VASI  DI  TERRA

 

 

“Noi abbiamo questo tesoro in vasi di terra, affinché l’eccellenza di questa potenza sia di Dio e non da noi” (2 Corinzi 4:7).

Questa è la dichiarazione più chiara della natura del cristiano pratico. Il cristianesimo non è il vaso di terra e neanche il tesoro, ma il tesoro in vasi di terra.

Ogni individuo, cristiano o no, ha l’immagine del suo uomo ideale. Tutti hanno un proprio concetto dell’uomo buono.

Credono che se uno fa questa o quella cosa, o si comporta in questa o quella maniera, o se è un certo tipo di persona, questo uomo è buono.

Ognuno di noi si è formato un modello, un concetto di bontà e, se qualcuno lo raggiunge, lo consideriamo un uomo buono.

 

Prima di convertirci a Cristo avevamo certe norme, ma dopo la conversione abbiamo scoperto che molti di coloro che ammiravamo non erano degni della nostra ammirazione.

Li analizziamo, adesso, secondo la nuova luce che abbiamo ricevuto e ci rendiamo conto del loro fallimento come uomini. La nostra scala di valori si è modificata.

Prima della nostra conversione avevamo dei concetti ben precisi su Gesù Cristo, opinioni umane, ma dopo la nostra salvezza lo Spirito Santo ci ha aperto gli occhi e abbiamo visto la vera natura di Gesù.

Abbiamo, così, una nuova norma della vita cristiana, che da una parte è la meta verso la quale ci dirigiamo e dall’altra determina il metro con cui giudichiamo gli altri.

L’idea che Dio ha di un vero cristiano, però, è sicuramente più ampia della nostra e, quindi, siamo chiamati ad una revisione del concetto di noi stessi e degli altri.

 

Quale concetto abbiamo della santità? Abbiamo la tendenza a considerarla come l’assenza del vaso di terra. Pensiamo che se possiamo arrivare al punto di controllare con le nostre forze sentimenti ed emozioni fino a farli scomparire, abbiamo raggiunto la santità.

Ci immaginiamo che soffocare i nostri sentimenti fino al punto di essere insensibili alla sofferenza o alle circostanze della vita è prova di spiritualità.

Molti credono che essere spirituali significhi smettere di essere umani e molti cercano di coprire il vaso di terra pensando che quando non si vedrà più hanno raggiunto la santità.

Queste persone smettono di essere naturali nei loro comportamenti per timore che si scopra il vaso di terra. Sono, così, degli illusi, degli artificiali, che usano questa loro artificiosità per nascondere la loro vera condizione.

Si frenano continuamente e pensano che se riuscissero ad essere insensibili a ciò che si dice o si fa intorno a loro, avrebbero raggiunto allora la santità.

 

Molti credono che il vero cristiano deve sorridere da mattina a sera, che se versa anche una sola lacrima non è più vittorioso e che se percepisce una sensazione di timore, è caduto gravemente per non aver saputo confidare in Gesù.

Ma lo stesso Paolo dice: “Contristati…(2 Corinzi 6:10), in grande afflizione ed in angoscia di cuore vi scrissi con molte lacrime…(2 Corinzi 2:4), perplessi…(2 Corinzi 4:8), siamo stati oltre modo aggravati, al di là delle nostre forze, tanto che stavamo in gran dubbio anche della vita…(2 Corinzi 1:8).

Paolo era un uomo come noi, soggetto alle nostre stesse passioni, così come Elia (Giacomo 5:17). In Paolo troviamo un tesoro, ma anche un vaso di terra. Lo vediamo, infatti, tribolato, perplesso, perseguitato, atterrato ma non schiacciato, disperato, abbandonato o ucciso (2 Corinzi 4:8-9).

Porta nel suo corpo la morte di Gesù, ma in questo modo manifesta la vita di Gesù. Dietro questa apparente fragilità di Paolo c’è l’eminente grandezza del potere che è di Dio.

Gli uomini possono vederlo come un seduttore, un uomo di cattiva reputazione, sconosciuto, moribondo, contristato e povero, ma Dio lo rende verace, ben accetto e stimato, conosciuto, datore di vita, allegro e ricco (2 Corinzi 6:8-10).

 

Il vaso di terra sarà anche assalito dal dubbio, ma questa aggressione non annulla il tesoro che vi è contenuto, ma, anzi, gli permette di risplendere ancor più intensamente.

Il dubbio è certo segnale di deficienza nella vita cristiana, ma questa realtà non fa altro che decretare il trionfo della fede in presenza del dubbio.

