Sono nato a Milano nel 1946 da Pietro, maresciallo maggiore dei carabinieri e trentino di origine, e
da Ebe, casalinga e bolognese di nascita. La professione di mio padre ci ha obbligati a vari trasferimenti e così nel 1956 siamo giunti a Revere in provincia di Mantova (con mio fratello Renzo, maggiore di me di 4 anni, la nostra famiglia si componeva di quattro membri) e nel 1959 a Bergamo, dove nel 1966 mi sono diplomato come "perito chimico industriale" e dove dal 1982 servo il Signore come pastore.
Il mio incontro con Gesù è avvenuto in Spagna, e più precisamente a Malaga, nel 1979. Lì mi trovavo per imparare la lingua spagnola, ma questa realtà non era altro che un’ulteriore espressione di uno stile di vita che mi contraddistingueva ormai da otto anni. Nel 1971, infatti, dopo essermi licenziato da tecnico commerciale per l’industria cartaria, puntai verso Parigi con l’intenzione di apprendere la lingua francese, ma, soprattutto, di fare esperienze di vita e trovare risposte a certi miei problemi esistenziali.
Il perché della vita e della morte occupava già con frequenza la mia mente e mi impediva di cercare la mia realizzazione nelle cose di tutti i giorni. Inoltre mi sembrava di essere entrato in una grande gabbia (il lavoro, visto come carriera) e mi sentivo comprimere da tutti i lati. Decisi, così, di evadere e me ne andai a Lione per testare l’eventualità di trasferirmi in quella località in un secondo tempo. Un impiegato del consolato mi dipinse la situazione a tinte fosche, soprattutto in relazione alla possibilità di trovarmi un’occupazione, e mi sentii demoralizzato. Abbandonai, così, Lione e mi recai a Marsiglia. Non avendo ancora le idee molto chiare e non disponendo di un carattere forte e tenace, scesi al sud sospinto anche dal bisogno di sostegno morale, che pensavo di trovare in una ragazza conosciuta un paio di anni prima a Oxford durante una vacanza premio e che abitava in quella regione.
Poco dopo il mio arrivo a Marsiglia, trovandomi nella zona del porto con il giornale locale aperto alla pagina degli annunci economici alla ricerca di un lavoro, caddi in una retata della polizia. Venni liberato quasi subito dopo gli accertamenti del caso, ma ciò mi spinse a rientrare in Italia un po’ abbattuto.
Lo zio materno mi fece sapere che a Parigi abitava un suo cognato, di cui ignoravo l’esistenza, e che era disposto ad aiutarmi per trovare alloggio e lavoro. Presi allora coraggio e partii con armi e bagagli. Mi stavo staccando dalla mia famiglia per un periodo indefinibile e questa realtà mi produsse quel classico groppo alla gola che mi durò fino a Torino. Poi la voglia dell’avventura e della novità, alimentata forse dalle sensazioni sperimentate nei trasferimenti vissuti nell’infanzia e nell’adolescenza come detto prima, prese il sopravvento e incominciai a fantasticare su quello che avrei trovato e fatto in quella grande metropoli.
Una volta a Parigi, come prima cosa mi iscrissi ad una scuola di francese per stranieri, frequentata da migliaia di giovani provenienti da tutte le parti del mondo. Era emozionante! Grazie ad una compagna di classe, trovai anche lavoro come archivista in una compagnia di assicurazioni. Non ero stato assunto sulla base della qualifica che mi garantiva il diploma faticosamente conquistato e lo stipendio era poca cosa, appena sufficiente per vivere, ma mi sentivo libero, ero felice. Avevo rotto il meccanismo perverso scuola, lavoro, carriera, pensione. A Parigi potevo starci il tempo che avrei voluto e potevo andarmene quando lo avrei desiderato.
Grazie all’organizzazione della scuola, trovai una stanza a buon prezzo presso l’appartamento di un’anziana vedova e così lasciai la pensione in cui avevo vissuto per il primo mese. La signora però non era contenta di me, perché sperava le facessi un po’ di compagnia, ma io avevo la testa in altre cose. E così, appena mi si presentò l’occasione, traslocai in una cosiddetta “chambre de bonne”, un minuscolo monolocale che si soleva dare un tempo alle domestiche, dove rimasi sino al giorno della mia partenza per altri lidi.
Conobbi tanta gente, soprattutto giovani nei bar del Quartiere Latino e nel parco del Bois de Boulogne, sperimentai tante nuove sensazioni (tra cui la facilità di avere relazioni intime con le ragazze, realtà che creava una certa invidia nei miei amici di Bergamo quando mi incontravano in occasione dei miei rientri in patria e mi chiedevano dettagli al riguardo) e vidi tante cose nuove in quella città multietnica, così diversa dalla provincia in cui avevo vissuto la mia adolescenza. Mi sentivo vivo! Non ero un hippy, ma mi ero creato la mia immagine di anticonformista: barba, capelli lunghi, jeans, eskimo e sacca militare.
Dopo 7-8 mesi conobbi una ragazza austriaca, che chiamerò Beate non essendo in grado di chiederle l’assenso per i dettagli che la riguarderanno, e iniziai una relazione con lei. Con frequenza si fermava a dormire da me, nel mio appartamento di 8 m2 situato sul tetto di un grande edificio, dove il letto da solo occupava i tre quarti dello spazio disponibile, l’armadio era costituito da un bastone conficcato in una piccola rientranza della parete e coperto da una tenda, ma da dove, attraverso la finestra, si poteva vedere la Senna e la Tour Eiffel. Non era meraviglioso? Non ero veramente innamorato di Beate, mi piaceva, certo, ma forse mi attirava di più l’idea di portare avanti con lei una relazione in cui il sesso ne era parte integrante e in cui non c’erano vincoli di sorta. Che libertà! A Bergamo non avrei mai potuto vivere una situazione simile in quell’epoca. Mi convincevo sempre più che avevo fatto bene a lasciare l’Italia alle mie spalle.
