nostra capacità di ricevere. Ci dice anche che nella nostra cecità spirituale molte volte chiediamo delle cose sbagliate (esempio: chiedere la liberazione dal sintomo e non dall’attitudine). Elenca, poi, quattro barriere di fondo, e cioè la paura, l’odio, l’inferiorità e la colpa. Vogliamo adesso discutere su questi punti? Parlate in  modo personale e in modo astratto, dite cioè quello che sentite e non ciò che pensate”.

 

Uno degli uomini interrompe: “Che cosa c’è di male nel pensare? E’ già passato di moda?”

Il responsabile sorride e dice: “Vogliamo scoprire i nostri sentimenti e offrirli a Dio. Per esempio, queste quattro barriere alla crescita spirituale sono dei sentimenti e io adesso vi dirò quello che sento al riguardo. Quando considero questi quattro sentimenti, o barriere, scopro che il risentimento mi disturba parecchio. Non lo esprimo subito, perché altrimenti non avrei amici e forse neanche una famiglia. Lo percepisco soprattutto nei confronti dei miei figli, a causa del rumore che fanno, dei loro litigi e della loro disubbidienza”.

“Ma non deve avere questi sentimenti. Dopo tutto non sono che bambini”, dice una signora.

Il responsabile: “Qui nel gruppo non diciamo quello che dovremmo sentire, ma diciamo esattamente quello che sentiamo. Non pretendiamo che i nostri sentimenti siano buoni, giusti, nobili o cristiani, ma li ammettiamo liberamente e onestamente”.

Un uomo: “A me, però, non piace tanto andare a dissotterrare tutte queste cose. Io dico sempre che ciò che è stato è stato, e non vedo perché dovremmo ritornare su queste cose. Io caccio fuori dalla mia mente tutti questi pensieri indegni e cerco di pensare a cose gradevoli riguardo alle persone. Gesù ha insegnato proprio questo.

Nel mio caso non sono questi quattro i miei veri problemi, ma la mancata risposta alle mie preghiere. Da anni, infatti, prego per la mia artrite, ma sto solo peggiorando. Mi chiedo se questa è una delle maniere che Dio utilizza per mantenerci umili, o se, forse, io non so pregare. Ditemi voi qualche cosa”.

Una donna: “Da qualche parte ho letto che l’artrite è spesso da mettere in relazione con le nostre emozioni negative, come l’odio, la paura e il risentimento”.

L’uomo con l’artrite sorride e dice: “Può essere vero per alcune persone, ma io non sono cosciente di avere mai odiato qualcuno. Mia madre mi ha sempre insegnato che l’amore e il perdono sono le grandi virtù cristiane. Lei mi diceva sempre che non è possibile essere cristiani e odiare. Una volta, in seguito ad una lite, ricordo di aver detto ti odio a mio fratello, ma mia madre mi sentì e mi castigò”.

Uno dei presenti: “Che tipo di castigo?”

L’uomo con l’artrite sorride dolcemente e dice: “Normalmente in queste circostanze era ferma. Aveva forti convinzioni cristiane e, inoltre, aveva ragione”.

Un altro partecipante: “Credo che ha evitato la risposta. Non ci ha detto come sua madre l’ha castigato”.

L’uomo con l’artrite: “Prese un bastone e me le diede di santa ragione. Mi ero quasi dimenticato dell’episodio, ma adesso ricordo che mi lasciò molti lividi sulla schiena, che mi fecero male per una settimana o più. Mia madre, però, aveva ragione e io lo sapevo. Non le ho, certo, serbato rancore per questo”.

Uno dei presenti chiede: “Ci parli di suo padre”.

L’uomo con l’artrite: “Lui era una delle persone più buone che abbia mai conosciuto. Taciturno e dolce, non gli ho mai sentito pronunciare una parola dura contro qualcuno. Anche lui era affetto da artrite ed era alquanto invalido quando morì per un attacco di cuore, poco più che quarantenne. Ma non vorrei che si parlasse solo di me e non vorrei dominare questa discussione. Che parli qualche altro”.

 

Il responsabile: “In verità stiamo tutti partecipando tramite ciò che lei sta dicendo. Ascoltandola qualcuno del gruppo può analizzare una parte dei suoi sentimenti. Ci dica qualcosa di più riguardo a sua madre e ai suoi sentimenti nei suoi confronti. Forse, quando scopriremo esattamente che sentimenti prova verso i suoi genitori, sapremo anche che cosa ente nei confronti di Dio”.

L’uomo con l’artrite, mansueto e modesto, riprende la parola: “Non ho sentito altro che amore profondo verso la mamma. Da piccolo avevo l’asma e lei si consacrò a me. Una o due volte ho pensato che mio fratello maggiore, che è un avvocato di successo, fosse il suo preferito, ma questo è normale tra i bambini. Mia madre si è sacrificata per mandare mio fratello alla facoltà di legge ed io, in quegli anni difficili, vendevo giornali. Ma siamo riusciti a farlo laureare e di questo sono orgoglioso”.

Qualcuno chiede: “E lei, Giorgio, che mestiere fa?”

L’uomo con l’artrite: “Sono commesso e vivo con mia madre. Non mi sono mai sposato per una ragione o per un’altra e poi mia madre ha bisogno di me. Ma non vorrei che si continuasse a parlare di me. Io non ho gravi problemi. Mi sono unito al gruppo semplicemente per imparare alcune delle tecniche per la preghiera efficace e sono convinto che con il tempo riceverò qualche risposta da Dio. Che parli qualche altro”.

 

Negli incontri successivi Giorgio affronta con più onestà i suoi sentimenti e ammette a se stesso, per la prima volta, di avere dei rancori, anche se profondamente sotterrati, verso la madre e il fratello maggiore. Si rende conto che può condividere questi suoi sentimenti di rancore con il gruppo e che questo, malgrado la sua ostilità, lo accetta ugualmente.