Ricordiamo la preghiera elevata in favore di Pietro chiuso in carcere. Era una preghiera fervente, rivolta a Dio in fede, ma quando Pietro, liberato da un intervento divino, bussò alla porta dove la Chiesa era riunita, tutti pensarono trattarsi del suo angelo. Il dubbio andava di pari passo con la fede più genuina.

Molti manifestano, però, una fede superiore a quella che dovette esercitare la Chiesa di Gerusalemme nel chiedere la liberazione di Pietro. Sono sicuri che Dio deve mandare un angelo, che ogni ostacolo verrà tolto e che il rumore del vento e della pioggia è Pietro che sta bussando alla porta!

Queste sono delle persone credulone, troppo sicure di se stesse. La loro fede non è autentica.

 

Anche nel credente più autentico e fervente il vaso di terra è sempre presente, anche se il fattore determinante non è il vaso, ma il tesoro che vi è contenuto.

Nella vita normale del credente, nel momento stesso in cui sorge la fede per afferrarsi a Dio, sorge simultaneamente il dubbio che ci fa pensare che non sia così.

Quando più forte uno si sente nel Signore, più spesso sente la sua incapacità; quando più coraggio uno pensa di avere, più cosciente diventa del timore interiore; quando più gioioso uno si sente, la angoscia lo assale nuovamente.

Soltanto l’eminente grandezza del potere di Dio lo sostiene. Questo paradosso è l’evidenza che c’è un tesoro e che c’è un vaso di terra.

Nessuna debolezza umana deve necessariamente limitare il potere divino e questo è un motivo di gratitudine a Dio.

Siamo abituati a pensare che dove c’è tristezza non esiste la gioia, che dove ci sono lacrime non ci può essere lode, che dove c’è debolezza apparente non ci può essere potere, che quando siamo circondati da nemici dobbiamo sentirci abbattuti, che dove c’è dubbio non può esserci fede.

 

Possiamo, però, proclamare con fermezza e fiducia che Dio cerca di portarci alla condizione in cui tutto ciò che è umano coopera al proponimento che il vaso di terra contenga il tesoro divino.

Le nostre debolezze fanno brillare ancor più il tesoro contenuto nei nostri vasi di terra. Ciò che distingue dagli altri non è il materiale del vaso, ma il suo contenuto.

Non dobbiamo dissimulare il vaso soffocando tutti i sentimenti, ma dobbiamo lasciar vedere il vaso con dentro il tesoro.

Non si tratta di superare le situazioni dolorose perché siamo diventati insensibili al dolore, ma di lasciare che un Altro ci conduca attraverso questa situazione malgrado il dolore.

C’è il vaso di terra, ma c’è anche il tesoro. Ma che cos’è questo tesoro? E’ la vita del Signore Gesù, la vita trionfante di Colui che “pianse, si conturbò, fremé nello spirito, fu contristato ed angosciato, fu oppresso da tristezza mortale” (Giovanni 11:33,35,38 ; 12:27 ; 13:21 / Marco 8:12 / Matteo 26:37-38).

 

 

 

I materiali per la costruzione

 

1 Corinzi 3:9-15

La scelta del fondamento non è nostra responsabilità. Dio lo ha messo, nessuno può collocarne un altro, né ci viene chiesto di approvarlo.

Quando un’anima viene a Cristo e Lui entra nella sua vita, il fondamento è già posto. Su questo il figlio di Dio si colloca e vi edifica sopra. La cosa importante è ciò che si colloca sul fondamento.

Dio cerca qualità. Non si interessa tanto se facciamo l’opera, ma con che cosa la facciamo.

Molti pensano che il loro lavoro è fatto bene, questo è sufficiente. Dio, però, non ci chiede soltanto se lo abbiamo servito, se ci siamo consacrati alla sua opera, ma vuole vedere quale materiale abbiamo usato per fare tutte queste cose.

Tra tutti i predicatori del Vangelo Dio percepisce una differenza in qualità e distingue l’operaio efficace da quello superficiale, riconosce in loro la differenza nel modo di vedere e discerne tra quelli che pregano ciò che si trova dietro ad ogni amen.

Legno, fieno e paglia sono materiali di poco costo, di durata limitata, mentre le pietre preziose sono costose ed eterne. I metalli pesanti, come l’oro del carattere e della, gloria divini e l’argento della sua opera redentrice, sono quelli che Dio apprezza.

Non soltanto ciò che predichiamo, ma ciò che siamo interessa veramente a Dio. Non gli importa neanche la dottrina che insegniamo, ma il carattere di Cristo che viene prodotto in noi grazie a ciò che Lui permette nelle nostre vite, alle prove che ci manda e all’opera paziente dello Spirito.