6 mesi dopo, decidendo Beate di rientrare in patria per continuare gli studi interrotti, pensai di seguirla anche perché nel frattempo era nato in me dell’affetto per la sua persona. Ero già da 14 mesi a Parigi, il francese lo parlavo ormai correntemente, la città con le sue molteplici sfaccettature non rappresentava più questa grande novità e l’entusiasmo nell’abitarvi era calato sensibilmente, perché lentamente stavo entrando nella monotonia della routine: lavoro, scuola, solito gruppo di amici, solita visita serale al “petit bar” nel Quartiere Latino. Inoltre, avendo studiato nelle scuole superiori la lingua tedesca per tre anni ed avendo avuto obiettivamente una certa facilità nell’apprenderla, mi sembrò una buona idea perfezionare anche il tedesco e così mi ritrovai a Vienna.
Beate non era originaria della capitale, ma proveniva dal Vorarlberg, la regione più occidentale dell’Austria, che confina con la Svizzera e la Germania. I suoi genitori erano contadini e possedevano un certo numero di mucche, il cui allevamento rappresentava la loro attività principale. Venni ospitato varie volte in quella casa, una vera oasi di pace anche se con i genitori vivevano altri 6 figli, ed accolto come un membro della loro famiglia. Serbo ancor oggi un ottimo ricordo di quella gente e vorrei poterli nuovamente ringraziare per la cortesia e per l’amore che mi hanno dimostrato.
Mi trasferii a Vienna verso la fine dell’estate 1972, dopo aver trascorso quasi due mesi con la mia famiglia a cui ero sempre molto legato e che sembrava ormai aver accettato questa mia tendenza nomade pro apprendimento lingue straniere, e il primo impatto fu abbastanza duro: la città era molto grigia, la gente alquanto triste, pochi i giovani e il tedesco una barriera quasi invalicabile. Trovammo un appartamentino, cucina abitabile più un’unica stanza con una stufa a carbone per riscaldare l’ambiente, e iniziammo una vera convivenza. Trovammo anche un lavoro, lei come cameriera ed io come impiegato, ancora una volta archivista, presso un istituto assicurativo. Iniziai anche a frequentare un corso di tedesco per stranieri, ma che delusione quando mi resi conto che gli studenti non superavano alcune decine e che appartenevano quasi esclusivamente al blocco dei paesi dell’Europa dell’est. Dov’era l’internazionalità dell’Alliance Française, la scuola per stranieri di Parigi, e l’aria quasi da “college” che vi si respirava? Sul lavoro poi facevo una fatica notevole, perché non capivo quasi nulla di quello che i miei colleghi mi dicevano nel cercare di spiegarmi le mansioni che dovevo svolgere. La vita di coppia incominciava a darmi un senso di soffocamento, di grosse limitazioni alla mia libertà, o libertinaggio, non avevo amicizie, anche a causa della lingua, e la mia vita era come strozzata in un ambito molto ristretto. Io avevo lasciato l’Italia per evadere da una realtà provinciale, prevedibile, uniforme e monotona, ma adesso mi trovavo in una condizione quasi peggiore.
Dopo 8 mesi di valzer viennesi, decisi di andar via. Non volli buttare al vento però i progressi che avevo ottenuto nell’apprendimento della lingua tedesca e così scelsi Monaco di Baviera come tappa successiva. Dopo essermi ritemprato ancora una volta in famiglia, partii nell’estate del 1973 alla volta della Germania e mi installai in un campeggio di quella città. La mia tenda canadese era adesso il mio quartier generale e da lì organizzavo le mie spedizioni per trovare casa e lavoro. Questo stile di vita mi era ormai diventato familiare e non mi creava più alcuna difficoltà, anzi mi dava un senso di avventura e di conquista.
Non tardai molto nel trovarmi un impiego, ancora una volta nel settore assicurativo, ma questa volta non mi venne offerto l’archivio bensì un posto di aiuto contabile. Che progresso! Trovai casa e smontai la tenda, o meglio affittai una stanza in un appartamento composto da 4 locali, tutti occupati da persone diverse. Non era l’ideale, ma mi permetteva di contenere le spese. Qualche mese dopo mi trasferii in un monolocale con il bagno sullo stesso pianerottolo, ma all’interno dell’appartamento del locatore. Quel semplice locale fungeva da cucina, salotto e camera da letto, ma rappresentava pur sempre una sistemazione più decorosa della precedente.
In seguito conobbi un giovane italiano di Ostuni, che lavorava come cameriere in uno dei ristoranti più chic di Monaco, e, unitamente ad un suo collega francese, decidemmo di affittare insieme un appartamentino a Schwabing, un quartiere della città frequentato da giovani per i suoi numerosi pubs e locali dove si suonava ogni genere di musica. Era un po’ simile al Quartiere Latino di Parigi e il ricordo di quei bei tempi, per lo meno nella fase iniziale, mi rianimò un po’, anche perché non mi ero costruito un grande giro di amicizie e iniziavo a percepire uno strano senso di solitudine. La città era più viva, più dinamica e colorita rispetto a Vienna e poi vi si celebrava “l’Oktoberfest” (la festa della birra più celebre del mondo), ma io, camminando per le strade affollate della città, non percepivo la gente intorno a me, anzi mi sembrava di essere l’unica persona a muoversi in quell’ambito, mi sentivo strano e solo e incominciavo a chiedermi perché fossi finito lì. Ma un boccale dell’ottima birra locale, di cui ero diventato nel frattempo un estimatore, mi aiutava a liberarmi la mente da quegli scomodi pensieri e da quelle strane sensazioni.