In una seduta dice: “Il fatto che il gruppo abbia potuto accettarmi con tutta la mia carica di ostilità sepolta, ha permesso anche a me di accettarla completamente. Ho potuto capire che non si può cedere a Dio ciò che uno non vuole riconoscere a se stesso e che non potevo guarire dalla mia artrite, finché non avessi ammesso i miei veri sentimenti davanti a Dio e al gruppo. Per la prima volta ho potuto accettarmi così come sono. Ho visto che era in parte un senso di dipendenza quello che mi manteneva legato a mia madre. Era vero che lei aveva bisogno di me, ma ciò mi ha mantenuto dipendente da lei. Adesso, finalmente, sento di poter essere me stesso”.

 

Chiusa la storia di Giorgio, Gabriella riprende il tema dei sentimenti che si possono provare verso i propri genitori: “Mi immagino che mi sono unita al gruppo in parte perché non ho mai saputo pregare efficacemente e pensavo che qui si discutessero i principi della preghiera. Il fatto di scavare nelle nostre emozioni mi disturba un po’. Non vedo che relazione possa avere ciò con la religione. Credo, inoltre, che possa essere pericoloso indagare in profondità nei nostri sentimenti. Non dobbiamo essere così egoisti. Credo che dobbiamo concentrare semplicemente la nostra attenzione su Dio e imparare ad essere cristiani più consacrati. Il passato è passato e mi sembra una perdita di tempo dissotterrarlo con tutte queste cose morbose”.

 

Il responsabile: “ Gabriella, lei ha detto di avere difficoltà nella preghiera, in quanto non sente che le sue richieste arrivino a Dio. Ci può dire come si immagina Dio?”

Gabriella: “Dio per me è l’Essere, o la potenza, più grande che esista. Dio è amore. A volte, però, mi sento così indegna e colpevole, oltre che timorosa, che quando prego non riesco a perseverare come dovrei. So che il male è in me, perché sono sicura che dio risponde alle preghiere. Non ho abbastanza fede: ecco il problema”.

Un membro del gruppo: “Ho letto da qualche parte che, malgrado abbiamo dei pensieri elevati nei riguardi di Dio, tendiamo a sentire nei suoi confronti gli stessi sentimenti che sentivamo verso i nostri genitori o qualche altra figura d’autorità. Gabriella ci racconti di suo padre”.

Gabriella: “Io volevo molto bene a mio padre, ma lui era molto severo. Da piccola avevo un certo timore nei suoi confronti, quasi paura. Quando da bambina cercavo di salire sulle sue ginocchia, avevo sempre l’impressione che era troppo occupato per prestarmi attenzione. Mi ricordo di una sola volta che sono riuscita a farlo.

Avevo quasi dimenticato questo episodio, ma adesso ricordo che un giorno tornai a casa da scuola con qualche cosa che avevo fatto per lui. Quando arrivai a casa, stava leggendo il giornale e gli dissi: ‘Guarda papà che cosa ho fatto per te oggi a scuola’. Lui fece una specie di grugnito, mi guardò per un momento e mi disse: ‘Va bene. Adesso vai a giocare’. Credo che mi sono sentita rifiutata e da quella volta in avanti, per un qualsiasi bisogno, mi rivolgevo più a mia madre che non a mio padre”.

 

Un membro del gruppo: “Suppongo che, se da bambini abbiamo visto nostro padre troppo occupato per pensare a noi, tendiamo da adulti a proiettare questi stessi sentimenti su Dio, come se Lui fosse impossibilitato ad interessarsi alle nostre piccole necessità e problemi”.

“Cosa centra questo?”, chiede un altro degli uomini presenti. “Noi sappiamo ormai che Dio non è mai così occupato da non interessarsi alle nostre necessità, anche le più insignificanti. Gesù ci ha insegnato che Dio osserva anche la caduta di un passero, così che, e a maggior ragione, starà attento a tutto ciò che riguarda i suoi figli. Non vedo come ciò che è successo quando eravamo bambini possa influenzare il nostro modo di sentire e di agire oggi. Gesù ha detto: ‘La verità vi renderà liberi’ e in questo crediamo”.

 

Dopo una pausa, uno dei membri chiede: “Giovanni, sente che le sue preghiere sono efficaci? Provvede Dio alle sue necessità, sia piccole che grandi?”

Giovanni, un po’ evasivamente, risponde: “Non sempre, naturalmente. Non sono il cristiano che dovrei essere, però sono con vinto che, se credessi veramente, Dio risponderebbe a qualsiasi necessità legittima”.

Un membro: “Ha espresso un concetto intellettuale o una sensazione profonda?”

Giovanni: “Suppongo intellettuale, ma non sono troppo convinto di dover separare l’aspetto intellettuale dai sentimenti. I sentimenti possono essere importanti, ma ciò che mi è successo da bambino non può influenzare la mia vita attuale. Sono ormai una persona adulta e penso di agire sulla base di quello che so”.

Il responsabile: “Gli studiosi della psiche umana sono d’accordo nell’affermare che la nostra struttura emozionale si forma entro i primi sei anni di vita. Alcuni pensano che i primi sei mesi sono tremendamente importanti. Ritorniamo al caso di Gabriella che crede che Dio risponde alla preghiera dei suoi figlioli, ma che sente che probabilmente non si interessa ai dettagli più insignificanti della sua vita. Vediamo se c’è qualche relazione tra questa sua sensazione e i sentimenti che ha nei confronti del padre”.

 

Un membro: “Certamente. Se si sentiva respinta dal padre, quando andava da lui con qualche necessità infantile e per esprimere il suo amore, sentirà adesso che Dio è troppo occupato nel dirigere l’universo per interessarsi ai dettagli della vita quotidiana. Dobbiamo rieducare non soltanto i nostri cervelli, ma anche i nostri sentimenti.