Non si tratta di dire: “Dov’è più evidente la necessità? Che idee e risorse ho? Quanto posso fare? Quando potrò mettere in pratica questa dottrina?” Ma piuttosto: “In che direzione si sta muovendo Dio? Cosa c’è di Lui in ciò che sto facendo? E’ la sua volontà che io vada? Qual è la mente dello Spirito in tutto questo?”

Queste sono le domande del servo veramente crocefisso. Cosciente della sua debolezza e del suo vuoto, la più grande lezione che deve imparare è quella di raccomandare la sua vita a Dio e di seguirlo.

 

Il nostro problema risiede nella nostra mancanza di comprensione che nell’opera di Dio l’uomo in sé non vale niente.

Legno, fieno e paglia sono materiali che suggeriscono ciò che è essenzialmente dell’uomo e della carne. Significano ciò che è comune, ordinario, ciò che è facile da ottenere a basso prezzo e, quindi, che è deperibile.

L’intelletto umano può farci comprendere le Scritture, l’eloquenza naturale può avere il potere di attirare, l’emozione può trascinarci, i sentimenti possono guidarci, ma in quale direzione? E con che risultato? Dio cerca valori più solidi di questi.

Gran parte del nostro lavoro per Dio dipende non dalla sua volontà, ma dai nostri sentimenti. Se siamo di buon umore, possiamo fare molto, ma se le condizioni sono avverse, smettiamo di lavorare completamente.

Il lavoro che dipende dai sentimenti o dal vento di un risveglio è di poca utilità per Dio. Quando il Padre celeste ordina, dobbiamo imparare a fare il lavoro, sostenuti o no dai sentimenti.

 

Le pietre preziose hanno un alto costo. Ciò che ha vero valore rimane inalterato attraverso le prove.

Le pietre preziose vengono formate dalla pressione della tristezza e dei problemi che Dio permette nella nostra vita, cioè quando ci fa passare attraverso il fuoco e l’acqua profonda per portarci al luogo dell’abbondanza.

L’uomo vede l’apparenza esteriore, Dio quella interiore. Non meravigliamoci delle tante prove che il Signore permette, perché esse tracciano il cammino sicuro verso una vita che è di alta stima per Dio.

Due uomini possono dire le stesse parole, ma diverso può essere l’impatto su chi li ascolta. La differenza radica nell’uomo. Quando si è in presenza del valore spirituale, lo si percepisce.

L’intensità  con cui si teorizza il ritorno di Gesù Cristo, per esempio, non potrà mai sostituire una vita che vive giornalmente aspettando il Signore.

Non si può sostituire ciò che è vero con valori umani.

 

 

 

CRISTO,  LA LEGGE  E  I  PROFETI

 

Matteo 17:1-5

C’erano due uomini importanti con Gesù sul monte, importanti non solo per le loro persone, ma per quello che rappresentavano. C’era Mosè che rappresentava la legge e c’era Elia che rappresentava i profeti.

Pietro, volendo prolungare questa esperienza, cerca di provvedere in qualche modo alla sistemazione di questi due personaggi. Avrebbero avuto accanto a Gesù una posizione subordinata, ma sarebbe stata loro riconosciuta una posizione di autorità.

Ma nel regno di Dio non c’è posto che per una sola autorità, una sola voce. Ed è questo che il Signore vuole insegnare a Pietro interrompendolo e richiamandolo: “Questo è il mio Figliolo amato…ascoltatelo”.

Nel regno di Dio, quindi, tutto dipende da ciò che dice Gesù Cristo e dall’attenzione che prestiamo alle sue parole.

 

Dio mette in chiaro che Mosè (la legge) e Elia (i profeti) dovevano lasciar posto al Regno (di Dio in Cristo Gesù): “La legge ed i profeti hanno durato fino a Giovanni; da quel tempo è annunziata la buona novella del Regno di Dio ed ognuno vi entra a forza” (Luca 16:16).

Il Regno di Dio, per sua natura, invalida la legge ed i profeti. Se uno si afferra alla legge e ai profeti perde il diritto al Regno e se uno ha il Regno deve cedere la legge e i profeti.

Ma che cos’è la legge? E che cosa sono i profeti? Nell’uso giudaico questi termini rappresentavano le Scritture dell’Antico Testamento nella sua totalità e dobbiamo chiarire che Gesù non ha mai proposto di metterle totalmente da parte (Matteo 5:17-18 / Luca 24:27,32,44).

 

La legge è la parola scritta che esprime la volontà di Dio ed i profeti, esseri viventi, fanno altrettanto.