Non ruppi totalmente i legami con Beate, la ragazza austriaca, e così ogni tanto andavo a trovarla, ma anche lei mi veniva a visitare a Monaco. Beate, certo, mi amava di più, ma anch’io adesso l’apprezzavo molto come persona, per la sua gentilezza, dolcezza, serenità, tolleranza, altruismo, rispetto nei miei confronti, e sentivo per lei un profondo affetto. Passavamo insieme qualche momento sereno, ma anche la sua presenza non era più sufficiente a colmare quella sensazione di vuoto che stava manifestandosi nel mio interiore. Cercai di scacciare questo crescente malessere con qualche avventuretta galante, poche in verità, ma i momenti di insoddisfazione si moltiplicavano e così conobbi le prime depressioni. Non erano ancora passati 4 anni dalla mia partenza euforica per Parigi, ma come mi sembravano già lontani quei bei momenti!
Dopo 15 mesi di Germania decisi di rientrare in Italia: era verso la fine del 1974. Il calore della famiglia e quel senso di appartenenza che mi dava la patria, perché all’estero ci si sente comunque diversi e non del tutto integrati, pensavo potessero ritemprarmi e risollevarmi lo spirito.
Grazie alle mie conoscenze linguistiche, un paio di mesi dopo, trovai lavoro come tecnico commerciale per l’industria tessile: in pratica rappresentavo macchinari prodotti in Francia e Germania. A differenza della mia prima rappresentanza, candeggianti ottici per l’industria cartaria, che mi portava a percorrere a bordo di una 850 Fiat quasi 6000 km al mese, perché mi era stata affidata la parte occidentale dell’Italia da Bergamo fino a Cosenza, e che mi costringeva a dormire in albergo per almeno 10 notti ogni mese, questa volta il settore da coprire era molto più ridotto ed ogni sera potevo rientrare a casa. Se nel 1968, quando avevo 22 anni, il tanto viaggiare era piacevole e mi permetteva di conoscere il mio paese, adesso, dopo le mie esperienze all’estero e all’età di 29 anni, ero contento di dormire la sera tra le mie coperte. A 29 anni non ero vecchio, ma questo era il segno del primo logoramento.
La gioia di restare tra persone che mi apprezzavano e mi volevano bene durò 6 mesi circa. La monotonia della piccola città provinciale, il fatto che non avessi più amici e l’inquietudine che aveva ormai preso possesso del mio cuore mi spinsero ancora lontano. Un anno e mezzo dopo il mio rientro in Italia, era il 1976, rivalicai la frontiera e ritornai a Vienna. Ma perché ancora a Vienna? Perché la telenovela con Beate non era ancora finita e anche durante il mio soggiorno italiano ci eravamo reciprocamente visitati. Lei, poi, aveva deciso di iscriversi all’università e l’idea di ritornare a sedermi sui banchi di scuola, riportandomi forse indietro nel tempo e allontanandomi così dalla mia realtà del momento e dalla responsabilità di dover diventare una persona adulta, mi contagiò a tal punto che non solo la seguii a Vienna, ma mi iscrissi anche alla stessa facoltà: traduttori e interpreti. Inoltre, un approfondimento della conoscenza del tedesco si imponeva, perché dopo due anni di studio lo parlavo discretamente bene, ma la difficoltà di questa lingua richiedeva un periodo di pratica ulteriore.
Nel frattempo lei si era trasferita in un appartamento più moderno e fornito di tutte le comodità, che condivideva all’inizio con una sua amica, ma adesso con il fratello terzogenito, voglioso di seguire le orme della sorella sul piano dell’istruzione scolastica. Tornammo ad abitare insieme, ma dopo 6 mesi di convivenza rompemmo definitivamente quel rapporto che durava ormai da quasi 6 anni, ma che era stato sempre alquanto fragile. Beate mi espresse il suo desiderio di formare una famiglia con me e mi chiese una risposta chiara, ma io non ero pronto, vedevo l’unione matrimoniale come un cappio al collo, insostenibile per il mio bisogno di libertà e per la mia necessità di effettuare cambiamenti repentini e radicali, e pur volendole bene uscii da quell’appartamento e dalla sua vita, anche se non del tutto. Mi trasferii in una bella casa che apparteneva ad una sua amica divorziata, che si sarebbe assentata per circa un anno.
Poco dopo il mio arrivo a Vienna incominciai a frequentare le lezioni all’università. Quei pochi giovani che si incontravano per le vie della città sembravano tutti concentrati lì. Tornare a frequentare un ambiente giovanile mi rianimò, almeno per i primi tempi, e così assistevo ai corsi con un certo entusiasmo. Mi sentivo nuovamente vivo! Non mi stavo affannando a cercare lavoro, perché in Italia avevo guadagnato bene e il mio conto corrente era in buona salute. Ma quando il vicedirettore dell’Istituto Italiano di Cultura, che era anche mio professore all’università, mi propose di diventare insegnante di italiano presso il suo Istituto, accettai con vero piacere. Questo è stato sicuramente il lavoro più piacevole e interessante che io abbia svolto nella mia carriera pre-conversione. Conobbi tantissime persone, per lo più giovani, che erano attratte dal calore italiano e che passavano le loro ferie principalmente nel nostro bel paese. C’era poi chi si innamorava dell’insegnante di italiano e non disdegnava una conoscenza più intima. Io, certo, non mi tiravo indietro! Mi sentivo un prim’attore quando salivo in cattedra e in maniera palpabile percepivo una certa ammirazione da parte dei miei allievi. Che emozione!