Ho saputo per anni che Dio non è così occupato da non potersi interessare a me, ma, per qualche ragione, non prego finché non mi trovo in piena crisi. Non so se dipende dal fatto che mi sento autosufficiente e che posso farcela da solo, o perché sono egocentrico e non mi piace ammettere di aver bisogno, o perché mi comporto con Dio esattamente come facevo con mio padre. Lui era un imprenditore molto impegnato e quando rientrava a casa la sera era sempre stanco morto. Ricordo che mia madre ci avvertiva di stare zitti, perché papà aveva bisogno di riposare prima della cena. E dopo cena si ritirava nel suo studio per curare i suoi affari.

Adesso, che sono adulto e conosco le responsabilità familiari, so il perché del suo comportamento e capisco che cercava semplicemente di guadagnare il denaro sufficiente per dare da mangiare ad una famiglia grande come la nostra. In quei momenti, però, vedevo mio padre come una figura molto distante. Forse, oggi sento gli stessi sentimenti nei confronti di Dio, e cioè una persona distante, che non deve disturbare con i miei piccoli problemi”.

 

Un membro: “Sono d’accordo. E’ sicuramente vero che alcuni di noi sono cresciuti pensando che i loro padri erano figure distanti e hanno albergato sentimenti di ostilità verso le loro madri, sentimenti che hanno sempre dovuto rifiutare in qualche modo, perché non è corretto averli.

In che cosa mi può aiutare sapere tutto questo riguardo alla mia infanzia? Che succede se porto alla luce tutti questi sentimenti proibiti? Tutto quello che dobbiamo fare, penso, è di smetterla di essere bambini e diventare cristiani consacrati.

Il mondo è un disastro, la gente si odia e le nazioni sono pronte ad entrare in guerra, minacciato di estinzione da un eventuale conflitto atomico, e noi stiamo qui a preoccuparci delle nostre emozioni, chiedendoci se odiamo veramente i nostri genitori. Usiamo il cervello e incominciamo ad essere cristiani e diamo una mano a questa civiltà minacciata”.

 

Dopo una pausa di meditazione, un membro dice: “Carlo, sono parzialmente d’accordo con te. Credo che dobbiamo vivere da cristiani consacrati, infatti il pastore domenica ci ha invitati ad una consacrazione più profonda. Perché non hai risposto a quell’appello e non hai deciso di essere un cristiano più consacrato?”

Carlo: “Il pastore non mi ha detto in modo specifico da dove incominciare e nemmeno come fare questo passo. Magari lo sapessi!”

Una delle donne, amica intima della moglie di Carlo, chiede: “Carlo, dato che dai l’impressione di cercare un punto di partenza e non ci è possibile risolvere in un colpo i problemi del mondo, perché non incominciamo in casa nostra?”

Carlo: “Cosa intendi?”

L’amica della moglie: “Forse non ho alcun diritto di fare questa domanda, ma ho inteso che in questo gruppo possiamo e dobbiamo essere franchi, per cui ti voglio chiedere che rapporto hai con tua moglie”.

Carlo, un po’ sulla difensiva: “Più o meno come tutti. Ogni coppia manifesta delle differenze e noi abbiamo le nostre. A volte sbaglio io e a volte sbaglia lei. Quando lavoro troppo divento irritabile e quando lei si alza di traverso non ha pazienza alcuna con i bambini, così io scoppio e litighiamo”.

Francesca, la moglie: “Suppongo che la nostra vita di coppia sia abbastanza normale, con alti e bassi. Io, però, non sono soddisfatta. Quando il pastore, domenica scorsa, parlava di una consacrazione più profonda, io ho pensato che non ho nessuna voglia di risolvere il problema razziale, di partecipare a discussioni sul tema della pace mondiale e di impegnarmi in altre cose, quando mi sento piena di risentimento in casa mia. Non so nemmeno chi sono. Come posso offrire a Dio la mia persona che ancora non conosco? Come posso aiutare a risolvere i problemi del mondo, se non sono capace di risolvere i miei? Voglio lavorare prima su me stessa e poi mi occuperò dei problemi degli altri. Adesso mi piacerebbe sapere, perché io e Carlo discutiamo su cose triviali, perché mi irrito tanto con i bambini, perché sono così ansiosa, perché sono così suscettibile e perché dico delle cose di cui dopo mi pento, ma per cui non chiedo scusa perché sono troppo orgogliosa per farlo. Non credo che nessuno in questo gruppo, o nella Chiesa, abbia una vita così in ordine da poter fare qualcosa di utile per risolvere i problemi del mondo”.

 

Francesca, una donna generalmente silenziosa, stava riuscendo ad esprimere finalmente i suoi veri sentimenti.

Il marito: “Non sapevo che ti sentivi così, Francesca”.

La moglie: “E’ evidente. In casa non parliamo mai o, per lo meno, non affrontiamo temi importanti. Comunichiamo poco. Parliamo di come i bambini siano fuori controllo, del conto scoperto in banca e poi litighiamo. Questa non è comunicazione. Se cerchiamo di parlarci su cose importanti, i bambini esigono attenzione e non riusciamo mai a concludere nulla di importante”.

 

Il responsabile: “Questa è una delle mete del gruppo: proporre un luogo che favorisca la comunicazione. Qui possiamo dire ciò che abbiamo voglia di dire. Possiamo essere veramente noi stessi, anche se l’Io che mostriamo non è sempre così gradevole come la gente del mondo lo conosce. Ma la cosa più sorprendente è che ci sentiremo sempre più accettati e amati nell’esprimere onestamente i nostri sentimenti. Le persone non possono amare una maschera o comunicare con una maschera. Purtroppo quasi tutti ne abbiamo una”.

Carlo: “Io non mi sono unito al gruppo per lavare i miei panni sporchi in pubblico. Se ho dei peccati, li confesso a Dio e non a questo o a quel gruppo. Gesù ha detto che, quando preghiamo, dobbiamo entrare nella nostra stanzetta segreta e rivolgerci a Dio in segreto. Io non sono d’accordo su questo tipo di confessione pubblica”.

 

Carlo si sentiva minacciato e temeva che Francesca raccontasse al gruppo i loro problemi familiari.