Nei giorni dell’Antico Testamento Dio generalmente esprimeva la sua volontà al popolo di Israele per uno di questi due tramiti. Dio, infatti, non abitava nel cuore dell’uomo, ma in un inaccessibile Luogo Santissimo.

In che modo l’uomo, allora, si poteva rivolgere a Lui? In primo luogo interpellava la legge. Supponiamo che volesse sapere quale procedimento seguire in caso di lebbra o contaminazione da contatto con un cadavere, o se poteva mangiare questa o quella carne, doveva rivolgersi al libro della legge. Cercando con diligenza avrebbe trovato la risposta senza doversi rivolgere direttamente a Dio.

Supponiamo, però, che volesse sapere se doveva affrontare un certo viaggio oppure no, il libro della legge non gli offriva questo genere di risposta. Cosa doveva fare allora? Si rivolgeva ad un profeta perché rivolgesse al suo posto questo quesito a Dio.

Anche in questo caso la risposta sarebbe venuta per mediazione di un altro. L’uomo non aveva l’autorità per andare direttamente da Dio. La conoscenza della volontà suprema gli perveniva sempre indirettamente per mezzo di un libro o di un uomo, ma mai per rivelazione diretta.

 

Il Cristianesimo, però, non è così, perché implica sempre una conoscenza di Dio per mezzo del suo Spirito.

Molti cristiani, oggi, sanno di Gesù per aver letto la Bibbia, ma non hanno una relazione vitale con Lui. La loro conoscenza è esteriore, intellettuale e non interiore, di cuore. E tutto ciò che non scaturisce da una rivelazione interiore personale del Signore non è Cristianesimo.

Sotto il Nuovo Patto Dio ha promesso che “non istruiranno più ciascuno il proprio concittadino e ciascuno il proprio fratello, dicendo: Conosci il Signore! Perché tutti mi conosceranno, dal minore al maggiore di loro” (Ebrei 8:11).

Il Cristianesimo non si basa su una informazione riguardante il Signore, ma su una rivelazione (Matteo 16:17). Il Regno di Dio è fondato su una conoscenza personale del Signore, che si ottiene quando Lui ci parla e noi lo ascoltiamo direttamente.

Anche oggi abbiamo le Scritture e i profeti, oltre ai ministri e ai fratelli, come fonte di istruzione, ma nessuno di questi due strumenti può prendere il posto della voce viva di Dio, che parla direttamente ai nostri cuori.

Non disprezziamo i messaggeri di Dio, ma non affidiamoci esclusivamente alla rivelazione che ci giunge tramite questi santi uomini di Dio. Dobbiamo ascoltare la voce del Signore e seguire Lui.

La Bibbia è vitale per la nostra vita e per il nostro progresso spirituale ma attenzione a non vedere nella lettera e nel suo stretto compimento l’autorità finale. Lasciamo, invece, che ci parli al cuore nella persona di Gesù.

 

Il Regno di Dio deve portare al riconoscimento dell’assoluta autorità di Cristo e al ripudio di qualsiasi altra autorità. Domanda una conoscenza personale della volontà di Dio, che può pervenirci tramite altri aiuti, ma che non si esaurisce in loro.

Il Cristianesimo è una religione rivelata e la rivelazione è sempre interiore, diretta e personale. Nel Regno bisogna ascoltare solo una Voce, qualunque sia il mezzo tramite il quale parla.

Il Cristianesimo non si sottrae al ministero di uomini e libri, ma il cammino del Regno radica nel fatto che il “Figliolo amato” mi parli direttamente e personalmente e che io lo ascolti.

 

ACCETTANDO  LA  PROPRIA  RESPONSABILITA’  NEL  CORPO

 

In 1 Corinzi 12:12-25 possiamo discernere quattro semplici leggi che governano la vita del Corpo.

La prima si trova nei versetti 15-16: “Se il piede dicesse: siccome io non sono mano, non sono del corpo, non per questo non sarebbe del corpo”.

Detto con altre parole dobbiamo agire per quello che siamo e non per quello che vorremmo essere. Perché non siamo come quella certa persona, non dobbiamo smettere di essere ciò che siamo.

E’ come dire che il piede si rifiuta di camminare perché voleva essere mano. Questo atteggiamento negativo sorge da un cuore che si lascia trascinare dai paragoni e ciò è dovuto all’individualismo.

 

Questa abitudine di fare dei paragoni dimostra che non abbiamo ancora visto il Corpo di Cristo. Perché, quale membro è maggiore? Il piede o la mano? Non è possibile fare un simile paragone, perché le loro funzioni nel Corpo sono differenti ed entrambe sono necessarie.

Molti, in questo modo, tolgono importanza al dono di Dio. Dato che non possono essere quel membro speciale che ammirano, si rifiutano di occupare quel posto che è loro destinato.