Mi feci alcuni amici e incominciai a conoscere meglio la città e i dintorni. Era tutto un altro vivere rispetto al mio primo impatto con la stessa città qualche anno prima. Ebbi anche l’occasione di visitare e di ammirare alcune capitali dell’antico impero asburgico, come Budapest e Praga, di sciare su alcune delle piste più spettacolari al mondo, di addentrarmi nel “Wienerwald”, il bosco viennese, di navigare sul bel Danubio blù, di fare dei picnic nelle campagne da sogno della Stiria, Carinzia e Burgenland, regioni orientali dell’Austria e non lontane dalla capitale. Stavo bene!
I primi nodi al pettine si presentarono all’università. Lì bisognava studiare e affrontare degli esami. Finché si trattava di frequentare il bar dell’ateneo per contattare amici e fare nuove conoscenze, o di distendersi sul prato interno per farsi accarezzare dal tepore del sole, andava tutto bene, ma dovevo ottenere anche dei risultati per giustificare la mia posizione di studente. Gli esami che potevo dare in lingua italiana non mi creavano grandi problemi, ma quelli in lingua tedesca rappresentavano un grosso ostacolo, soprattutto la traduzione di testi non certo semplici dall’italiano in tedesco: mi fumava il cervello. Non mi andava più di passare ore e ore alla scrivania per preparare questi esami che poi mi vedevano soccombere, data la loro oggettiva difficoltà. Tradurre e interpretare dal tedesco in italiano era una cosa che mi interessava e mi creava anche una certa soddisfazione, se capita lo faccio ancora oggi, ma il lavoro inverso era massacrante e i risultati frustranti. Il tedesco lo avevo imparato, chi me lo faceva fare di imbarcarmi in un’impresa così lunga e faticosa? Pensai di aver sbagliato facoltà e mi ritirai. Non volli, però, abbandonare lo studio, o forse meglio l’ambiente universitario, per cui all’inizio del nuovo anno accademico mi iscrissi a Filologia Romanza. Non lo feci per amore alla letteratura italiana, ma semplicemente perché mi sembrava uno studio più abbordabile, tenendosi tutte le lezioni nella mia lingua madre.
Dovevo, però, scegliere obbligatoriamente una seconda materia e mi decisi per Antropologia, anche se purtroppo tutte le lezioni si svolgevano in tedesco. Fu sufficiente che, circa 6 mesi dopo, il professore mi bocciasse un lavoro di ricerca abbastanza impegnativo, motivando il suo giudizio con l’argomentazione che era troppo zeppo di citazioni e con poca farina del mio sacco, per decidermi di ritirarmi anche da questa seconda facoltà. In fondo questa materia non mi piaceva affatto e abbandonarla non rappresentava poi una grossa perdita.
Tra il primo e il secondo anno accademico, però, era successo un episodio di una certa rilevanza. Io e Beate continuavamo a vederci, principalmente in facoltà, ma qualche volta anche in altre circostanze. La decisione di interrompere definitivamente la nostra relazione era ormai presa, ma restava pur sempre un notevole affetto l’uno per l’altra, che ci portava ogni tanto ad avere dei rapporti sessuali. E successe che, pur adottando misure anticoncezionali, rimase incinta. Non ci furono traumi particolari o lunghe discussioni per decidere quale fosse la decisione migliore da prendere: ad entrambi parve subito evidente che non restava altra soluzione che l’aborto. La legge lo permetteva e non ci furono ripensamenti. Dopo l’intervento venne a stare da me quei pochi giorni sufficienti per riprendersi, più fisicamente che non moralmente, e per evitare che il fratello si insospettisse e lo comunicasse alla famiglia, sicuramente contraria.
Non eravamo certo coscienti di commettere un omicidio, né di infrangere in questo modo una legge di Dio, perché nessuno dei due era credente praticante. Lei era piuttosto atea, mentre io pensavo dovesse esistere un Dio da qualche parte, ma non sapevo chi fosse e soprattutto non sapevo come cercarlo. In gioventù ero stato assiduo ai sacramenti e mi sentivo profondamente cattolico, ma verso i 18 anni, prendendo atto di profonde contraddizioni nel suo seno, persi la fede nell’Istituzione romana e non assistetti più a riti religiosi fino al giorno della mia conversione. Questo mio nuovo atteggiamento mi creò comunque un vuoto e una certa angoscia esistenziale, perché la morte diventava un salto nel buio, nel nulla, probabilmente nell’annullamento totale della persona, ed io in questo modo perdevo il senso della mia esistenza e vedevo inutile ogni sforzo per costruire una qualsiasi realtà che con la morte sarebbe poi stata spazzata via. Adesso per me Gesù non era altro che una brava persona che aveva vissuto in maniera coerente, che aveva praticato e trasmesso con il suo esempio sani principi, validi sicuramente anche ai giorni nostri, una persona da imitare, ma non avevo la minima coscienza che potesse essere Dio incarnato e che fosse il mezzo scelto dal Creatore per la nostra redenzione.
Non molto tempo dopo Beate conobbe un ragazzo ed iniziò con lui una relazione che sfociò un anno e mezzo più tardi nel matrimonio. Lei sembrava contenta, serena e non dava l’impressione di soffrire per sensi di colpa relativamente all’aborto praticato. Io non sentivo alcun peso sulla coscienza, anzi pensavo che se mi fossi venuto a trovare in seguito in una soluzione analoga, avrei agito nello stesso modo. Non avevo certo la coscienza di peccato, né portavo sulle spalle il peso del rimorso. Abortire per me era un fatto ormai acquisito, una conquista della nostra società, un’azione non condannabile, ma che rientrava nel rispetto della libertà altrui. E’ evidente che avrei fatto il possibile per evitare una gravidanza indesiderata, perché, non essendo del tutto insensibile all’idea che il peso maggiore di quella decisione ricadeva sulla donna, non volevo creare situazioni traumatiche per nessuno, ma era altrettanto evidente che non avrei esitato a proporre e a caldeggiare questa soluzione nel caso si fosse ripresentato il problema. Io e Beate ci siamo rivisti ancora molte volte, ma non abbiamo mai più sfiorato l’argomento. Da convertito, conosciuto il suo indirizzo da un amico comune, le scrissi per chiederle scusa.