Francesca: “Carlo, io credo che gli unici due passaggi della Bibbia che conosci sono quelli che invitano a pregare in segreto e a non permettere che la mano sinistra sappia ciò che ha fatto la destra. C’è, però, un altro versetto nella Bibbia che dice: ‘Confessate i falli gli uni agli altri e pregate gli uni per gli altri, affinché siate sanati’. Non credo che ciò significhi che dobbiamo raccontare in modo impulsivo tutti i nostri peccati in qualche gruppo, ma significa che i sentimenti, specialmente quelli che ci producono dei sensi di colpa, possono e devono essere condivisi con altri. Forse, se li esprimiamo e ci rendiamo conto che nessuno ci rifiuta per questo, possiamo in cominciare ad accettare e ad amare noi stessi sempre di più. E se il gruppo ci accetta, potremo forse convincerci, sia a livello mentale che sentimentale, che anche Dio ci accetta così come siamo, con tutti i nostri peccati. Carlo, forse ti sei arrabbiato perché ho parlato delle nostre liti in famiglia, ma mi sento più libera di parlarne qui che non a casa. Se dico ciò che penso a casa, infatti, tu ti arrabbi e te ne vai e, quando tu sei molto franco con me, io mi metto a piangere, cosa che non sopporti. Ho l’impressione adesso di essere riuscita a comunicare più in questi pochi minuti di quanto non abbia fatto in dieci anni di matrimonio. E ciò mi dà una sensazione di benessere”.

 

Una donna del gruppo: “Francesca, ti ho frequentato per anni, ma non sono mai riuscita a conoscerti. Ti ho sempre sentito dire le cose giuste al momento giusto e sei sempre stata molto dolce e seria. Adesso, che hai aperto il tuo cuore, ho l’impressione di conoscerti veramente. I tuoi veri sentimenti mi piacciono di più di quella bella maschera che porti continuamente.

Francesca sorride con gratitudine e dice: “Credo di potermi sentire una persona più vera, adesso che ho trovato un luogo dove esprimere ciò che ho dentro, e di aver trovato la possibilità di essere me stessa, senza percepire quella tremenda paura del rifiuto della gente di fronte alle mie imperfezioni”.

 

Gianni: “Sono contento di sentire altri parlare sul problema della comunicazione. Mi sento un po’ meglio nel venire a conoscenza che anche in altre famiglie si manifesta ostilità e non si vive una vera comunicazione. Mi sembra, quindi, conveniente ammettere che anch’io e mia moglie, Elena, litighiamo di tanto in tanto. Alcune volte le liti sono furiose. Una volta per settimana, circa, si crea una situazione di crisi con conseguente esplosione. Io non so mai cosa la provoca, ma mia moglie inizia ad insultarmi e non finisce, se non quando io mi lascio andare a parola grosse. Allora si mette a piangere e facciamo la pace e le cose vanno bene per una settimana circa”.

Elena: “Ho appena ascoltato qualcosa di incredibile. Non me ne sono mai resa conto prima. Gianni dice che io lo insulto, finché lui non ha uno scoppio di rabbia. Ho dovuto rendermi conto, proprio adesso, che mia madre faceva la stessa cosa con mio padre. Lui era una persona molto remissiva, malleabile e morbida, così come mio marito. Io e mia madre dovevamo prendere la maggior parte delle decisioni, ma credo che lei volesse che papà assumesse un ruolo più attivo in seno alla famiglia. Penso che i rimproveri che gli rivolgeva non fossero altro che un tentativo per indurlo ad assumere un ruolo più maschile in casa. Era necessario punzecchiarlo varie volte prima che mio padre avesse degli scoppi di rabbia, ma quando lo faceva era terribile. Mia madre, allora, si metteva a piangere, però, dopo, dava l’impressione di sentirsi meglio. Credevo che era il pianto a farla a star meglio, ma adesso vedo che la sua soddisfazione derivava dall’atteggiamento più virile, e da vero capofamiglia, che assumeva in quei frangenti mio padre. E io, forse, sto imitando il comportamento di mia madre?”

 

Gianni sorride: “Se questo è quello che vuoi, lo riceverai, stanne certa. Sì, è vero, sono un po’ passivo e detesto questa mia attitudine, ma è la sola cosa che so fare. Mi piacerebbe, certo, essere più dominante. Elena sicuramente ha ereditato parte di questo suo fare dalla madre, ma, forse, questo suo atteggiamento esprime insicurezza e ansia. Forse la sua pressione nei miei confronti è dovuta al suo desiderio che assuma in casa un’attitudine più maschile o autoritaria. Credo che la maggior parte delle donne dominanti siano confuse. Vogliono dirigere le cose e assumere il ruolo di capo perché son o umane, ma, essendo donne, vogliono che qualcun altro prenda in mano la situazione. Non sanno decidersi su cosa desiderino di più. Elena si è sposata con me, suppongo, perché era dominante come sua madre ed io passivo come suo padre. Lei vuole essere dominante come sua madre, però la donna che c’è in lei desidera che sia io il più forte. Mi crea molta ostilità il ruolo sempre più dominante che le donne stanno assumendo, unito, però, al desiderio che gli uomini siano più aggressivi. Credo che le donne debbano decidere quello che vogliono esattamente”.

 

Una delle donne: “Gianni, lei sente per questa ragione una certa ostilità verso le donne? Sente ostilità verso l’attitudine dominante di sua madre? O ce l’ha con se stesso per essere così passivo?”

Gianni: “Mi dispiace ammetterlo, ma la mia risposta è sì a tutte e tre le domande. Credo che ho sentito, e ancora sento, molta ostilità nei confronti dell’attitudine taciturna e dominante di mia madre e per questo verso ogni donna che me la ricorda. Sento, però, anche dispiacere per non avere abbastanza fiducia in me stesso. Mi considero cortese e facile da influenzare e dominare. Vorrei, però, essere un uomo forte, con molta fiducia in me stesso, ma non sono questo tipo di persona, almeno per ora.