Oppure pensano che tutto si riduce al ministero pubblico e siccome non hanno il dono di agire in pubblico, non fanno nulla. Questa è la situazione descritta da Gesù nella parabola dei talenti (Matteo 25:14-30).

 

Qual è la mia utilità se non posso ministrare in forma rilevante? Se non posso occupare un posto importante, che importa se occupo o no un certo posto?

Se però 5 talenti possono diventare 10, anche un talento può raddoppiarsi. La Chiesa sta soffrendo non a causa della preminenza dei membri che posseggono 5 talenti, ma a causa di coloro che ne hanno 1 e lo nascondono. La vita di tutto il Corpo si impoverisce e risente di questi talenti non utilizzati.

Negarci ad agire solo perché abbiamo 1 talento può rivelare in noi la presenza di desideri e ambizioni che sono fuori dalla volontà di Dio o, peggio ancora, che non siamo soddisfatti di questa volontà.

Sono una mano o un piede? Con gioia sarò precisamente quello che devo essere. Sono perfettamente soddisfatto con la sua scelta e disposto ad agire nell’area in cui Lui mi ha collocato. E se utilizzo il mio talento, questo si potrà raddoppiare e chissà anche decuplicare.

 

L’apostolo Paolo ha scritto: “Vi esortiamo, fratelli, a confortare gli scoraggiati, a sostenere i deboli” (1 Tessalonicesi 5:14).

Dobbiamo sostenere quei fratelli che hanno 1 talento, non per la grandezza del loro dono, ma perché lo Spirito Santo abita in loro.

La loro speranza deve essere posta sullo stesso Dio e non sul dono (che dovrebbe dimostrare la misura della loro spiritualità o accettazione da parte di Dio).

Utilizziamo, quindi, ciò che ci è stato dato. Non possiamo scusarci dicendo: “Qui non hanno bisogno di me”, né troveremo refrigerio spirituale prendendo la nostra Bibbia e il nostro quaderno di appunti per ritirarci in un luogo tranquillo con il proponimento di prepararci per un ministero futuro immaginario, eludendo così una nostra responsabilità presente.

Questo atteggiamento può essere beneficioso per il nostro corpo, ma non per il nostro spirito. Serviamo con ciò che abbiamo in mano e noi stessi riceveremo il beneficio che ne consegue. Vedi Gesù al pozzo di Giacobbe con la Samaritana.

 

La comunione nel Corpo si realizza in due momenti: ricevendo e dando. Ricevere solamente non è comunione. Tutti dobbiamo dare da bere ad altri, non necessariamente con la predicazione, ma forse con una preghiera silenziosa.

Il lavoro che ci è stato affidato è per il Corpo, così che non c’è ragione per invidiare. Non dobbiamo fare paragoni, ma impegnarci perché il Corpo ne riceva beneficio e in questo modo ricevere benedizione dal Corpo stesso.

Ogni membro del Corpo ha un ministero e ogni membro è chiamato a funzionare nel luogo segnalato dal Signore. Poco importa chi fa il lavoro, se la gloria alla fine è del Signore.

Dobbiamo utilizzare il talento che ci è stato affidato per la gloria di Dio e non nasconderlo con un atteggiamento passivo: “Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra” (Matteo 25:25). Non c’è virtù in questo modo di agire.

 

La seconda legge che governa il funzionamento del Corpo si trova nei versetti 17-18. Qui si esprime il concetto che nella nostra vita di gruppo dobbiamo sempre lasciare spazio per l’azione degli altri.

Non dobbiamo occupare tutti i posti e fare tutto noi. L’occhio non può fare il lavoro della mano, ecc. Nessun membro può tenere il monopolio del Corpo.

Molti desiderano che il loro contributo sia il fattore più rilevante della riunione. Sono individualisti, anche quando pregano insieme agli altri. Parlano soltanto di se stessi e della loro opera. Non riescono ad ascoltare le cose degli altri, ma devono interrompere per dire qualcosa di se stessi.

L’individualismo ci porta a vedere il nostro lavoro e il nostro ministero così importanti da non interessarci a quello che gli altri stanno facendo.

Accentrare tutto su di noi impedisce lo sviluppo degli altri. Ciò produce delusioni e divisioni. Ricordiamoci che “colui che pianta e colui che annaffia sono una medesima cosa” (1 Corinzi 3:8).

Devo essere disposto a ricevere ciò che un altro ha da dare. Devo essere disposto ad accettare i miei limiti.

Prima di creare una divisione mi farò spiegare un certo punto dottrinale da chi ha il dono di insegnarlo.