Lo studio incominciava a pesarmi: richiedeva impegno, costanza, volontà nel perseguire la meta finale, capacità di affrontare la sofferenza e il sacrificio, ma io non possedevo più tutte queste caratteristiche. Piuttosto che a perseverare tendevo a fuggire. Avevo bisogno di dare un senso alla mia vita, di sperimentare una sensazione di realizzazione, di trovare un’utilità ai miei giorni, di poter ormeggiare la mia barca in un porto sicuro, al riparo dai flutti minacciosi del mare della vita. Bastava, infatti, una spallata, neanche troppo forte, per far crollare la mia illusione di aver forse trovato quell’insieme di condizioni che avrebbero potuto offrire pace e benessere al mio essere intero. E non trovando soddisfazione a questi miei bisogni, facevo la valigia e riprendevo il viaggio alla ricerca del paradiso perduto. Ma dov’era? In cosa consisteva? Non lo sapevo. Non avevo più al fianco neanche Beate, cioè non avevo più accanto qualcuno che mi volesse bene veramente. Ero libero, ma non avevo più alcun punto di riferimento. Se ero tornato a Vienna ed avevo intrapreso la carriera universitaria, se mi ero posto delle mete, ciò era dovuto al fatto che lì c’era qualcuno che mi aspettava, che mi desiderava, che apprezzava la mia persona, che mi faceva sentire importante per lei, che indirettamente dava una direzione alle mie scelte e che produceva nella mia mente la visione di un cammino da percorrere, che mi creava quel senso importante di appartenenza e non permetteva a quella realtà devastante che si chiama solitudine di invadere la mia anima, che mi creava quel sano legame per cui le mie decisioni dovevano tener conto dei bisogni di un’altra persona e non permetteva al mio egocentrismo mostruoso di occuparsi solo di me stesso e di rendermi incapace di amare, con la conseguenza di svuotare il mio cuore del valore più alto che rende la vita degna di essere vissuta.
Ero nella condizione ideale per poter decidere della mia vita come meglio credevo, non avevo interferenze di nessun tipo: non un lavoro fisso, non una moglie, non dei figli. Ma adesso che avevo a disposizione i 4 punti cardinali non sapevo che direzione prendere: sarei andato a est, ad ovest, a sud o a nord? Decisi, più per conoscere meglio le profondità del mio animo umano che per motivi di carriera, di frequentare le lezioni di psicologia. Non trovavo la facoltà giusta, questa era la terza in tre anni di università, o meglio non sapevo quale fosse il senso della mia vita e la funzione che vi avrei dovuto svolgere.
Stava tornando, ma con più veemenza, quel senso di vuoto e di solitudine che si era affacciato nella mia vita nell’ultima fase del mio soggiorno sul suolo tedesco. Questa volta, però, si aggregò un terzo incomodo: l’ossessione di morire di infarto! Come aveva potuto svilupparsi in me questo tipo di ansia e mettere in poco tempo radici così profonde da non potermene più liberare? Era dovuto alla precarietà del mio modo di vita? Si poteva ricollegare a quella circostanza della mia prima adolescenza in cui avevo visto in una sala da biliardo morire un tale proprio di infarto? O aveva a che fare con l’angoscia che mi aveva procurato la visione del film l’Esorcista, non molto tempo prima? Non lo sapevo e non mi interessava neanche saperlo, perché ormai ero schiavo di quest’ansia ed ero costretto, varie volte al giorno, a toccarmi il collo in corrispondenza della carotide per rassicurarmi, tramite il suo battito, che il mio cuore era ancora funzionante. Anche di notte non dormivo più tranquillamente, perché mi svegliavo di soprassalto con quest’angoscia e non era facile ritrovare il mio equilibrio psichico, cioè convincermi che erano solo attacchi di ansia e non veri attacchi di cuore. Ero sprofondato in un vero inferno! Come ne sarei uscito?
8 mesi dopo decisi di lasciare Vienna definitivamente. Avevo abitato in quella città per tre anni consecutivi, un piccolo record visti i miei precedenti. Io avevo da poco compiuto i 33 e non avevo la minima chiarezza sulle decisioni da prendere riguardo al mio futuro. Avevo le idee annebbiate. L’interesse per la psicologia, una volta rientrato in Italia, non si era spento, anzi avevo incominciato a leggere le opere classiche di Freud e Jung. Mi recai, così, a Padova, mi informai sui passi da fare per iscrivermi a quella facoltà e nell’occasione comprai già alcuni libri di testo. Sembravo deciso, ma, calmatasi l’onda emotiva, pensai che sarebbe stato meglio completare lo studio delle lingue straniere, concentrandomi sullo spagnolo prima e sull’inglese poi. Mi davo tempo ancora due anni, fino ai 35, perché quella era la soglia critica per riuscire ad inserirsi nel mondo del lavoro qui in Italia.
Partii allora per la Spagna in treno e, 48 ore dopo, giunsi a Malaga che, lungi da poterlo immaginare, sarebbe diventata il mio capolinea. Avevo scelto quella città perché mi era stata consigliata da un amico italiano conosciuto a Parigi, per la sua posizione geografica, sul mare, e per il suo clima. Non avrei mai potuto sospettare invece che l’avesse scelta Gesù Cristo per incontrarmi e tendermi la mano.