Il responsabile: “Gianni, crede che nella misura in cui sua moglie rinuncerà al suo ruolo dominante, lei riuscirà ad assumere un ruolo più conforme alla visione che ha di se stesso?”

Gianni: “Forse sì. Soprattutto se potremo venire qui una volta alla settimana per discuterne. Il Signore sa che non possiamo, o che non vogliamo, apportare questi mutamenti da soli in casa”.

 

 

 

L’amore, meta della terapia di gruppo

 

Uno dei benefici del gruppo terapeutico è quello di abbattere le barriere invisibili che esistono tra le persone. Queste barriere invisibili ci impediscono di conoscerci e di amarci gli uni gli altri. La solitudine e la sensazione di isolamento sperimentati da quasi tutti sono, in una qualche misura, il risultato della nostra ritrosia a farci conoscere dagli altri, per paura di venire da loro rifiutati.

Nel gruppo cadono le barriere e scopriamo che amiamo persone che prima non ci erano mai state simpatiche. Scopriamo che quanto più gli altri sanno di noi, più facile è per loro accettarci e amarci. Nessuno può amare una maschera e quando noi decidiamo di togliercela, ci rendiamo conto di venir accettati in una nuova dimensione.

 

Ecco le impressioni di un partecipante: “Da quando sono in questo gruppo sto cambiando radicalmente la mia opinione e i sentimenti che ho sempre avuto nei confronti di Antonio. L’ho sempre conosciuto in un modo abbastanza superficiale e l’ho sempre considerato un superbo, con il complesso della superiorità. Da quando, però, si è espresso apertamente riguardo ai suoi sentimenti di insufficienza, ho sentito simpatia per lui, perché anch’io ho le stesse problematiche. Adesso non temo più di essere rifiutato da lui. Ci assomigliamo, io e lui. Chissà, forse anch’io nascondo alcuni dei miei sentimenti di incapacità, di insufficienza con una apparente superiorità che non sento. Ho l’impressione, adesso, di amare Antonio”.

 

Forse tu non ti sei mai considerato un solitario, ma senti questa sensazione nel tuo intimo. Quando uno riesce a manifestare il proprio “Io” nella sua realtà, si rende conto che è accettato e amato in un modo nuovo. Nel rivelarsi ad altri, poi, uno riesce a conoscere se stesso. Infatti, la nostra paura di essere conosciuti dagli altri non è più grande di quella che abbiamo noi di conoscere noi stessi.

Non è per forza, né per organizzazione, né per campagna evangelistica che il Regno di Dio giungerà su questa terra, ma tramite l’amore, amore per Dio e per il prossimo, che abbatte le nostre distanze e la nostra solitudine.

Ma il primo passo è quello di amare noi stessi. La condanna e i sensi di colpa per essere quello che si è non libera, ma opprime. Accettiamoci così come siamo per poter iniziare un processo di cambiamento.

Dar da mangiare a un mendicante, perdonare un insulto, amare un nemico nel nome di Cristo è certo una virtù, ma che cosa succede se scopro che il più povero tra i mendicanti, il più impudico tra gli offensori e il più vile di tutte le canaglie si trova in me? Che succede quando mi rendo conto che io stesso ho bisogno della mia elemosina e che io stesso sono il nemico da amare? Se amo me stesso con tutti i miei limiti, peccati e imperfezioni, potrò amare il prossimo, che presenta le mie stesse problematiche. Spesso, infatti, non amiamo gli altri, perché evidenziano quelle limitazioni che odiamo in noi stessi, o perché hanno ciò anche noi vorremmo avere e non abbiamo.

 

Una donna, che si definiva molto depressa, in una riunione di gruppo terapeutico incominciò a raccontare dei suoi sentimenti dolorosi di rigetto, che aveva sperimentato da bambina. Aveva avuto l’impressione di non essere amata e adesso non poteva sentire amore verso i suoi genitori, né verso i suoi fratelli. Non si sentiva amata da nessuno al mondo.

Ci fu un attimo di silenzio e poi qualcuno del gruppo le disse: “Dio ti ama”. La donna rispose che non dubitava dell’amore di Dio, ma che aveva bisogno di sentirsi amata dalle persone. Riconobbe, però, anche la sua incapacità di ricevere questo amore nel caso le venisse offerto. Il dolore al rigetto, percepito nella sua infanzia, era così grande da averla sospinta ad erigere barriere di protezione, che le impedivano di sentire amore. Praticamente non riusciva a sentire altro che la sua depressione.

 

E’ probabile che nessuno possa sviluppare una personalità equilibrata e possa vivere una vita efficace, se non ha percepito e ricevuto amore da un’altra persona. Normalmente ciò incomincia nell’infanzia. Il bebé impara la realtà dell’amore dai suoi genitori, dai suoi fratelli e dagli altri esseri umani che lo circondano. Non possiamo amare gli altri, né sperimentare un amor proprio sano, se non abbiamo conosciuto l’esperienza di essere amati. Tutti, chi più chi meno, abbiamo sentito dentro di noi questo tipo di clamore, di grido: “Sono solo, nessuno mi ama, nessuno mi vuol bene. Che posso fare? Come posso ricevere amore?”

 

Per il nostro equilibrio è importante imparare ad amare prima ancora di imparare a vivere, a camminare, a parlare. Un individuo, la cui capacità di dare e ricevere amore è seriamente impedita, ha avuto invariabilmente un’infanzia in cui non si è sentito amato, o è stato incapace di ricevere l’amore nella forma in cui gli è stato offerto.

Può una persona imparare l’arte di amare in età adulta? La risposta è affermativa, anche se richiederà un certo sforzo. E’ un po’ come una famiglia che si trasferisce in terra straniera. I figli che vi nasceranno impareranno senza fatica sia la lingua dei genitori che quella del posto, mentre i genitori riusciranno anch’essi ad esprimersi in quel nuovo linguaggio, ma con molta fatica e sempre con un accento straniero.