 

La terza legge si trova nei versetti 21-22. Non si deve, cioè, prendendo il posto del Capo, mettere da parte dei membri. La debolezza e la mancanza di preparazione di un membro non è ragione valida per fare a meno di lui.

Non diciamo a nessuno: “Non ho bisogno di te”. Dobbiamo, invece, cercare di scoprire quanto possiamo imparare da quei membri che per natura non apprezzeremmo.

Può darsi che dobbiamo chiedere preghiera a certuni che tendiamo a disprezzare. Nel doverlo fare ci sentiamo così infelici come se, facendo in questo modo, stessimo abbassando il nostro livello spirituale e il rango acquisito nel Regno di Dio. Il Signore, però, ha un luogo per ogni membro e può utilizzare anche il più debole tra loro.

 

La quarta legge si trova nei versetti 24-25. Dobbiamo, cioè, resistere ad ogni desiderio o tentativo di divisione o scisma.

La Chiesa in cielo non sarà divisa: “Infatti noi tutti abbiamo ricevuto il battesimo di un unico Spirito per formare un unico corpo, e Giudei e Greci, e schiavi e liberi; e tutti siamo stati abbeverati di un unico Spirito” (1 Corinzi 12:13) ; “Vi è un corpo unico ed un unico Spirito” (Efesini 4:4).

Lo Spirito, che è la parte nascosta, si manifesta tramite il Corpo, la parte visibile. Il Corpo è uno perché lo Spirito è uno. Lo Spirito Santo è una persona e come tale non può essere divisa.

Siamo sempre solleciti, come dice Efesini 4:3, a “conservare l’unità dello Spirito”?

 

L’unità dello Spirito è il prodotto della vita dello Spirito. La vita di Dio non può essere palpata, né vista, ma è possibile esserne coscienti.

Conosciamo la nuova vita perché risveglia in noi un nuovo sentire. Se pecchiamo, per esempio, sentiamo tristezza e ciò prova l’esistenza di una nuova vita, la vita di Dio, perché Dio odia il peccato.

E’ inutile studiare i principi della vita, se non ne abbiamo coscienza: “E non istruiranno più ciascuno il proprio concittadino e ciascuno il proprio fratello, dicendo: Conosci il Signore! Perché tutti mi conosceranno” (Ebrei 8:11).

La vita dello Spirito ci rende coscienti del Corpo e della vita corporativa. Il Corpo non è soltanto un principio o una dottrina, ma implica la realtà di una presa di coscienza del suo esistere.

Se abbiamo coscienza della nostra vita che pulsa in noi, dobbiamo anche avere coscienza del Corpo.

 

La coscienza di Dio e la sensibilità interiore verso il peccato è la base del cristianesimo e non le regole esteriori, cioè il dovere cristiano.

E’ inutile vivere in accordo al principio del Corpo, se non ci sentiamo turbati nel non farlo. Una cosa è che ci venga detto qualcosa, altra cosa è vederla.

La coscienza è quel senso interiore che vede e capta senza bisogno che glielo si dica. Se la luce divina ci ha dato coscienza di Dio e del peccato contro Dio, può darci coscienza anche del Corpo e che il nostro atteggiamento contro il Corpo è in verità contro Cristo, il Capo del Corpo.

 

Dato che lo Spirito è uno, quando i suoi figli si comportano in conformità a questo principio dell’unità, non ci saranno problemi di comunione. Il Corpo, infatti, conosce una sola legge, quella dell’unzione.

La disubbidienza all’unzione ci turberà davanti al Signore, mentre vivere in conformità alla mente dello Spirito porta sempre vita e pace (Romani 8:6).

Le regole sono una buona cosa per la comune convivenza, ma non è così nel Corpo. San Paolo conosceva tutto della Legge ed era irreprensibile nel suo adempimento, ma aveva tolto allo Spirito Santo la possibilità di parlargli. Conosceva la Legge, ma non sapeva nulla di Gesù Cristo.

E spegnere lo Spirito significa sopprimere la coscienza stessa della nostra vita corporativa, significa ferire il nostro collegamento con la Testa.

La vita di comunione di Saulo incominciò quando disse: “Chi sei, Signore? Che debbo fare?” Qui si trova il segreto.

Afferrarci alla Testa è ubbidire a Cristo per mezzo dello Spirito. Seguire lo Spirito significa sottomettersi a Gesù in tutte le cose.

Lo Spirito non imporrà mai l’ubbidienza ai suoi membri, ma quelli che vivono secondo la unzione si sottometteranno a Cristo istintivamente e allegramente, scoprendo così di essere uno.