Parlavo già un po’ spagnolo e riuscivo quindi a farmi capire, anche se stentatamente, perché a Vienna avevo fatto amicizia con un giovane professore basco che insegnava la sua lingua all’università e mi ero messo a frequentare le sue lezioni. Anche il mio più grande amico del periodo viennese era spagnolo. Ma lo sforzo per approfondire questa lingua, per quanto facile fosse, mise a nudo la mia realtà: ero vuoto e completamente scarico di energie. Trovai una sistemazione in una pensioncina senza pretese del centro e mi iscrissi al corso di spagnolo per stranieri presso l’università. Tramite la scuola affittai una stanza, così come la prima volta a Parigi, all’interno dell’appartamento di una anziana vedova, che leggeva tutto il giorno la Bibbia, ma senza capirci più di tanto. Questi primi passi, che una volta rappresentavano uno stimolo portante, mi stavano adesso costando tanta fatica. Anche gli schemi, ormai sperimentati, per entrare nella mentalità della nuova lingua da imparare mi sembravano un fardello più che uno strumento per facilitarmi il raggiungimento di quella meta che tanto mi stimolava nel passato. L’idea poi di trasferirmi in Inghilterra dopo la tappa spagnola per completare il quadro delle mie conoscenze linguistiche, mi creava adesso un senso di oppressione e di costernazione. Non avevo più forze a disposizione, o meglio mi mancava la motivazione, per tentare nuove conquiste. Mi trovavo a fine corsa. Che direzione prendere? Che cosa fare? In che campo utilizzare tutto quel bagaglio di esperienze e conoscenze? Quali ideali mi restavano? Avrei voluto essere in cento posti contemporaneamente e avrei voluto fare cento cose nello stesso tempo, ma più che altro mi sentivo come paralizzato. Il mio essere intero era diviso ed era diventato ingovernabile. Certo, molte delle mie energie venivano consumate dal dover affrontare e in qualche modo superare le ansie di morire di infarto, che nel frattempo si erano fortificate.
Ero a Malaga da circa un mese e mezzo, era l’estate del 1979, e la mia stanchezza era arrivata già ad un tale livello che pensai fosse per me la soluzione migliore ritornare a Vienna e riprendere il mio lavoro di insegnante presso l’Istituto Italiano di Cultura. Scrissi alla direttrice facendole presente questa mia intenzione. Mi rendevo conto che questo mio ripensamento rappresentava per me una sorta di sconfitta, ma il ritorno ad una realtà che mi era familiare, anche se non del tutto soddisfacente, mi dava un vago senso di riposo, di benessere. Ciò era dovuto probabilmente all’idea di non dovermi più affaticare per adattarmi alle nuove circostanze della vita, all’accettazione dell’inutilità dei miei sforzi per arrivare ad uno stato di soddisfazione, di felicità, alla rassegnazione alla volontà del destino. Era una resa senza condizioni! Ero come al centro del Sahara, dovunque volgessi lo sguardo c’era solo deserto e nient’altro che deserto.
E fu a questo punto che mi venne incontro Gesù e mi offrì la sua soluzione. Il primo contatto era già avvenuto 5 anni prima a Monaco di Baviera quando mi fermai ad ascoltare uno strano tipo che volteggiava in aria un libro dalla copertina nera e parlava con un tono eccitato, un po’ da fanatico pensai. Mi si avvicinò un membro di quella comunità, si presentò come cristiano nato di nuovo e mi invitò a partecipare ad una delle loro riunioni. Fui contento di potermene andare, perché temevo chissà quale tentativo da parte loro di carpire la mia buona fede e di avvinghiarmi in una rete da cui non sarei potuto più uscire. Ripassando in seguito da quella stessa piazza e notando lo stesso predicatore sbracciarsi brandendo la Bibbia come era suo stile, mi guardai bene dal fermarmi una seconda volta. Non stavo certo rifiutando Gesù Cristo, ma mi proteggevo semplicemente dal cadere nelle mani di una setta estremista. Chi erano? Cosa volevano da me? Meglio starsene alla larga.
Quel pomeriggio ero andato in spiaggia a Torremolinos e mentre risalivo la scalinata che mi riportava in paese, un giovane mi offrì un volantino e mi propose di dialogare un po’ con lui. Era un ragazzo canadese che, invece di sfruttare le sue ferie per andarsene alle Hawaii, aveva preferito venire in Spagna per predicare la Parola di Dio. Questa volta non fuggii, avevo troppo bisogno di una parola di speranza e, non parlando lui lo spagnolo, ci mettemmo a dialogare in francese. Parlammo più di un’ora ed io contestavo pacatamente tutti i suoi argomenti.
Dovendo io prendere il treno locale per rientrare a Malaga, mi invitò a passare dalla comunità evangelica presso cui era ospite per farmi conoscere l’ambiente e indicarmi dove si svolgevano le loro riunioni. Accettai. Era una normalissima casa, con un giardino abbastanza spazioso, che accoglieva una ventina di giovani provenienti da tutte le parti del mondo e convertitisi in quella comunità. Torremolinos, oltre ad essere una famosa località balneare, occupava una posizione strategica, perché situata sulla strada per il Marocco. Era l’ora in cui stavano imbandendo la tavola per mettersi a cenare, vedevo un via vai di giovani ed una ragazza francese si fermò per fare la mia conoscenza. Mentre prendevo coscienza nella mia mente che quell’ambiente mi imbarazzava e che quella ragazza mi faceva sentire a disagio, percepii improvvisamente come una spinta dietro la schiena che mi obbligò ad andarmene. Salutai in tutta fretta quei due giovani e mi affrettai verso la stazione del treno. Ero in salvo!