Se, per una qualsiasi ragione, le nostre relazioni amorose da bambini sono state disturbate e abbiamo sperimentato rigetto, dobbiamo imparare l’arte di amare così come un adulto impara una lingua straniera.

Un bambino, che si sente rifiutato per una qualsiasi ragione, acquista la nozione che è doloroso amare e più tardi nella vita può ritrarsi automaticamente da ogni relazione intima. E’ diventato vittima di un riflesso condizionato, e cioè Amore uguale Dolore. L’azione di riflesso è quella di evitare qualsiasi relazione in cui l’amore e la tenerezza possano essere una minaccia. Tutto ciò succede a livello inconscio.

 

Tutte le persone hanno delle “isole di immaturità” interiori, sia i santi che i peccatori. Se una di queste isole ha a che vedere con l’incapacità di amare, ciò non significa che detta persona debba venir qualificata per immatura. In tutti gli altri aspetti, infatti, può essere una persona matura e capace.

In un certo grado, però, l’efficacia di una persona dipende dalla sua capacità di amare. La meta finale di ogni terapia è quella di liberare dentro l’individuo una maggior capacità di amare. l gruppo piccolo è il luogo migliore per iniziare questo processo di liberazione.

Di norma chi resiste a questa forma di terapia è colui che più ne ha bisogno. Chi teme la gente, teme l’amore e le sue implicazioni. Gli uomini, generalmente, temono i loro sentimenti più delle donne. Da bambini è stato loro insegnato di non piangere, espressione di una emozione, e la nostra cultura conferma loro che è ”virile” sopprimere le emozioni. Come conseguenza gli uomini tendono a temere qualsiasi esperienza che metta in evidenza le emozioni.

Un uomo può razionalizzare tutto ciò dicendo: “No, siamo adulti. Risolveremo i nostri problemi da soli”. Ciò che in realtà sta dicendo è: “Voglio evitare qualsiasi situazione in cui vengano messi allo scoperto i sentimenti. Mi sento più sicuro quando sono io ad affrontarli”. Le donne in questo campo sono più realiste e cercano l’aiuto di un consulente o di un gruppo terapeutico.

 

Il nostro senso di identità si forma nell’infanzia. Se il bambino non cresce con un senso radicato di valore, può sentirsi limitato nella sua capacità di stringere relazioni con gli altri in modo creativo. La sua limitazione può assumere la forma di timidezza. Può, però, cercare di coprire  questa sua timidezza innata con un fare brusco e aggressivo, che è un tentativo per dire: “Io non sono per niente timido”. Così facendo può ingannare anche se stesso.

Può compensare questa sua incapacità di amare con il raggiungimento di qualcosa di significativo, come accumulare molto denaro o simboli che hanno valore nella società. E’ come se si dicesse: “Io sono una persona di valore! Se non posso avere l’amore, desterò intorno a me ammirazione, o invidia, o acquisterò potere sulle persone e le cose”.

 

Le donne hanno meno modi di compensare il senso di inferiorità e il sentimento di non essere amate. Un uomo compensa tutto ciò tramite il successo negli affari, lo sport, o l’ottenimento di distinzioni e onori. Le donne, invece, rimangono più seriamente frustrate, se si vedono incapaci di amare e di essere amate. Le loro opportunità si limitano, generalmente, nel campo della casa e i lavori domestici. Anche se lavorano, non sono molto disposte a mettersi negli affari, perché è terreno dominato dagli uomini.

 

L’amore che Dio ci vuole insegnare è un interesse attivo e senza egoismo per il benessere dell’altro. L’amore non è soltanto una grande idea o sentimento astratto. Alcuni hanno un concetto così elevato dell’amore da non riuscire mai ad esprimerlo nell’amabilità semplice della vita quotidiana. Immaginano che amare sia compiere atti eroici e offrire se stessi in sacrificio totale.

Aspettando, però, questa opportunità che non arriva mai, diventano sgradevoli nei confronti di coloro che li circondano e non si dimostrano mai sensibili al bisogno del vicino. Amare è desiderare il bene dell’altro. Amare può significare scrivere una lettera con sufficiente cura, affinché il destinatario la possa leggere senza perdere tempo per decifrarla. In questo caso amare può significare spendere del nostro tempo per farlo risparmiare all’altro. Amare è pagare i nostri debiti, è mantenere le cose in ordine per rendere più facile il lavoro della moglie, è arrivare in orario ad un appuntamento, è ascoltare attentamente chi ci sta parlando, ecc.

 

L’incapacità di amare o la volontà di non amare è la causa prima dell’infelicità e delle malattie mentali. Dove per amare intendiamo sperimentare interesse, responsabilità, rispetto e comprensione verso un’altra persone, oltre al desiderio della sua crescita. L’amore, per natura, non si può limitare ad una sola persona. Chi ama una sola persona e non il suo prossimo, dimostra che il suo amore per quella persona non è altro che un  bisogno di sottomissione o di dominio.

 

 

 

Prendendo coscienza

 

Ad uno degli uomini più ricchi del mondo il padre gli aveva detto: “Tu non riuscirai a guadagnarti il pane per vivere!”

Sospinto da una necessità interiore di dimostrare che suo padre aveva torto, divenne un miliardario prima ancora di aver raggiunto i 30 anni di età. A 60 era uno degli uomini più ricchi del mondo, ma, sospinto da un desiderio insaziabile di accumulare sempre più denaro, non riuscì a godere di queste sue ricchezze. Un giorno disse ad un amico: “Ah, se avessi trovato il tempo per imparare a socializzare con la gente! Nei rapporti sociali mi sento un incapace”.

Non è possibile sperimentare un senso di pace e di sicurezza interiore, malgrado i milioni accumulati, se non si cerca la ragione che provoca questo tipo di impulso irrefrenabile.

 

Claudio, un uomo di circa 35 anni, confessò in un gruppo terapeutico l’impulso irrefrenabile a dover dominare tutte le conversazioni e a dover migliorare qualsiasi storia venisse raccontata. Era nato in un quartiere povero e, a volte, si sentiva rifiutato dai suoi compagni di scuola.