 

 

 

SOMMINISTRANDO  VITA

 

Il più alto proponimento di Dio per la Chiesa è che sia edificata in amore per mezzo di un ministero di vita e che, così, cresca in tutte le cose in Cristo (Efesini 4).

In 1 Corinzi 13 Paolo ci mostra che è l’amore e non i doni ciò che Dio usa per una edificazione durevole della Chiesa. I doni si esprimono esteriormente in fatti e parole (miracoli, profezie, ecc.), mentre l’amore è il frutto dell’opera interiore dello Spirito Santo nella vita dei membri per mezzo della croce.

I doni sono un metodo provvisorio di Dio, ma è nell’amore che il Corpo si edifica (Efesini 4:16). Tutti i doni spariranno, ma l’amore dimora in eterno (1 Corinzi 13:8-13).

Dio non vuole che i doni siano permanenti, perché non dipendono dalla statura spirituale di colui che li riceve. Dio vuole che lo Spirito si formi dentro di noi e non che vi abiti temporaneamente. I doni, quindi, sono spirituali non perché chi li riceve è spirituale, ma perché provengono dallo Spirito Santo.

Perché molte persone usate grandemente da Dio sembrano poi venir messe da parte? Sappiamo noi se era intenzione di Dio usarle sempre in quel modo? Dio non firma contratti! Dio può cambiare la forma di utilizzo dei suoi figli (che sono anche servi).

Dio ci impresta la sua forza e mai sarà un nostro possesso.

Sansone, per esempio, aveva il dono della forza e nulla sembrava fosse a lui impossibile, ma per quanto concerne la sua statura spirituale e la sua purezza di vita non era di molto valore agli occhi di Dio. Il suo atteggiamento fatuo lo portò ad una rovinosa caduta. Che differenza tra Sansone e Samuele!

E’, dunque, un errore giudicare la misura della spiritualità semplicemente dalla presenza di doni. Non sono una base adeguata per un utilizzo permanente dell’uomo da parte di Dio.

L’oggetto di valore per Dio è Cristo formato in noi per mezzo della croce. L’importante non è fare certe cose o dire certe parole, ma essere un certo tipo di persona.

Molti desiderano predicare senza essere ciò che predicano, ma ciò che importa a Dio è ciò che siamo e non ciò che facciamo o diciamo.

La differenza radica nella formazione di Cristo in noi.

 

Nell’esperienza cristiana le cose spirituali di Dio sono sempre meno esteriori, come è un dono, e sempre più interiori, cioè riguardanti la vita.

Ciò che ha valore è la profondità dell’opera che si effettua nell’interiore del nostro essere. Man mano che il Signore significa sempre di più per noi, altre cose, tra cui i doni, importano sempre meno.

Dio dà ai suoi servi il dono della profezia, mentre alla Chiesa dà dei profeti. E il profeta è qualcuno in cui Dio ha lavorato, qualcuno che ha sperimentato l’opera formativa dello Spirito.

Le persone sono il messaggio di Dio per il mondo di oggi e non tanto i sermoni.

 

Comprendere la dottrina e conoscere Dio sono due cose diametralmente opposte. Le cose spirituali non si possono immagazzinare nella testa.

Noi valorizziamo le buone parole, ma Dio cerca uomini buoni. Alcuni ci parlano e riceviamo aiuto, altri ci dicono le stesse parole e rimaniamo vuoti. La differenza radica negli uomini. Non dobbiamo dare alla Chiesa valori intellettuali, ma spirituali.

Siamo come le parole che proferiamo? Conosciamo una dottrina o conosciamo la persona di Gesù Cristo? Dire nel suo Nome cose che non intendiamo profondamente non sarà di molta utilità per la Chiesa.

I doni sono il mezzo ricevuto dallo Spirito Santo tramite il quale diamo di Cristo al Corpo, il ministero, invece, consiste in ciò che il ministro dà di Cristo al Corpo.

Ogni membro, o ministero, ministra, come contributo unico, la vita di Cristo al Corpo intero. Tutti, quindi, siamo utili per manifestare aspetti della vita di Cristo. Molti doni senza Cristo creano una Chiesa sterile, vuota, cioè un risonante cembalo.

 

Ci sono, quindi, due aspetti con i quali si edifica il Corpo: i doni e la vita (del servo). Non dobbiamo trascurare i doni (1 Corinzi 14:1 ; 12:7 / 1 Timoteo 4:14 / 2 Timoteo 1:6 / 1 Pietro 4:10), ma neanche assegnar loro l’importanza maggiore. Paolo, infatti, pone l’accento sul ministero della vita che proviene dalla morte (2 Corinzi 4:8-12).

