LA LIBERTA’ DI SBAGLIARE
Oltre a questa meditazione il pastore Lamberto Fontana ha scritto quattro libri:
“Voi dunque siate perfetti, com’è perfetto il Padre vostro celeste” (Matteo 5:48).
“E, come figlioli d’ubbidienza, non vi conformate alle concupiscenze del tempo passato quand’eravate nell’ignoranza; ma come colui che vi ha chiamati è santo, anche voi siate santi in tutta la vostra condotta” (1 Pietro 1:14-15).
“Di poi Gesù lo trovò (il paralitico di Betesda) nel tempio, e gli disse: Ecco,tu sei stato guarito; non peccar più, che non t’accada di peggio” (Giovanni 5:14).
Dalla lettura di questi versetti potremmo intendere che per gradire Dio bisogna essere perfetti, santi e immuni dal peccato. E soprattutto chi ha avuto un’infanzia caratterizzata da una educazione piuttosto severa, basata sulla meritocrazia per essere degni di ricevere le attenzioni e l’approvazione dei genitori, o chi è cresciuto col senso di colpa per non essersi mai sentito all’altezza delle richieste del papà o della mamma, o chi non ha avuto la presenza continua e affettuosa dei genitori perché impegnati in attività esterne alla casa e decisamente stressanti per cui non avevano né tempo, né energie per occuparsi dei figli, o chi è stato rinchiuso in collegio o, peggio ancora, è stato abbandonato in tenera età, tende ad entrare in una spirale di perfezionismo perché sospinto dall’ansia di essere approvato e, di conseguenza, amato da chi lo ha concepito e indirettamente anche da chi lo circonda ed entra in relazione con lui. La stessa cosa succede nei confronti di Dio, il Padre celeste, che ci ha generati nello Spirito.
Bisogna quindi fare una netta distinzione tra “Perfezionismo” e “Ricerca della perfezione”. Il primo è un impulso prettamente carnale che deve portare l’interessato a liberarsi dall’ansia del rifiuto da parte di chi entra in contatto con lui, mentre la seconda è il desiderio di raggiungere una meta ritenuta buona per la propria vita, utilizzando tutte le risorse che il mondo esterno gli offre. Riportando il tutto nel campo spirituale, il perfezionista vuole sentirsi gradito a Dio tramite i suoi sforzi umani (“Siete voi così insensati? Dopo aver cominciato con lo Spirito, volete ora raggiungere la perfezione con la carne?” Galati 3:3), mentre colui che cerca la perfezione si appoggia interamente su Gesù Cristo (“Io sono la vite, voi siete i tralci. Colui che dimora in me e nel quale io dimoro, porta molto frutto; perché senza di me non potete far nulla” Giovanni 15:5).
Dio desidera che noi diventiamo simili a Cristo e tutti i suoi interventi nella nostra vita tendono a questo scopo. Vuole plasmare il nostro carattere fino al punto di rispecchiare l’animo di Gesù, e cioè fino al punto che il frutto dello Spirito diventi la nostra attitudine naturale: amore, allegrezza, pace, longanimità, benignità, bontà, fedeltà, dolcezza, temperanza (Galati 5:22). L’amore, poi, comprende altri aspetti come l’umiltà, la misericordia, la compassione, la sottomissione, il perdono, che Dio apprezza molto e che fanno parte di quel tesoro che Lui ci vuole offrire e, soprattutto, incidere nei nostri cuori. Ma come si possono sviluppare queste virtù nella nostra vita?
Gesù, nel discorso della montagna, ha detto: “Beati i poveri in ispirito, perché di loro è il regno de’ cieli” (Matteo 5:3) e Giovanni nella sua prima epistola dichiara: “Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi, e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, Egli è fedele e giusto da rimetterci i peccati e purificarci da ogni iniquità” (1 Giovanni 1:8-9). Quindi, solo chi vede le proprie debolezze e le confessa può sperare di esserne liberato, di vedere come conseguenza la santità di Gesù e di lasciarsene governare per sua decisione personale. E’ quanto espresso anche dall’apostolo Paolo: “Tre volte ho pregato il Signore perché l’allontanasse da me (una scheggia nella carne); ed egli mi ha detto: La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza. Perciò molto volentieri mi glorierò piuttosto delle mie debolezze, onde la potenza di Cristo riposi su di me. Per questo io mi compiaccio in debolezze, in ingiurie, in necessità, in persecuzioni, in angustie per amor di Cristo; perché quando son debole, allora sono forte” (2 Corinzi 12:8-10).
Consideriamo adesso un esempio tratto dalle Scritture:
In Luca 15 ci viene presentato un giovane che, stanco di sottostare alle regole della casa del padre e voglioso di godere della vita gestendosela a suo piacimento, chiede la sua parte di eredità e lascia la famiglia per avventurarsi nel mondo. Si dà ad una vita dissoluta e nel giro di breve tempo sperpera tutta la sua fortuna. Trovandosi nel bisogno, pur di sopravvivere, accetta di pascolare dei porci. E’ profondamente umiliato, si disprezza e ripensa con nostalgia ai tempi in cui viveva nell’abbondanza e nel rispetto di se stesso a casa di suo padre. Ritorna in sé, cioè capisce il grave errore che ha commesso ed è disposto a riconoscerlo pubblicamente chiedendo perdono. Ritorna e, consapevole di non poter più aspettarsi il riconoscimento di figlio, chiedo il reintegro in quella casa con le mansioni di servo. Il suo pentimento è genuino, il padre lo percepisce, lo abbraccia come se nulla fosse successo e organizza una grande festa per la gioia di aver ritrovato un figlio creduto ormai morto.