Nel riconoscere la radice di quel suo senso di incapacità e di inferiorità, smise di colpevolizzare se stesso, i suoi genitori e i compagni di scuola. Si rese conto che doveva accettarsi così com’era per crescere spiritualmente e sul piano emozionale.

Sentì, così, sempre meno il bisogno di dominare la discussione del gruppo. Acquistando un maggior grado di  accettazione propria, non aveva più quella necessità profonda di guadagnare dagli altri un’accettazione e approvazione temporale. Non aveva più bisogno di cercare l’attenzione dei suoi compagni con la supplica silenziosa: “Guardatemi, ragazzi, ci sono anch’io. Accettatemi”.

 

Luisa era cresciuta in una casa dove la madre dominava la situazione, e in un modo anche molto evidente. Il padre aveva sempre molte cose da dire e con un tono dogmatico, ma era la madre che prendeva di solito le decisioni.

Luisa aveva un gran desiderio di identificarsi con suo padre e di gradirgli. Qualunque cosa facesse, però, lui le diceva che avrebbe potuto farla meglio. Inoltre, la criticava, la intimidiva con minacce e la disprezzava.

Lei, comunque, continuava nei suoi tentativi di gradirgli, pur sperimentando nel suo cuore l’insicurezza di essere amata da lui.

Verso i 35 anni si innamorò tre volte consecutivamente, ma di tre alcolizzati. Ognuno di loro era una persona gradevole, affettuosa e incantevole, ma, per una ragione o l’altra, queste storie finirono.

Nei suoi tentativi di guadagnare l’approvazione di ogni uomo, aveva fatto tutto ciò che era nelle sue possibilità per essergli gradita, adattarsi alle sue esigenze e ottenere quell’amore che suo padre le aveva negato. Ma questa era una battaglia che non avrebbe potuto vincere mai, perché suo padre era già morto.

Luisa, in ogni uomo che conosceva, vedeva suo padre e cercava di guadagnarne l’approvazione. Si rese anche conto, in seguito, che aveva sempre scelto degli uomini che erano dipendenti e che cercavano una forte figura materna. In questo modo aveva la sensazione di essere di aiuto a qualcuno, di essere necessaria e, quindi, approvata. Questo tipo di rapporto lo aveva interpretato come amore.

 

Mario, marito di una giovane donna eccessivamente dominante e aggressiva, espresse in una riunione il suo odio verso di lei e il suo senso di colpa che ne derivava.

Gli chiesero di parlare di sua madre. Ne risultò il quadro di una donna dominante e fu chiaro che lui aveva cercato inconsciamente una moglie simile a lei. Aveva bisogno di una donna forte nella sua vita, ma non così forte.

Si rese conto, però, di non odiare tanto la moglie quanto la sua debolezza e passività. Doveva conquistare la sua indipendenza e questo avrebbe richiesto un certo tempo, a seconda di quanto era radicato in lui questo atteggiamento passivo.

Sapere che si deve amare, perdonare, essere teneri e comprensivi non aiuta molto, se esiste uno scontro di personalità. Questo “dovere” spesso si trasforma in tiranno, ma non fa altro che produrre sensi di colpa per i continui fallimenti.

Mario, nei suoi scontri con la moglie, non stava lottando con lei, ma con la madre. L’ostilità sepolta, che aveva sentito verso la madre dominante, si era finalmente manifestata.

 

Un giovane uomo era innamorato degli anelli e non perdeva occasione per entrare in gioielleria e farsi mostrare tutti gli anelli che avevano. Sembrava una mania e così gli venne chiesto di risalire ai primi ricordi riguardanti un anello.

Gli venne in mente che la prima esperienza con un anello era stata alquanto tragica. Il padre aveva comperato un magnifico anello e lui ne era rimasto tanto affascinato da chiedere al padre di poterlo portare a scuola, almeno una volta. Il padre acconsentì, ma gli fece notare che certamente lo avrebbe perso. E così fu.

Il padre, al rientro, gli manifestò tutta la sua rabbia per avergli perso quel’oggetto di valore. E da quel giorno il figlio continua a cercare quell’anello in una forma inconscia e neurotica, mosso dall’impulso di acquietare il padre.

 

Paola non aveva mai avuto una relazione soddisfacente con suo padre.  Aveva desiderato molto sentirsi amata da lui, ma tutto quello che aveva ottenuto era una relazione casuale e distante. Questo sembrava essere per lei causa di grande preoccupazione.

Nel passato si era innamorata di molti uomini e anche adesso, pur sposata e felice, si sentiva fisicamente attratta da molti altri uomini. Non poteva dire se era amore o una semplice attrazione fisica, ma, in ogni caso, si scatenava in lei una forza potente.

Le venne chiesto se vedeva qualche relazione tra i suoi tentativi frustrati di guadagnare l’amore di suo padre e la sua necessità prorompente di conquistare gli uomini, o, per lo meno, di guadagnare il loro affetto.

Lei rispose affermativamente. Si rese conto che, delusa nella sua relazione col padre, cercava qualcuno che potesse darle ciò che desiderava ricevere dal genitore. Era trascinata da un impulso a cui non riusciva a dare un nome.

 

 

 

L’immagine di se stessi

 

Sandro comunicò al gruppo il suo timore di venir licenziato in qualsiasi momento. Il suo padrone, però, non si era mai lamentato di lui. Era arrivato al punto di non voler neanche prendersi le ferie regolari, perché sentiva di non meritarsele.

La ricerca interiore lo portò a scoprire sentimenti di ostilità profonda sia verso il padre, autoritario, che per la madre, le cui convinzioni religiose sembravano essere una combinazione di timore e moralismo rigido.

Ricordò una sensazione profonda di fallimento, di timore al castigo, di non essere all’altezza delle aspettative dei genitori e di non comportarsi in modo soddisfacente. Era cresciuto con il concetto di essere fisicamente debole, di avere un’intelligenza sotto la media e di essere una persona destinata a fallire nella vita.