Il giorno dopo, uscendo dall’università e incamminandomi verso casa, notai all’angolo della strada un tavolino con alcuni libri. Mi avvicinai incuriosito e un giovane, seduto su di uno sgabellino, si alzò e mi salutò gentilmente. Non mi ero ancora ben reso conto che temi affrontassero i titoli di quei libri, quando il ragazzo mi disse: “Siamo cristiani, abbiamo fatto un incontro personale con Gesù!”. Per la mia mente quelle erano parole vuote, prive di significato, ma altre cose invece mi colpirono, come il sorriso di quel giovane, la serenità che emanava dal suo volto, la convinzione di quanto affermava, la passione nel comunicare il suo credo. Rimasi attratto dal suo modo di fare, anche se me ne andai abbastanza in fretta per quel senso di disagio già sperimentato a Torremolinos.
Un paio di giorni dopo, passeggiando la sera per il viale principale di Malaga, vidi un capannello di gente e mi avvicinai. Un uomo stava predicando di Gesù e non mi ci volle molto tempo per capire che era sulla stessa linea di quei giovani che mi avevano parlato alcuni giorni prima. Mi fermai ad ascoltare, perché quelle parole mi stavano producendo un certo benessere, anche se non capivo il loro significato profondo. Alla fine mi diedero un volantino con un breve messaggio e l’indirizzo della loro comunità e mi invitarono a partecipare ad una delle loro riunioni. Se i primi due gruppi che mi avevano contattato appartenevano alla stessa Chiesa, che faceva riferimento ad un missionario italo-americano stabilitosi a Torremolinos da diverso tempo, quest’ultimo faceva parte della stessa realtà evangelica, solo non pentecostale. Ero come accerchiato, il Signore mi stava cercando e chiamando, ma io non lo sapevo ancora.
Passarono ancora un paio di giorni e, uscendo da scuola, ritrovai quel tavolino all’angolo della strada e quel giovane sorridente. E questa volta successe l’impensabile. Mentre quel ragazzo mi stava raccontando come Gesù lo aveva liberato dalla droga, anche se di tipo leggero, e gli aveva ricreato gli stimoli per concludere i suoi studi, io percepii improvvisamente la certezza che Gesù Cristo era il Figlio di Dio, il Salvatore dell’umanità, che io ero un peccatore, separato da Dio e candidato all’inferno, e che il diavolo non solo era reale, ma governava la mia vita.
Era come se una nebbia si fosse diradata per incanto dalla mia mente e mi consentisse adesso di vedere al di là di quel muro, avendo di colpo tutte quelle risposte che per 8 anni avevo cercato inutilmente nei miei spostamenti da una nazione all’altra. Ero eccitato! Dio si era rivelato nella mia vita! Non riuscivo però ancora a dare una vera dimensione a quanto mi stava succedendo, perché ero troppo concentrato a godermi questa nuova sensazione di benessere che sperimentava il mio essere intero. Mi era tornata la gioia di vivere e percepivo nuove energie a mia disposizione.
Questa volta non ero più dominato dalla voglia di fuggire, temendo di cadere in qualche trappola, ma ero fortemente attratto da questa Parola e da chi me la proponeva, e così, dopo 15 anni, decisi di rimettere piede in una chiesa. In verità partecipai a riunioni di entrambe le comunità che mi avevano presentato il Vangelo, ma non ebbi nessuna esitazione nel scegliere quella pentecostale. Le riunioni duravano due ore, ma per me erano sempre troppo brevi. I cantici erano come un balsamo e la predicazione come una ricarica energetica.
Stavo bene, ero come rinato. Mi proposero di venire a vivere in comunità ed io non me lo feci ripetere due volte. Sotto la chiesa avevano ricavato uno spazio abitabile: un dormitorio, con 5-6 letti a castello, un refettorio e una cucina. Il “sotano”, così era chiamato in spagnolo, era un luogo abbastanza angusto e privo di luce naturale, perché sotto il livello stradale, dove si respirava un’aria alquanto pesante, sia per gli odori che provenivano dalla cucina che per quelli emanati dagli ospiti (alcuni erano giovani emarginati raccolti per strada con il proposito di dar loro un tetto, ma soprattutto l’opportunità di conoscere Gesù) e non disponeva di acqua corrente, bisognava infatti attingere al rubinetto della vasca battesimale al piano superiore, che fungeva anche da doccia, ma ciononostante io mi sentivo come in una reggia e vedevo quell’ambiente come un piccolo paradiso, perché il paradiso era entrato in me.
La domenica successiva al mio trasferimento in quella comunità, verso la fine del culto, percepii in testa come un flash da anestesia, un’onda energetica fresca, che lì per lì mi spaventò perché ne ignoravo l’origine, e che incominciò ad invadere lentamente il mio corpo intero. Ne resi partecipe il fratello che mi stava in parte e questi mi rassicurò dicendomi che era sicuramente opera dello Spirito Santo. Mi tranquillizzai un po’ e mi concentrai con più fiducia su questa esperienza, ringraziandone il Signore. Questa specie di doccia rinfrescante e purificatrice scese adagio adagio fino ai piedi e tutto il mio corpo rimase per alcuni minuti sotto il suo benefico influsso. Mi sentivo leggero, come lavato interiormente, pulito, avvolto da una pace inverosimile, gioioso. Gesù aveva preso possesso del mio cuore, mi aveva purificato da tutti i miei peccati e reso presentabile a Dio: ero nato di nuovo! Nei giorni seguenti poi mi resi conto di un altro grande miracolo: era scomparsa la mia angoscia di morire di infarto! Mi sentivo libero da quel tremendo flagello, non c’era più in me la paura che il mio cuore potesse cedere, non c’era più la preoccupazione che questa ossessione potesse ripresentarsi. Ero libero, libero, libero! Non mi sembrava vero, era come se mi fossi tolto un peso di un quintale dalle spalle e volevo saltare di gioia. Solo chi ha sofferto di questa forma ossessiva può capire la grandezza della liberazione che mi era stata concessa. Sentivo una profonda riconoscenza per Gesù e non mi fu difficile consacrargli la mia vita.