Il giovane rimane stupito per l’accoglienza, sa di meritare una forte reprimenda ed è cosciente che il padre potrebbe chiudergli la porta in faccia. Teme il rifiuto e invece viene abbracciato e baciato. Pensa, a ragione, di sentirsi odiato per quanto commesso e invece si sente amato, forse per la prima volta in vita sua. E’ cosciente adesso che è la sua persona che interessa al padre e non i risultati ottenuti, si sente amato per quello che è e non per quello che ha fatto o prodotto. Teme di essere spogliato, destituito dalla sua posizione di figlio e invece si vede rivestire con la veste più bella. Pensa di ricevere disprezzo e ingiurie e invece in suo onore viene ammazzato il vitello ingrassato, riservato alle grandi occasioni. Pensa di trovare volti corrucciati, sguardi sfuggenti e esprimenti condanna e invece per il suo ritorno viene organizzata una grande festa. Si avvicina alla casa paterna con profonda insicurezza perché non sa come verrà accolto, ma adesso si sente sicuro, sa con certezza che il padre non lo rifiuterà mai, qualunque cosa possa succedere o lui possa compiere di sbagliato.
Il suo grave peccato, determinato dalla concupiscienza naturale non controllata, si sta rivelando una fonte di grande benedizione. Diventa cosciente di cose che prima non percepiva minimamente, e cioè l’amore del padre nei suoi confronti, il valore che rappresenta agli occhi del genitore, la sicurezza di non venire mai abbandonato, il senso di protezione dalle insidie del mondo da parte delle mura domestiche, ossia da parte dell’osservanza alle regole paterne. Percepisce anche una nuova visione del concetto di libertà. Infatti è per libera scelta che è tornato dal padre e accetta le regole della casa. Prima si vedeva in gabbia, limitato, frustrato nei suoi desideri, con un’unica meta nella mente: evadere da quella situazione. Adesso nessuno gli impone niente perché è lui che si è sottomesso spontaneamente e con gioia. Adesso ha capito che la libertà non è dar libero sfogo ai propri istinti, alle proprie passioni, ma piuttosto svincolarsi dal potere che questi stessi esercitano sulla sua persona e, in fondo, la schiavizzano. Ha compreso il concetto di misericordia, essendo cosciente di non meritare alcun favore, ed è quindi diventato capace di offrire questo bene prezioso al suo prossimo. La misericordia è una virtù essenziale per convivere con gli altri, per favorirne lo sviluppo della personalità e del senso di dignità, senza condannarli, rifiutarli, schiacciarli, usarli o ridicolizzarli.
Nella parabola compare un terzo personaggio: il fratello maggiore. Questi è l’esatto opposto del secondogenito, perché è sottomesso, ubbidiente, fedele, consacrato al servizio e ligio al dovere. Ha sempre avuto un comportamento esemplare e irreprensibile, ha agito in maniera semplicemente perfetta. Ma la sua è una perfezione formale, dettata dal senso del dovere, basata quindi sulla legge e non sull’amore. Ma sia san Paolo: “Non abbiate altro debito con alcuno se non d’amarvi gli uni gli altri; perché chi ama il prossimo ha adempiuto la legge…L’amore non fa male alcuno al prossimo; l’amore, quindi, è l’adempimento della legge” (Romani 13:8-10), che Giovanni: “Dio è amore; e chi dimora nell’amore dimora in Dio, e Dio dimora in lui” (1 Giovanni 4:16), ci dicono che la manifestazione tangibile dell’amore è la dimostrazione della nostra perfezione spirituale.
La perfezione legalista del fratello maggiore, invece, lo porta
1) a sentirsi vittima di un’ingiustizia. Vive, infatti, con il concetto della meritocrazia, cioè del meritare per quanto fatto. E’ più centrato sul suo diritto che non sul datore della ricompensa;
2) a considerarsi buono, ma ad essere incapace di fare del bene. Il concetto della meritocrazia lo ha indurito e in lui manca totalmente il senso della misericordia. Anzi, è la condanna che governa la sua mente e il suo cuore;
3) a pretendere, ma ad essere incapace di dare. Per il suo impegno e serietà si aspetta approvazione e attenzioni. Pensa che gli altri debbano accorgersi di lui e lodarlo e premiarlo, ma lui non vede gli altri se non per quello che hanno prodotto o realizzato;
4) ad essere geloso e a non percepire la compassione. Non sente il dolore del fratello e non realizza il suo dramma, ma alimenta solo rabbia perché non vede valorizzata la sua persona, le sue prestazioni e i suoi sacrifici;
5) a non percepire la riconoscenza, pensando che tutto gli sia dovuto.
Il peccato ha permesso al figlio minore di conoscere il cuore del padre e di entrare in una relazione più intima con lui, mentre il legalismo del primogenito ha prodotto solo freddezza e più distacco nel rapporto col genitore. Lo sbaglio in questo caso non solo non ha chiuso l’accesso al trono della grazia, ma aperto le cataratte del Cielo per una benedizione abbondante. Non dobbiamo certo lasciare volontariamente che la carne ci domini e ci allontani progressivamente da Dio, perché “ciò a cui la carne ha l’animo è inimicizia contro Dio” (Romani 8:7), ma non dobbiamo neanche temere di sbagliare, paventando un rifiuto da parte del nostro Padre celeste per non soddisfare le sue richieste, perché “qual è il figliolo che il Padre non corregga?…Egli lo fa per l’util nostro, affinché siamo partecipi della sua santità. Or ogni disciplina sembra, è vero, per il presente non esser causa d’allegrezza, ma di tristizia; però rende poi un pacifico frutto di giustizia a quelli che sono stati per essa esercitati” (Ebrei 12:7,10-11).