Il ministero nella Chiesa deve fondarsi sulla vita di Cristo. Ciò con cui dobbiamo servire la Chiesa è la vita dello Spirito.

La vita è il prodotto della morte e solo se un servo ha vita, altri possono riceverla.

La Chiesa riceve quando c’è chi è disposto a portare la croce e lasciare che la morte di Cristo operi in lui. Solo sottomettendoci alle prove che Dio permette, lodandolo e facendo la sua volontà, possiamo ricevere la vita dello Spirito.

I doni sono meno costosi e ciò che ci permettono di fare o dire non potrà mai coprire le nostre deficienze come servi di Dio.

I doni possono essere molto utili per iniziare una nuova opera e creare quel fondamento di fede necessario per  continuare il cammino con Dio, ma devono lasciare poi il posto all’opera della croce per formare in noi la vita di Gesù e crescere, così, la nostra statura spirituale.

Non siamo troppo orgogliosi dei doni ricevuti, perché Dio ha fatto parlare anche un asino. E’ più importante ministrare vita che doni.

 

 

 

LA  LUCE  DIVINA

 

Efesini 1:15-18

La difficoltà non si trova nel poter ascoltare, o memorizzare, o ripetere ad altri il piano di Dio, ma nel vederlo. Ogni opera spirituale è basata nel vedere.

A Satana non importa tanto che gli uomini ascoltino il piano di Dio e lo capiscano mentalmente, ma che abbiano una illuminazione interiore di questo piano. Se questo succede, la Chiesa riceve forza e potere.

Che cos’è una visione? E’ l’irruzione della luce divina. Se la luce è velata, si è sul cammino della perdizione (2 Corinzi 4:3), mentre vederla significa salvezza: “Ma Dio…risplendé nei nostri cuori” (2 Corinzi 4:6).

Se comprendiamo soltanto la dottrina e la accettiamo non succede niente, perché non abbiamo visto la Verità. Nel momento, però, in cui vediamo Gesù Cristo abbiamo l’esperienza della salvezza.

 

Prima di convertirsi gli uomini parlano del difetto di mentire, sanno che è condannabile e forse si sforzano per contenerlo, ma continuano a mentire.

Nel momento della conversione, però, vedono che mentire è male senza che nessuno glielo faccia notare. Allora si ritraggono da quella abitudine che li aveva dominati fino a quel momento.

Che cosa è successo? La luce ha manifestato la vera natura del male e la luce che manifesta è la luce che uccide. La luce che rivela la menzogna uccide la menzogna stessa.

Ciò che fino ad allora era stata una semplice questione di etica, è diventata adesso un’esperienza interiore.

Cambiare le cose esteriori soltanto non serve a niente. Non possiamo pensare di occuparci nel migliorare le cose che Dio non approva o di affrontare certe situazioni perché le abbiamo capite mentalmente. Tutta la questione si riduce a due aspetti: vedere o non vedere.

Se si trattasse soltanto di un fatto dottrinale, lo dimenticheremmo presto, ma la visione celeste è “suo Figlio rivelato in me” e non c’è più bisogno di ricordare, né c’è la possibilità di dimenticare quello che si sta vivendo.

Non c’è bisogno di afferrarsi alla visione spirituale e di comprenderla, perché è lei che si afferra a noi. Vedere il piano di Dio da dentro significa non avere più alcuna alternativa nell’opera o nei metodi: da quel giorno in poi sarà il suo cammino, o se no morte.

 

Se desideriamo la luce, possiamo averla. Se non la desideriamo, dobbiamo coprirla. Anche la foglia più piccola può nascondere una stella. Noi possiamo permettere che un ostacolo triviale ci copra la gloria eterna.

Se, però, le diamo un’occasione, anche se minima, la luce entrerà: “Se il tuo occhio è sano, tutto il tuo corpo sarà illuminato” (Matteo 6:22).

Il segreto della visione spirituale è quello di essere disposti a pagare il prezzo, cioè aprire il nostro spirito umilmente alla luce scrutatrice di Dio: “Guiderà gli umili nella giustizia, insegnerà agli umili la sua via…Il segreto dell’Eterno è rivelato a quelli che lo temono, ed Egli fa loro conoscere il suo patto” (Salmo 25:9,14).

Signore, sono disposto a pagare qualsiasi prezzo pur di ricevere la tua luce. Non la temo e, anzi, sono disposto a lasciarmi investigare in tutte le cose che intraprendo.

Il fatto più rilevante dell’opera di Dio non è una dottrina, ma una vita. E la vita ci giunge tramite la rivelazione della luce di Dio. Dietro la dottrina non ci possono essere altro che parole, mentre dietro la rivelazione c’è Dio stesso.