Questa liberazione o guarigione ha rappresentato sempre un punto fondamentale della mia testimonianza, sia che la esprimessi in chiesa o nelle piazze, dove anch’io, da subito, ho dato il mio contributo perché la luce della verità del Vangelo illuminasse i cuori di chi era soggiogato dalle tenebre.
Tre settimane dopo, durante una campagna evangelistica, feci un’altra esperienza magnifica e importante per lo sviluppo della mia vita cristiana: fui battezzato di Spirito Santo e parlai in lingue strane. Alla fine della predicazione risposi ad un appello del pastore rivolto a chi avesse bisogno di guarigione. Non era per me, ma per mia madre che stava soffrendo sul piano fisico. Io non potevo né consolarla, né aiutarla perché 2000 km ci separavano, ma per Dio tutto era possibile. Il mio pastore, sentita la mia richiesta, mi impose le mani e iniziò a pregare affinché il Signore intervenisse con il suo amore e la sua potenza. Sospinto da un impulso irrefrenabile, non aspettai la fine di quella preghiera e mi sovrapposi ad essa, invocando con ardore e passionalità la guarigione per mia madre.
I miei fratelli capirono quello che mi stava succedendo e si misero a pregare per me, invitandomi ad aprire cuore e mente alla possibilità di essere battezzato in Spirito Santo, cioè di ricevere la sua potenza. Di lì a poco incominciai a percepire come un formicolio in corrispondenza dei due mignoli, che si estese abbastanza rapidamente alle mani e poi agli avambracci. L’effetto adesso era come quello di una corrente elettrica benigna, che invase presto il mio corpo intero fino a diventare come un fiume in piena, un vortice impetuoso. Ero in piedi con le braccia alzate al cielo, le gambe tremanti, una leggera apprensione per non aver mai fatto un’esperienza analoga, ma la mente aperta in totale fiducia all’azione dello Spirito Santo. Ad un certo punto due parole in una lingua a me sconosciuta presero possesso della mia mente e mi sentii sospinto ad esprimerle. Più le pronunciavo, più le sentivo mie e più mi sentivo ripieno di Spirito Santo. Ero stato battezzato come nel giorno di Pentecoste e adesso ero equipaggiato per poter diventare un testimone più efficace della Parola, per poter compiere appieno la chiamata al ministero che il Signore avrebbe voluto affidarmi.
Decisi di rimanere in quella comunità fino al giorno in cui il Signore mi avrebbe fatto capire di andarmene. Ero come risorto da una specie di morte e non potevo fare altro che offrire la mia vita inutile a chi l’aveva resa adesso degna di essere vissuta. Dopo un anno venni designato responsabile di quella comunità e iniziò lì il mio cammino verso una posizione di leader nella Chiesa di Gesù Cristo. Dove? L’avrei saputo in seguito. Dopo un anno ancora mi trasferii in un paesino della provincia di Malaga, in cui si erano convertite 4 ragazze, per cercare di diffondervi il Vangelo e lasciai naturalmente la responsabilità della comunità.
Gli inizi furono positivi ed io mi sentivo stimolato a continuare, ma purtroppo mi invaghii di una signora divorziata, senza peraltro mai dichiararle i miei sentimenti, e il mio pastore mi consigliò di abbandonare quel luogo. Cosa che io feci prontamente, anche perché, un paio di giorni prima, mentre ero in preghiera nella mia stanzetta e chiedevo al Signore che mi sgombrasse la strada da ogni ostacolo che poteva impedire quella relazione, aprii la Bibbia a caso e puntai il dito altrettanto casualmente su di un punto di quella pagina, confidando in una sua parola di speranza. Ma come trafitto da una spada lessi: “Non prender moglie e non aver figli né figlie in questo luogo” (Geremia 16:2). Dio aveva dato la sua sentenza, a me trarne le conclusioni. I suoi progetti erano altri ed io li avrei scoperti rientrando in Italia. Eravamo nel mese di novembre del 1981.
Si stava preparando la svolta della mia vita come figlio di Dio, sia sul piano ministeriale che su quello personale. Dopo 2 anni di autentico paradiso dovetti incontrarmi nuovamente con la sofferenza. Mi costò molto lasciare quel luogo, sia per questioni sentimentali ma molto più per motivi ministeriali. Dopo due settimane, passate in casa di un caro fratello che fece il possibile per aiutarmi a superare questa fase critica, venni guidato dal Signore a trasferirmi a Granada presso una comunità appartenente alla stessa organizzazione. Nei 6 mesi che seguirono, un po’ penosi perché mi sentivo in una posizione di parcheggio e, di conseguenza, non partecipe al 100% di quell’opera, maturai la convinzione di rientrare in Italia, e in particolare a Bergamo, sulla base anche di una profezia da parte di Dio che mi confermava la partenza per una destinazione che Lui mi avrebbe messo nel cuore. Così, soddisfatto di muovermi da quella fase di stallo e voglioso di ritornare a lavorare nella vigna del Signore, nel mese di giugno del 1982, tre anni dopo la mia conversione, ritornai in patria.