Questa immagine gli era stata costruita da genitori troppo severi e da un fratello molto estroverso. Da adulto, aveva adesso oltre 30 anni, continuava a comportarsi in perfetta armonia con l’immagine che aveva di se stesso: temeva il padrone, aveva un’attitudine passiva e si aspettava da un momento all’altro il disastro.

 

Per mezzo del gruppo Sandro scoprì che non c’era alcuna ragione per incolpare i suoi genitori, perché ciò che aveva determinato il suo concetto di se stesso non era stato il loro modo di agire nei suoi confronti, ma il modo come lui aveva reagito.

L’immagine infantile, che uno sviluppa di se stesso, non deve rimanere in permanenza come una tara ereditaria. Con l’aiuto di un gruppo terapeutico è possibile diventare coscienti del potenziale positivo di cui si dispone e formare, così, un’immagine totalmente differente di se stessi, agendo poi di conseguenza.

L’accettazione amorosa del gruppo e l’onestà di chi inizia il processo di apertura ci permettono di vederci così come siamo e come possiamo diventare.

“Perché dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono lì in mezzo a loro”. Quando alcuni dei suoi seguaci sono disposti ad abbandonare le loro tensioni, pregiudizi e barriere, e a porre la loro attenzione in Gesù, Lui è lì presente.

La realtà e l’intensità dell’amore gli uni per gli altri sembra essere una delle condizioni perché si senta la sua presenza. In un simile ambiente l’onestà e la sincerità possono fiorire. Il gruppo può imparare il valore di “dire la verità con amore”.

 

Ci sono grandi risorse in noi che non usiamo. Possiamo amare di più, ottenere di più e sperimentare una maggior forza e tranquillità interiori.

Quando impariamo a cooperare con le leggi divine, lasciando così spazio all’azione dello Spirito Santo in noi, e ci disponiamo a volere tutte quelle cose buone che Dio ha preparato per noi, non avendo più paura della sua volontà ma cercandola come il bene supremo per le nostre vite, possiamo credere di poter accedere a livelli molto più elevati di vita, così come Dio già lo vede (Gesù chiama Simone “Pietro”, cioè roccia, significando quello che sarebbe diventato, se si fosse mantenuto unito al suo maestro, tramite la fede).

 

Davide, nella sua infanzia, si sentiva dire sempre dal padre che non valeva niente. Da adolescente, così, si mise a rubare e a vivere di espedienti. Venne arrestato varie volte e il padre lo aiutava ogni volta ad uscire di prigione.

Aveva imparato due cose riguardo al padre. La prima era che non lo apprezzava e non lo riteneva capace di combinare nulla di buono nella vita, la seconda che, qualunque cosa avesse fatto, lo avrebbe sempre aiutato ad uscire dai guai (il padre era molto ricco).

Si convinse di non valere niente e che sarebbe stato immune a qualsiasi tipo di castigo. A 40 anni era un giocatore e un bugiardo. Il gruppo lo aiutò ad essere onesto con se stesso e con Dio, sviluppando un nuovo concetto relativo alla sua persona e non temendo il rigetto da parte della gente.

Man mano che diminuiva questo timore, aumentava l’accettazione di se stesso e, quindi, la guarigione.

 

Antonio era un ministro del Vangelo con una lieve balbuzie. I suoi genitori erano stati molto rigidi ed esigenti. Avevano sempre lottato perché nessuno dei loro figli potesse inorgoglirsi nel ricevere elogi e, così, avevano adottato la politica di non lodarli mai.

Esprimevano abbondanza di critica, senza compensarla con elogi e  senso di accettazione.

Antonio crebbe con una immagine debole di se stesso. Da adulto, per fortuna, riuscì a svincolarsi da quell’immagine negativa e pessimista che si portava addosso e sviluppò la convinzione di poter avere successo nella vita.

Un’altra persona meno aggressiva avrebbe continuato a vivere sotto il peso della timidezza e della passività.

 

Roberto non partecipava mai ai canti della congregazione. Era l’unico a non cantare e questo lo deprimeva.

Ricordò, un giorno, un episodio legato alla sua maestra della quarta elementare. La classe doveva cantare un coro in una certa rappresentazione scolastica. La maestra li stava preparando e ci teneva a fare bella figura. Tre alunni, tra cui Roberto, non soddisfacevano le richieste della maestra e, così, vennero scartati.

Roberto accettò il verdetto di non saper cantare e crebbe con questa convinzione. L’aver compreso l’origine del suo problema lo stimolò a reagire e incominciò a cantare, anche se dopo ogni canto si sentiva esausto sul piano emozionale. Realtà che diminuì nel tempo.

Roberto era stato vittima di un riflesso condizionato. Le parole “musica” e “canto” lo avevano sempre riempito di sentimenti profondi di inferiorità.

Da adulto ruppe questa spirale perversa, facendo esattamente quello che temeva. Se freniamo o cambiamo l’espressione di una emozione, in questo modo cambiamo l’emozione stessa. Cioè, se agiamo come se ci sentissimo in una certa maniera, col tempo i nostri sentimenti si allineano alle nostre azioni.

Roberto incominciò ad agire come se non temesse la musica e il suono della sua voce e così, poco a poco, vinse l’antico timore.

 

Molte persone pensano che questa sia una forma ipocrita di agire. Assolutamente no! L’ipocrita non riconosce i propri limiti, anzi li maschera, mentre noi, coscienti dei nostri problemi, li vogliamo superare con le potenzialità che Dio ha messo a nostra disposizione in Cristo.

Sullo schermo della nostra mente proiettiamo l’uomo libero che Dio vuole che diventiamo, tramite la conoscenza della verità e l’aspettativa, in fede, della grazia di Gesù.

Questa mia attitudine è come la creazione di uno stampo, che aspetta di essere riempito. Io posso e devo fare lo stampo, ma solo Dio, in Gesù, lo può riempire con la sua grazia, ovvero col frutto dello Spirito Santo.