NON GIUDICARE
“Non
giudicate secondo l'apparenza, ma giudicate con giusto giudizio” (Giovanni
7:24).
Questo versetto ci permette
di sfatare un luogo comune, entrato ormai nello schema mentale del buon
cristiano, e cioè quello che un credente ripieno di Spirito Santo non deve
permettersi di giudicare un fratello in fede, ma nemmeno gli esterni alla
chiesa, perché violerebbe un principio di santità espresso da Gesù.
E siccome molti hanno la
necessità di evitare qualsiasi forma di critica e di apparire apprezzabili e
degni di lode agli occhi di chi li osserva, si vive, in larghi strati del popolo
di Dio, in una evidente ipocrisia e superficialità.
Per ipocrisia spirituale
intendo quello stile di vita che si propone di creare in chi osserva il
convincimento di essere persone radicate fermamente sui principi biblici, di cui
si dà ampia dimostrazione esibendo conoscenza scritturale, e contraddistinte da
una realtà di benedizione divina quasi permanente e ovvia, in contrasto però con
i veri pensieri e sentimenti che riempiono mente e cuore.
Per superficialità
spirituale intendo la tendenza a ripetere meccanicamente concetti
comportamentali, avvallati dalle Scritture, senza averli compresi. Per esempio:
“Allora
s'accostarono a Gesù dei Farisei e degli scribi venuti da Gerusalemme, e gli
dissero: Perché i tuoi discepoli trasgrediscono la tradizione degli antichi?
poiché non si lavano le mani quando prendono cibo. Ma egli rispose loro: E voi,
perché trasgredite il comandamento di Dio a motivo della vostra tradizione?...E
chiamata a sé la moltitudine, disse loro: Ascoltate e intendete. Non è quel che
entra nella bocca che contamina l'uomo; ma quel che esce dalla bocca, ecco quel
che contamina l'uomo...Non capite voi che tutto quello che entra nella bocca va
nel ventre ed è gettato fuori nella latrina? Ma quel che esce dalla bocca viene
dal cuore, ed è quello che contamina l'uomo. Poiché dal cuore vengono pensieri
malvagi, omicidi, adulteri, fornicazioni, furti, false testimonianze,
diffamazioni. Queste son le cose che contaminano l'uomo; ma il mangiare con le
mani non lavate non contamina l'uomo” (Matteo 15:1-3,10-11,17-20).
Ma nel momento in cui noi,
per dimostrarci persone spirituali e vicine a Dio, a chi onestamente esprime il
suo stato di sofferenza e di perplessità per quanto il Signore stia permettendo
nella sua vita rispondiamo con parole formalmente tratte dalla Scrittura:
“Se
hai fede quanto un granel di senapa, potrai dire a questo monte: Passa di qua
là, e passerà; e niente ti sarà impossibile” (Matteo 17:20), oppure: “Rallegrati
del continuo nel Signore. Da capo dico: Rallegrati” (Filippesi 4:4), o
ancora: “Il salario del peccato è
la morte” (Romani 6:23),
è come se dicessimo (giudizio)
a quel fratello o a quella sorella che sta dimostrando mancanza di fede o di
riconoscenza a Dio, concentrandosi più sui suoi bisogni carnali che sulla
grandezza della salvezza ricevuta in Cristo o, peggio ancora, di essere afflitto
e non benedetto dal Signore a causa di un peccato non confessato e ripetuto
volontariamente.
Stiamo, cioè, dicendo a
quel fratello o a quella sorella che è colpa sua (condanna) se si trova
in quella condizione e che il castigo, rappresentato dalla sofferenza percepita
o dalla mancanza di felicità, è il giusto compenso al suo comportamento
sbagliato.
Usiamo la Parola,
dimostrando al tempo stesso di conoscerla così come deve essere per un buon
cristiano, non per dare vita: “In verità
io vi dico: Chi ascolta la mia parola e crede a Colui che mi ha mandato, ha vita
eterna; e non viene in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita”
(Giovanni 5:24), ma per schiacciare sotto il peso della colpa e dell’indegnità
comportamentale: “La nostra capacità
viene da Dio, che ci ha anche resi capaci di essere ministri di un nuovo patto,
non di lettera, ma di spirito; perché la lettera uccide, ma lo spirito vivifica”
(2 Corinzi 3:6).
Infatti, se non impregnata
di misericordia e della vera motivazione per cui ci è stata data, e cioè la
salvezza e la guarigione delle nostre anime: “E
se sapeste che cosa significhi: Voglio misericordia e non sacrifizio, voi non
avreste condannato gli innocenti” (Matteo 12:7), “Infatti
Iddio non ha mandato il suo Figliolo [la Parola fatta carne]
per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui”
(Giovanni 3:17), la Parola diventa un’arma mortale perché ci inchioda alla
nostra incapacità di applicarla, sia per chi la propone come obbligo legale, al
di fuori di ogni motivazione creata dall’amore, che per chi la deve far propria
come atto formale per soddisfare il legislatore.
E questo ci viene
confermato nella lettera ai Romani: “Noi
sappiamo infatti che la legge è spirituale; ma io son carnale, venduto schiavo
al peccato. Perché io non approvo quello che faccio; poiché non faccio quel che
voglio, ma faccio quello che odio. Ora, se faccio quello che non voglio, io
ammetto che la legge è buona; e allora non son più io che lo faccio; ma è il
peccato che abita in me...Poiché io mi diletto nella legge di Dio, secondo
l'uomo interno; ma veggo un'altra legge nelle mie membra, che combatte contro la
legge della mia mente, e mi rende prigione della legge del peccato che è nelle
mie membra. Misero me uomo! Chi mi trarrà da questo corpo di morte?” (Romani
7:14-17,22-24).
La dimostrazione di
conoscenza dottrinale, o l'uso della Parola per toglierci dall'imbarazzo di
dover dare una risposta che ci esponga alla critica quando siamo sollecitati da
un nostro fratello a prendere posizione, si rivela un giogo insostenibile per
lui e una autocondanna per noi: “Perciò,
o uomo, chiunque tu sii che giudichi [o che fai notare cosa bisogna fare
seconda la Scrittura], sei inescusabile;
poiché nel giudicare gli altri, tu condanni te stesso; perché tu che giudichi
fai le medesime cose” (Romani 2:1).
Se avessimo solo un po'
dell'amore di Gesù per il nostro prossimo, prima di concentrarci sulla risposta
da dare per non rivelare impreparazione o ignoranza spirituale e prima ancora di
cercare la soluzione da offrire per non trovarci in una lacuna scritturale che
minerebbe alla base le nostre certezze, cercheremmo di ascoltare il nostro
interlocutore per dargli la possibilità di scaricare il peso che ha sul cuore e
capire meglio così la realtà della sua inquietudine, retroscena inclusi.
Solo dopo, appoggiandoci
soprattutto sulla sapienza di Gesù, potremo prospettargli le ragioni per cui il
Signore può aver permesso quelle circostanze nella sua vita o indicargli un
percorso per affrontare e vincere quegli impedimenti che tendono a tenerlo
lontano da Dio.